Brandolini, Aurelio Lippo
Nato a Firenze nel 1454 circa, visse in prevalenza a Napoli e a Roma prima di recarsi in Ungheria nel 1489-90; fece quindi ritorno nella sua città, dove fu docente di retorica allo Studio (1490-91) e, nel 1491, entrò nell’ordine agostiniano. Morì nel 1497. Nella sua produzione, interamente latina, spiccano l’Epithoma o Sacra Hebreorum historia (riscrittura dei libri storici del Vecchio Testamento in elegante latino umanistico) e i dialoghi De humanae vitae conditione et toleranda corporis aegritudine e De comparatione reipublicae et regni.
Proprio quest’ultimo riveste una certa importanza in ottica machiavelliana. Si tratta di un dialogo in tre libri (interlocutori il re d’Ungheria Mattia Corvino, suo figlio Giovanni e l’ottimate, diplomatico e cavaliere fiorentino Domenico Giugni) avviato nel 1489 a Buda per Mattia, che però morì mentre l’autore ci stava ancora lavorando; B., tornato a Firenze nei primi mesi del 1490, completò l’opera e la dedicò a Lorenzo de’ Medici non oltre l’autunno dello stesso anno. È vero che il dialogo venne ultimato a Firenze dopo la morte di Mattia, e che probabilmente, se B. avesse potuto dedicarlo al re ungherese, il testo sarebbe stato in parte diverso da come lo leggiamo oggi; tuttavia, senza dubbio invariato è rimasto il nucleo centrale dell’opera, che consiste nella dimostrazione della superiorità del regno sulla repubblica, nella dura critica degli ordinamenti fiorentini e nella capitolazione finale e totale del vecchio Giugni (uomo legatissimo a Lorenzo, e qui introdotto come sostenitore del governo repubblicano, ma anche in quanto buon conoscitore del principato, grazie ai suoi frequenti viaggi commerciali e diplomatici in Ungheria) di fronte alle incalzanti argomentazioni dell’altro principale interlocutore, lo stesso Mattia Corvino (che ovviamente si fa paladino della monarchia).
Al di là di alcune affinità generiche, facenti capo a tematiche assai diffuse (la polemica contro le armi mercenarie, o la necessità per l’ottimo principe di possedere una solida perizia teorica e pratica nella disciplina militare), le affinità con il pensiero di M. si colgono soprattutto nell’insolito ‘realismo’ politico e nell’acuminata analisi della situazione fiorentina, condotta da re Mattia ma alla fine condivisa anche da Giugni, che pure si presenta come rappresentante della tradizionale ideologia (e retorica) repubblicana. Per esempio, Mattia afferma, e fa riconoscere a Giugni, che a Firenze difettano sia la libertas sia l’aequalitas e la iustitia (mentre viceversa impera una clamorosa disuguaglianza socioeconomica e politica); che i commerci cui le repubbliche si dedicano alacremente sono fonte di corruzione morale, sociale e culturale; che i meccanismi fiorentini di governo sono inefficienti e farraginosi (tanto da fornire garanzie solo apparenti di imparzialità e di libertà); che la città è preda delle discordie intestine (da cui sarebbe già stata distrutta se non avesse potuto contare sulla virtù e sull’autorità del moderator Lorenzo); che i membri delle magistrature fiorentine, essendo artigiani e mercanti, non possono avere la necessaria esperienza e competenza politica (ragion per cui meglio fanno i veneziani, che scelgono i propri governanti solo fra i nobili); che Firenze è vessata da crudeli tiranni – i cittadini che detengono le ricchezze – e governata da un senato i cui membri, non dovendo render conto a nessuno e non potendo sperare alcun premio dal loro retto operare, agiscono soltanto in vista del proprio personale tornaconto: che, insomma, libertà, giustizia e uguaglianza sono meglio tutelate in un principato che in una repubblica.
Per trovare qualcosa di analogo prima di M. bisogna ricorrere a scritti di letterati e storici ‘non allineati’ (come l’albertiano De iciarchia o la cosiddetta Nuova opera di Giovanni Cavalcanti), e soprattutto a libelli di fiera polemica antimedicea come il mai divulgato Dialogus de libertate di Alamanno Rinuccini (1479). La diagnosi in merito alla corruzione della Repubblica fiorentina messa in bocca da B. al sovrano ungherese non differisce di molto da quella di Rinuccini: la differenza sta nel punto di vista e nella soluzione auspicata, che per Rinuccini consiste nel-l’eliminazione del tiranno Lorenzo e nell’abbattimento del potere mediceo, mentre B. vede nel crescente potere della famiglia egemone l’unico possibile argine alla degenerazione degli ordinamenti repubblicani della città, e lascia intendere che il rafforzamento cospicuo dell’autorità dei Medici è l’unico, benché in apparenza paradossale, mezzo per tenere in vita quel che resta della Florentina libertas.
