Aurelio Peccei e i limiti dello sviluppo
Gli studi sul futuro
Gli studi sul futuro in Europa hanno le loro radici nella creazione negli anni Cinquanta negli Stati Uniti di vari think tanks come la RAND corporation e lo Stanford research institute. Il loro scopo principale era quello di effettuare studi previsionali a medio e lungo termine per il ministero della Difesa e per l’industria, analizzando gli effetti del rapido cambiamento tecnologico in corso. Da questo ambito militare-industriale gli studi sul futuro si diffusero nel mondo e, oltre che della tecnologia, cominciarono a occuparsi di temi e concetti diversi.
Come spiega Eleonora Barbieri Masini nella sua ampia rassegna Gli studi sul futuro e l’Italia (1998), questi studi in Europa nacquero con termini e concetti diversi e furono influenzati dalla necessità di ricostruzione dopo la guerra e dalla paura di altre guerre. Lo studio del futuro per gli europei «appariva importante soprattutto come il bisogno dello spirito di superare la propensione umana alla distruzione» (p. 11). Da queste preoccupazioni, fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, sorse una scuola francese degli studi sul futuro, i cui principali promotori furono Gaston Berger, Pierre Massé e Bertrand de Jouvenel.
Berger (1896-1960), professore di filosofia al Collège de France, nel 1953 diventò direttore generale per l’educazione superiore al ministero per l’Educazione. In questa funzione, nel 1957, creò il Centre internationale de prospective con lo scopo di fare studi previsionali a lungo termine in aree di sviluppo sociale ed economico. Mentre, generalmente, i forecasting studies negli Stati Uniti erano semplici estensioni del passato, gli studi promossi da Berger nel Centre de prospective cercavano di individuare, fra le opzioni esistenti, quelle che avrebbero portato a un futuro migliore. L’insistenza di Berger sul fatto che il futuro debba essere programmato, è la prima pietra miliare di questo ambito di studi.
Purtroppo, Berger morì prematuramente in un incidente automobilistico nel 1960. Tuttavia, il movimento cui egli aveva dato inizio in Francia non scomparve con lui, ma anzi gli studi previsionistici ebbero un’accelerazione. In parte, ciò fu dovuto agli sforzi di Massé (1898-1987), alto dirigente dell’amministrazione pubblica francese. In quel periodo Massé stava lavorando alla preparazione del quinto piano nazionale per la Francia, l’Aménagement du territoire. Per capire meglio cosa sarebbe stato importante nel 1985 per l’uomo e la società in Francia, Massé creò un apposito gruppo di studio. Nel farlo, come nota Barbieri Masini,
Massé non guarda alla programmazione economica solo nel breve termine ma la incastona nel lungo termine e nel contesto più vasto di altri ambiti come quello tecnologico, la prospettiva diviene quindi anche politica e relativa a scelte che vanno al di là della programmazione economica (1998, p.11).
In parallelo, nel 1960 de Jouvenel (1903-1987) fondò l’Association internationale futuribles, che divenne il più attivo gruppo di studi sul futuro in Francia, e una rivista omonima. De Jouvenel era interessato a stimolare una discussione sulle possibili evoluzioni sociali e politiche nel futuro, e usava «Futuribles» per questo scopo. Egli fornì al discorso intellettuale dell’epoca un secondo concetto chiave per gli studi sul futuro, quello dei futuri possibili: da lì il sillogismo futuribles. Per de Jouvenel non vi era un solo futuro, ma molti futuri, di cui alcuni probabili e altri meno. Quindi, il futuro non si poteva conoscere, ma solo congetturare in termini alternativi. Non a caso, il titolo che egli diede al suo famoso libro del 1964 è L’art de la conjecture.
Sebbene il futuro non sia deterministico, questo non toglie l’importanza di cercare fra i futuri possibili quali siano le alternative migliori. È chiaro che il pensiero di de Jouvenel era in sintonia perfetta con quello di Berger, il quale sottolineava che studiare il futuro implicava anche evidenziare i pericoli esistenti e suggerire modi di sventarli. Per Berger bisognava scegliere, fra la gamma dei futuri alternativi di de Jouvenel, il futuro migliore.
I primi sforzi italiani nell’ambito degli studi sul futuro si devono a Pietro Ferraro (1908-1974). Ferraro, che fu un importante membro della Resistenza veneta e un affermato dirigente industriale nel dopoguerra, era anche un noto contributore allo sviluppo degli studi sulla civiltà moderna in Italia. Guidato principalmente dall’impegno nello sviluppare le capacità umane, e stimolato dai contatti avuti con de Jouvenel, decise di creare a Roma, alla fine degli anni Sessanta, l’Istituto per le ricerche di economia applicata (IREA), presso cui costituì il Gruppo futuribili Italia. L’IREA pubblicò, dal 1967 al 1974, la rivista «Futuribili», sullo stampo di «Futuribles». Ferraro rimase al centro degli studi sul futuro in Italia fino alla sua scomparsa prematura nel 1974. In tutte le sue attività egli fu sempre guidato da un alto dovere civico: l’ultimo suo libro si intitola, infatti, La costruzione del futuro come impegno morale (1973).
La seconda grande figura italiana degli studi sul futuro di quell’epoca fu Aurelio Peccei. A lui si deve l’elaborazione del terzo concetto fondamentale degli studi sul futuro, ossia la necessità di guardare al futuro con un’impostazione globale. Peccei insisteva sempre sul fatto che non era possibile pensare al futuro senza avere una visione globale del complesso di problemi che investono l’umanità (quello che egli chiamava la problematique). I problemi del pianeta sono intrinsecamente correlati l’uno con l’altro, e la loro soluzione può avvenire soltanto se sono compresi nella loro totalità. È futile quindi disaggregarli e cercare di risolverli individualmente. Questa visione globale e olistica del futuro di Peccei è molto diversa da quella della scuola francese di Berger e de Jouvenel. Però Peccei, come Ferraro, si sentiva un loro discepolo, riconoscendo il debito intellettuale a loro dovuto.
Aurelio Peccei: manager illuminato
Non è facile spiegare l’evoluzione del pensiero di Peccei senza guardare, sia pure brevemente, alla sua storia personale. Infatti, come notano Luigi Piccioni e Giorgio Nebbia nel loro ampio studio I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-74 (2011):
[...] alla metà degli anni ’60 Aurelio Peccei è un dirigente di azienda a tutto tondo: non è membro di club intellettuali o accademici, non publica articoli o libri né intrattiene rapporti con le istituzioni e con le forze politiche che non siano quelli necessari al propio lavoro. Nulla nel suo profilo publico può renderlo assimilabile a un intellettuale e men che meno a un intellettuale radicale [...] (pp. 11-12).
Da dove sorse dunque la sua sensibilità e il suo impegno nel cercare di affrontare i problemi del mondo?
Nato a Torino nel 1908, Peccei crebbe in un ambiente progressista e laico. Si laureò con lode in economia nel 1930, e subito dopo incominciò a girare il mondo, con una borsa di studio alla Sorbona e un viaggio premio in Unione Sovietica. Entrò giovanissimo alla Fiat e, dopo qualche anno, riuscì a convincere la compagnia a mandarlo in Cina, dove rimase fino alla metà del 1939. Al suo rientro in Italia, si unì subito al movimento antifascista, militando in Giustizia e libertà. Arrestato nel 1944, rimase nel carcere di via Asti, dove fu torturato per quasi un anno. Dopo aver riacquistato la libertà, egli riprese la resistenza. Alla Liberazione, il Comitato di liberazione nazionale lo nominò commissario della Fiat, dove si occupò principalmente di organizzare la ricostruzione delle unità produttive. Quando la Fiat ritornò alla gestione normale, egli ricominciò la sua attività di dirigente.