Le posizioni di B. divergono da quelle di M. in merito ad alcuni punti che risultano non secondari, soprattutto riguardo alla libertas (che per B. non implica la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, ma si risolve nella semplice indipendenza dello Stato fiorentino) e all’aequalitas, ossia alla possibilità concessa ugualmente ai nobili e al popolo di accedere alle cariche politiche (possibilità che secondo M. a Firenze è effettiva e non solo formale, come ribadito in Discorsi I lv e nel Discursus florentinarum rerum, §§ 48-53). Tuttavia, il De comparatione rivela indubbi aspetti premachiavelliani: in particolare, una visione non diversa da quella di B. emerge nel cap. I xviii dei Discorsi, dove la possibilità di tenere in vita una «repubblica corrotta» è individuata esclusivamente nell’affermazione di una «podestà quasi regia» capace di «frenare» la prepotenza dei cittadini che rifiutino di assoggettarsi alle leggi. M. non cita i Medici, né fa alcun riferimento esplicito a Firenze, ma sta certo pensando alla storia recente della sua città, in cui a partire dal 1434 – con l’instaurazione del regime di Cosimo il Vecchio – venne introdotto un potere de facto principesco all’interno della costituzione repubblicana, così riducendo Firenze «più verso lo stato regio che verso lo stato popolare» (Discorsi I xviii 29; ed. a cura di F. Bausi, 2001, 1° vol., p. 117), una forma di governo, questa, che nel cap. ix del Principe verrà definita «principato civile» e che resterà in vita anche negli anni savonaroliani (1494-98), per essere poi istituzionalizzata con la creazione nel 1502 del gonfalonierato perpetuo, affidato a Piero Soderini.
In effetti B. (che aveva dedicato a Ferrante d’Aragona negli anni Settanta un volgarizzamento del Panegirico di Plinio il Giovane a Traiano, proponendo Ferrante quale esempio di ottimo principe), pur facendo proclamare a Mattia, e riconoscere a Giugni, la generale superiorità della monarchia sulla repubblica, teorizza in realtà un «principato civile» come regime atto a garantire effettivamente la libertà e l’uguaglianza; e il suo ideale, come per il M. del Discursus (1520-1521), è una sorta di ‘Stato misto’. Nel dialogo, infatti, Mattia osserva che le più solide repubbliche contemplano sempre, nei loro ordinamenti, un elemento monarchico, cioè sono appunto, secondo la ben nota teoria di Polibio, ‘governi misti’: Roma aveva i consoli (e nelle situazioni più difficili nominava un dittatore); Venezia ha il doge (regie dignitatis speciem quandam et imaginem, «una sorta di simulacro e di immagine della dignità regia»); Firenze ha il gonfaloniere di giustizia (definito, non a caso con parole pressoché identiche, regie dignitatis non mediocrem effigiem atque imaginem, «non spregevole ritratto e immagine della dignità regia»).
La quadratura del cerchio si compie nella parte finale del dialogo – che senza dubbio è stata scritta dopo la morte di Mattia e la conseguente decisione di indirizzare l’opera al Magnifico, e che per questo non si armonizza perfettamente con le pagine precedenti, determinando lo spostamento della prospettiva dalla monarchia vera e propria al «principato civile» di tipo mediceo –, quando il sovrano ungherese, che pure è nemico dei governi repubblicani, ‘salva’ la Repubblica fiorentina proprio e soltanto grazie alla presenza di Lorenzo. Il Magnifico, infatti, viene descritto come un optimus et praestantissimus civis («ottimo ed eccellentissimo cittadino») che con la sua virtù e la sua autorità moderatur ac regit («governa e regge») gli animi dei fiorentini, frenando la loro inclinazione alle discordie e alle lotte di parte. Ma anche se, in ossequio alla tradizione, afferma che Lorenzo ha sempre difeso le leggi e le istituzioni, che si comporta con grande moderazione e mitezza, che rifiuta di attribuirsi un’autorità maggiore di quella consentita e addirittura che sembra non tanto governare i suoi concittadini, quanto essere loro sottomesso, per B. è ormai un dato di fatto l’equazione optimus civis = princeps, tanto che egli definisce il Magnifico Florentinae reipublicae princeps («principe della Repubblica fiorentina») e in republica princeps («principe nella repubblica»). Si tratta, in verità, di espressioni già da altri usate in passato per Cosimo (vi ricorrerà poi anche M. nei Discorsi I xxxiii 12; ed. a cura di F. Bausi, 2001, 1° vol., p. 164: «la sua parte […] lo fece principe della republica»; e nelle Istorie fiorentine VII v 6: «principe nella sua patria»), nelle quali palesemente e con voluto equivoco si gioca sul duplice significato del latino princeps («cittadino principale», monarca»), come non di rado accade nel Quattrocento a Firenze: uno stratagemma, insomma, per intendere una cosa dicendone un’altra, con l’ambiguità semantica che si fa prudente riflesso di quella politica e istituzionale.
Non per nulla, quando, verso la fine del De comparatione, Giugni cede le armi e si ‘converte’ toto corde alla monarchia, Mattia corregge il tiro e lo esorta a onorare e rispettare la patria in cui ha avuto la ventura di nascere, adoperandosi affinché essa conservi le sue leggi e i suoi costumi: e ciò perché pochi, come afferma il sovrano ungherese, sono nel tempo presente i sovrani veramente eccellenti, mentre Firenze è una repubblica dotata di solide istituzioni e ottime leggi, e può considerarsi non deteriorem regio […] principatum («una forma di principato non inferiore a quella propriamente monarchica»), avendo al suo interno anche aliquam etiam illius regii principatus imaginem («una qualche immagine del vero e proprio principato regio», Republics and kingdoms compared, ed. J. Hankins, 2009, p. 258). Sono queste ultime, come abbiamo visto, le parole cui poco prima Mattia aveva fatto ricorso per definire il gonfalonierato di giustizia e che adesso, alla fine del dialogo, vengono abilmente riproposte e risemantizzate in un contesto diverso, con manifesta allusione al potere di Lorenzo, descritto come una sorta di ombra o immagine di principato. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda del più volte ricordato Discursus florentinarum rerum, dove M., richiesto dal cardinale Giulio di un parere sulla riforma dello Stato, sconsiglia i Medici dall’instaurare un vero e proprio principato (assecondando quei loro partigiani che caldeggiavano tale soluzione), ma disegna un ‘governo misto’ che nondimeno, sotto le spoglie della repubblica, «è una monarchia», poiché i due capi della famiglia egemone comandano «all’armi» e «a’ iudici criminali», e hanno «le leggi in petto» (Discursus, § 97).
Rispetto a M., è tuttavia chiaro che nel De comparatione viene riconosciuta a Lorenzo un’autorità ormai a tutti gli effetti quasi principesca e che il suo passaggio «da lo ordine civile allo assoluto» (come ancora avrebbe detto Machiavelli: Principe ix 23) viene non solo auspicato, ma anche ritenuto imminente e inevitabile, poiché di fatto in buona parte già compiuto; tanto che al Magnifico può essere tranquillamente indirizzata, solo con qualche probabile aggiustamento nel finale, un’opera in cui si sostiene con forza la superiorità del regime monarchico su quello repubblicano, e che per questo era stata in origine concepita per un vero e proprio sovrano come Mattia Corvino. Non è un caso che, subito dopo aver dedicato il suo dialogo al Magnifico, B. abbia ottenuto una cattedra allo Studio fiorentino: segno che l’opera era stata gradita da Lorenzo, e che erano ormai lontani i tempi in cui Cosimo si schermiva se veniva paragonato a un autentico principe o a un imperatore romano, dicendosi contento della civilis mediocritas. D’altronde, nel proemio B. si dice convinto che Lorenzo troverà nel dialogo suas cogitationes, suos labores, sua consilia, vale a dire lo specchio fedele del suo pensiero e della sua stessa azione politica (Republics and kingdoms compared, cit., p. 8).
Un’altra significativa analogia con M., che sta alla base anche della concretezza e della precisione con le quali B. sa affrontare le questioni politiche ed economico-sociali, risiede nella sua larga esperienza del mondo: quando portava a termine il De comparatione, infatti, B. mancava da Firenze, come egli stesso ci informa, da oltre venti anni, durante i quali egli, vivendo tra Roma, Napoli e l’Ungheria, aveva potuto acquisire una diretta conoscenza di quei regimi monocratici, evidentemente convincendosi della loro migliore efficienza rispetto alle repubbliche, e maturando inoltre un distacco che gli consentiva di guardare obiettivamente alle cose fiorentine e di poterle giudicare con libertà e spregiudicatezza non comuni (e forse anche con qualche risentimento verso la città natale, che aveva dovuto lasciare in tenera età nel 1466, a causa della rovina economica del padre). Da qui, in particolare, la già ricordata condanna morale dei commerci, ispirata a una posizione rigoristica non priva di precedenti (si pensi al De avaritia di Poggio Bracciolini), che ritroveremo anche in M., per il quale le città tedesche devono la conservazione della «bontà» e della «religione» anche al fatto di non praticare gli scambi commerciali, vivendo contenti dei beni che il loro Paese fornisce, e così eliminando «la cagione d’ogni conversazione e il principio d’ogni corruttela» (Discorsi I lv 16, ed. a cura di F. Bausi, 1° vol., 2001, pp. 264-65); e da qui le serrate e spietate critiche alle istituzioni fiorentine, critiche che certo non dovevano dispiacere a Lorenzo, il quale da tempo stava portando avanti riforme costituzionali finalizzate ad accentrare sempre di più il potere nelle sue mani e in quelle di pochi uomini a lui fedeli.