Sebbene nel primo dopoguerra fosse stato partecipe di numerose importanti iniziative industriali, come, per es., la fondazione dell’Alitalia, nel 1949 chiese che gli venisse affidato l’incarico di riportare la Fiat in America Latina: si trasferì così a Buenos Aires. In Argentina iniziò un periodo di intensa attività che, fra l’altro, portò alla creazione della Fiat Concord, presto divenuta la maggiore produttrice di trattori, motori ferroviari e automobili del Paese. Nel 1957, pur continuando a dirigere le attività della Fiat in America Latina, Peccei ritornò in Italia, accogliendo l’invito rivoltogli da un gruppo appartenente al mondo industriale e finanziario italiano. Quest’ultimo, capeggiato dall’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), ma con la partecipazione anche della Fiat e della Montecatini fra altri (Castagnoli 2009, p. 43), aveva chiesto a Peccei di guidare una nuova iniziativa mirata a fornire assistenza a Paesi in via di sviluppo. Nacque così l’Italconsult, che egli guidò per quasi vent’anni, un consorzio che operò in più di cinquanta Paesi, essenzialmente senza scopi di lucro, promuovendo studi di consulenza ingegneristica ed economica, e sovraintendendo alla costruzione di opere e impianti.
Fu in questo periodo di lavoro intenso che Peccei sentì la necessità di ampliare i suoi orizzonti oltre l’attività manageriale di grande successo. Lo spiega così nel suo libro La qualità umana (1976):
La mia attività era varia, interessante e soddisfacente […] ciò non pertanto, sentivo di non esprimere veramente e pienamente me stesso […] Ero ben convinto che bonificare un deserto o erigere un’industria, […] e realizzare piani nazionali o regionali sono attività indispensabili; ma mi ero reso anche conto che concentrare praticamente ogni sforzo su progetti […] specifici, mentre il contesto più ampio in cui questi sono inseriti […] si va rapidamente deteriorando, poteva risolversi in pura perdita. Mi pareva che non sarei stato in pace con me stesso se non avessi almeno cercato di dire che bisognava fare ancora qualche cosa di più e di diverso (p. 30).
Questi bei propositi avevano però un problema di fondo: come metterli in atto senza smettere di lavorare? Con la sua posizione largamente indipendente alla Fiat e le sue eccellenti relazioni con il capo di allora, Vittorio Valletta, Peccei trovò un’ottima soluzione:
[Valletta e io] ne parlammo francamente e alla fine non fu difficile accordarsi: avrei continuato il mio lavoro alla Fiat, libero però di disporre di una parte ragionevole del mio tempo per altri fini non concorrenziali con quelli dell’azienda. Questi accordi continuarono con il successore di Valletta, Gianni Agnelli […] e pure all’Italconsult (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 55).
Negli anni Sessanta Peccei ebbe altri incarichi importantissimi, come quello, affidatogli nel 1964, di guidare l’Olivetti nel periodo in cui l’impresa affrontava la difficile transizione dalle tecnologie meccaniche a quelle elettroniche, o il lavoro di avanscoperta a Mosca che Valletta gli assegnò e che portò alla creazione dello stabilimento di Togliattigrad (Castagnoli 2009, p. 32). Allo stesso tempo, però, egli incominciò attivamente a mettere in atto il suo piano di «escogitare forme nuove per attaccare i problemi fondamentali dell’uomo» (La qualità umana, cit., p. 54). Una di queste opportunità gli fu offerta verso la fine del 1962 quando due senatori americani progressisti, Hubert Humphrey e Jacob Javits, gli chiesero di guidare un progetto per rilanciare l’iniziativa privata in America Latina.
Peccei accettò l’invito di Humphrey e Javits, ma ampliò lo scopo insistendo che nel progetto fossero incluse, oltre a quelle americane, anche altre imprese. Fu così costituita l’ADELA (Atlantic Development of Latin America), impresa a carattere collettivo per catalizzare lo sviluppo dell’America Latina, con una molteplicità di azionisti, ognuno a piede di parità, che includevano un gran numero di compagnie industriali con base in Europa, negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone. Una delle innovazioni che distinse ADELA, e che illumina l’evoluzione del pensiero di Peccei, è che il fine societario dell’impresa doveva essere principalmente l’interesse publico. Il dovere di ADELA, dunque, da come essa era stata concepita dallo stesso Peccei, fu quello di operare a scopo di profitto, ma sempre nell’ampio rispetto delle politiche nazionali dei Paesi ospitanti, mirando a progetti di priorità nazionale.