Né devono trascurarsi altri minori punti di contatto che, se pure non servono a stabilire un rapporto diretto fra i due autori, sono comunque spie di una qualche vicinanza culturale e ideologica. Per esempio, B. fa esporre a Giovanni Corvino la tesi di quanti attribuiscono la presente decadenza della virtù militare e politica in Europa all’influenza della religione cristiana, che rende gli uomini timidos atque ignavos («pusillanimi e imbelli», Republics and kingdoms compared, cit., p. 16), come sostiene anche M. nei Discorsi II ii 26-36. Più interessante è poi il ricorso di B. al libro VI delle storie di Polibio, donde egli direttamente ricava la teoria della successione ciclica delle varie forme di governo (anakỳklosis), ripresa da M. nei Discorsi I ii 11-24; infatti B., che nel dialogo mette a frutto numerose fonti antiche, medievali e moderne (soprattutto Platone, Aristotele, Cicerone, san Tommaso, Leonardo Bruni, Bartolomeo Platina, Matteo Palmieri, Francesco Patrizi), è tra i pochissimi trattatisti del Quattrocento a recuperare in modo esplicito e organico la teoria polibiana, cosicché il passo in questione del dialogo (Republics and kingdoms compared, cit., pp. 238-40) deve considerarsi un importante precedente dell’esposizione machiavelliana.
Benché non citi mai esplicitamente B. e le sue opere, e benché la tradizione del dialogo, rimasto inedito sino alla fine del 19° sec., sia estremamente limitata (se ne conoscono soltanto due manoscritti: quello di dedica a Lorenzo il Magnifico e quello copiato per Giovanni de’ Medici, il futuro Leone X, cui il dialogo venne ri-dedicato da Raffaello Brandolini, fratello dell’autore, nei primi anni del Cinquecento), non si può escludere che M. sia potuto venire a conoscenza del De comparatione. A prescindere da questo, comunque, l’importanza del dialogo di B. risiede da un lato nel suo premachiavellismo (inteso come abito di indagine politica razionale e attenta alla verità «effettuale»; per questo, egli è stato a ragione definito «di gran lunga il più interessante scrittore di politica umanistico prima di Machiavelli»: Hankins 2009, p. XXV), dall’altro nel suo configurarsi quale testimonianza fra le più significative di quella secolare riflessione che accompagnò a Firenze il lungo e tormentato trapasso dalla repubblica al principato, elaborando modelli di analisi, linguaggi e paradigmi descrittivi (si pensi in particolar modo alla nozione di «principato civile») nei confronti dei quali il pensiero di M., ricavandone non pochi stimoli e spunti, si rivela profondamente debitore, e al di fuori dei quali rischia di non essere a pieno comprensibile.
Bibliografia: Republics and kingdoms compared, ed. and trans lated by J. Hankins, Cambridge (Mass.)-London 2009.
Per gli studi critici si vedano: F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini, Princeton 1965 (trad. it. Machiavelli e Guicciardini, Torino 1970, 20122, pp. 84-85); C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 116-21; P. Viti, Aurelio Lippo Brandolini e Lorenzo de’ Medici Florentinae reipublicae princeps, in Consorterie politiche e mutamenti istituzionali in età laurenziana, catalogo della mostra, Firenze, Archivio di Stato 4 maggio-30 luglio 1992, Milano 1992, pp. 124-26; E. Biagini, Un trattato politico di fine Quattrocento: il De comparatione reipublicae et regni di Aurelio Lippo Brandolini. Introduzione, testo e commento, tesi di dottorato discussa presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, a.a. 1993-1994; J. Hankins, introduction to A.L. Brandolini, Republics and kingdoms compared, ed. and translated by J. Hankins, Cambridge (Mass.)-London 2009, pp. ix-xxvi; F. Bausi, “Moderatores reipublicae”. The Medici as defenders of liberty in fifteenth-century Florentine literature, in The Medici in the Fifteenth Century: “Signori” of Florence?, ed. R. Black, J. Law (in corso di stampa).