Verso la metà degli anni Sessanta, Peccei incominciò a parlare più frequentemente in pubblico delle sue crescenti preoccupazioni per il mondo. Due dei suoi discorsi, in particolare, ebbero una risonanza molto più ampia di quanto lui ragionevolmente potesse aspettarsi. Il primo di questi, intitolato La sfida degli anni settanta per il mondo di oggi, fu un discorso che egli tenne il 27 settembre 1965 al Collegio militare argentino di Buenos Aires. In quell’occasione, parlò sia della difficoltà di risolvere gli enormi problemi del sottosviluppo, sia dei rapidi cambiamenti nel mondo creati dalla rivoluzione informatica. In conclusione quindi egli notò che, allo scisma esistente fra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, si sommava il pericolo di un ulteriore divario tecnologico e psicologico fra gli Stati Uniti e l’Europa, divario che bisognava a tutti i costi evitare.
Come ricorda Umberto Colombo (1993), questo discorso, tradotto in inglese dall’originale spagnolo, nel 1967 fu «riportato nella documentazione […] per un convegno delle Nazioni Unite, […] e fu letto dall’accademico sovietico Jermen Gvishiani» (p. XIII). Gvishiani, interessato alle idee lì presentate, ma non conoscendone l’autore, mandò il discorso al suo collega americano Carroll Wilson, professore al MIT (Massachusetts Institute of Technology), chiedendogli di scoprire chi fosse Peccei, per poi potersi mettere in contatto con lui. Wilson decise di contattare a tale scopo il suo collega Alexander King (1909-2007), l’allora direttore generale per la scienza all’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) a Parigi. Come racconta Colombo, «quest’ultimo prese contatto con Peccei e dal loro incontro scaturì la scintilla che doveva dare origine, nell’aprile del 1968, al Club di Roma» (1993, p. XIII).
La seconda conferenza di Peccei di quell’epoca, che ebbe importanti risvolti, fu tenuta a Washington agli inizi del 1966. Il tema era quello già esposto a Buenos Aires, ma vennero trattati anche nuovi argomenti. In particolare, Peccei parlò della crescente minaccia dei macroproblemi mondiali che, per la loro interdipendenza, non potevano essere risolti in modo frammentario. A Washington, suggerì che per capire e cercare di risolvere questi problemi planetari bisognava promuovere uno sforzo collettivo, coinvolgendo anche i Paesi comunisti e quelli in via di sviluppo. Fra il pubblico a Washington c’era anche Humphrey, che nel frattempo era diventato vicepresidente degli Stati Uniti. Questi rimase particolarmente colpito dal suggerimento di Peccei di far promuovere l’iniziativa da lui proposta, di natura non politica, da una fondazione, come la Ford Foundation. Subito dopo la conferenza, Humphrey scrisse personalmente a McGeorge Bundy, che era appena diventato presidente della Ford Foundation, appoggiando caldamente questa idea.
La lettera di Humphrey ebbe il suo effetto e – con grande soddisfazione di Peccei – nel dicembre del 1966 Bundy fu nominato dal presidente Lyndon B. Johnson «suo rappresentante per vagliare la possibilità di fondare un centro internazionale di studi sui problemi comuni delle società avanzate» (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 70). Purtroppo ci vollero circa sette anni per creare a Vienna quello che è ora l’IIASA (International Institute for Applied System Analysis) la cui storia è ben descritta nella Qualità umana. Noto solo, in tutti i difficili negoziati che portarono finalmente alla formazione dell’IIASA, che il rappresentante sovietico fu Gvishiani, nel mentre diventato grande ammiratore e amico di Peccei e primo membro sovietico del Club di Roma.
Verso l’abisso: Project 1969 e la nascita del Club di Roma
I primi contatti fra King e Peccei ebbero luogo nella primavera del 1967. I due si trovarono immediatamente in sintonia, accorgendosi di condividere le preoccupazioni per l’andamento del mondo. Sebbene fossero molto diversi l’uno dall’altro, le loro idee combaciavano perfettamente. Peccei era un uomo d’azione, e da bravo manager era capace di decisioni tempestive. King era uno scienzato, e quindi più riflessivo. Quello che li legava era un forte desiderio di agire per far fronte alle sfide e alle minacce che vedevano incombere sull’umanità.
Dopo pochi incontri, i due decisero che sarebbe stato utile organizzare una riunione per proporre le loro idee a eminenti scienziati, economisti e sociologi europei di ampie vedute. Lo scopo era semplice:
Il filo conduttore nel nostro ragionamento era che, se si riesce a mettere d’accordo una decina di europei di origini e discipline diverse, allora anche il diavolo può essere riconciliato con l’acqua santa (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 83).
Come primo passo decisero di chiedere a Erich Jantsch (1929-1980), che aveva già lavorato come consulente per King, di preparare un documento di base sulla problematica mondiale. Jantsch, astronomo di formazione, era un esperto di metodi di previsione e valutazione della tecnologia.
In parallelo, su suggerimento dell’amico e giornalista italiano a New York Mario Rossi, Peccei aveva iniziato a scrivere un libro per cercare di far capire a un pubblico più vasto le preoccupazioni che lo assillavano. Così, nella Qualità umana, spiegò le ragioni che lo portarono a scrivere The chasm ahead (1969, libro poi tradotto in italiano nel 1970 con il titolo Verso l’abisso):
Nessuno sembrava percepire in tutta la sua profondità il dramma dell’uomo moderno; nessun gruppo o iniziativa pareva in grado di abbracciarne totalmente le dimensioni. Eppure una visione complessiva dei problemi che attanagliano il mondo era e resta indispensabile (p. 76).
Il 13 settembre 1967, su invito di Gvishiani, ad Akademgorodok, la città della scienza in Siberia, Peccei parlò davanti a un nutrito gruppo di giovani scienzati, sul tema Considerazioni sulla necessità di una programmazione globale. In questo periodo chiave della sua vita, questa conferenza segnò un’ulteriore evoluzione delle sue idee. Ad Akademgorodok, discusse di temi ambientali, segnalando la necessità di proteggere gli ecosistemi e l’ambiente mondiale controllando con rigore i processi inquinanti. In Siberia egli parlò anche degli effetti dell’esplosione demografica e del bisogno di fermarla, e fece di nuovo appello alla necessità di iniziare una programmazione globale per affrontare i problemi del mondo. Il suo discorso fu molto ben accolto anche se, come scrisse, «nessuno dei pericoli che citavo esisteva per migliaia di kilometri attorno a Akadengorodok» (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 75).
Ottenuti dei fondi dalla Fondazione Agnelli, Peccei e King poterono finalmente invitare a Roma, il 6 e 7 aprile 1968, presso l’Accademia dei Lincei, una trentina di persone di primo piano per discutere quello che fra di loro già chiamavano The predicament of mankind. Il gruppo degli invitati era molto eterogeneo: c’erano ‘futuristi’ come de Jouvenel, Massé e Dennis Gabor (premio Nobel per la fisica nel 1971 grazie alla sua invenzione dell’olografia e autore di Inventing the future, 1964), banchieri come Guido Carli e Jean Saint-Geours, scienziati come il biologo Conrad H. Waddington.
Nel frattempo, Jantsch aveva preparato il documento di base richiestogli, che intitolò A tentative framework for initiating system-wide planning of world scope (1968). Nel working paper, Jantsch analizzò il mondo e il suo ambiente come un sistema cibernetico, reso instabile dalla crescita, ma regolato debolmente dall’uomo. Quindi, secondo Jantsch, per ricontrollare il sistema globale era necessario l’intervento dell’uomo per modularlo. Sebbene il linguaggio usato da Jantsch fosse forse astratto, il messaggio essenziale era quello di Peccei.
La riunione ai Lincei, però, fu un disastro completo. Parte della ragione del fallimento può essere attribuita al testo di Jantsch che, sebbene intellettualmente rigoroso, era di difficile lettura. Ma forse la principale causa del fiasco all’Accademia dei Lincei fu la difficoltà, anche oggi presente, di chiedere ai partecipanti, pure illustri, di «rivolgere il loro pensiero a questioni indefinite e complesse lontane dai loro interessi» (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 85).
Sebbene scoraggiato, Peccei dopo il convegno invitò a casa cinque dei partecipanti (King, Jantsch, Saint-Geours, Hugo Thiemann e Max Kohnstamm) per un post mortem. Nella discussione a cena, questo piccolo gruppo si accorse di non essere disposto a dichiararsi sconfitto e decise di continuare ad approfondire il dialogo. Ricorda King (2006):
Eravamo d’accordo di essere stati un po’ ingenui; sapevamo troppo poco di politica internazionale; la nostra presentazione era stata troppo sfavillante e tecnica. Però eravamo più che mai convinti della necessità di esporre in maniera indipendente, a livello internazionale, i problemi globali da noi percepiti. Non eravamo ancora capaci di farlo noi stessi, ma ci mettemmo d’accordo d’approfondire la nostra educazione sui problemi vigenti prima di discuterne di nuovo con un gruppo così sofisticato (p. 298).
Con questo proposito, e in questa forma, nacque il Club di Roma. Lo scopo del Club di Roma di capire la problematica mondiale e cercare in qualche modo di contribuire alla sua risoluzione fu una sfida di enormi dimensioni. Dopo il fallimento della riunione all’Accademia dei Lincei, Peccei s’impegnò con King per cercare altri che, con sensibilità affine alla sua, avessero voglia di unirsi a quello che egli vedeva come un’avventura dello spirito, il Club di Roma appunto.
In parallelo, nell’estate del 1968, Peccei stava lavorando a pieno ritmo al manoscritto per The chasm ahead. Il tema del libro era l’abisso pericoloso che si stava creando fra gli Stati Uniti e l’Europa dovuto al rapido e crescente divario nello sviluppo tecnologico delle due regioni. Nella seconda parte del libro, Peccei ampliava il discorso e parlava della problematique come sfida principale per l’umanità. Per far fronte ai pericoli che il groviglio di macroproblemi imminenti costituiva per il mondo, nel Chasm ahead tracciava un piano d’azione chiamato Project 1969, essenzialmente basato anche sulle idee suggerite da Jantsch nel working paper per la riunione ai Lincei.
Questi gli elementi principali del progetto descritti in Chasm ahead (1969, pp. 222-35):
1) il progetto deve esaminare in un contesto globale i problemi che riguardano il mondo; deve quindi essere intrapreso come una joint venture di tutti i Paesi più avanzati;
2) il progetto stesso deve essere un primo studio sulla fattibilità di pianificare razionalmente il futuro del nostro pianeta;
3) il progetto deve permettere di fare previsioni sul futuro basate su una profonda analisi dei fatti;
4) il progetto deve avere come orizzonte il lungo termine;
5) sebbene il progetto, così come è concepito, sia imparziale e non politico, chiaramente avrà conseguenze politiche profonde.
Come si intravede da questi punti, Project 1969 fu concepito come uno studio normativo e previsionista sui futuri possibili, con lo scopo di capire razionalmente quali interventi avrebbero potuto portare a un futuro migliore. In effetti, Peccei fece confluire nel Project 1969 la necessità di progettare il futuro di Berger e l’importanza di esaminare i diversi futuri possibili di de Jouvenel con la sua insistenza sulla necessità di esaminare le diverse prospettive nel contesto globale.
Per far fronte ai problemi del mondo, in Chasm ahead Peccei enfatizzò l’importanza di sviluppare una nuova scienza per programmare il futuro. Questa scienza, egli disse riflettendo le idee di Jantsch, deve essere basata sulla premessa che l’uomo e la natura costituiscono un macrosistema integrato. Con molti sottosistemi di questo complesso in pericolo a causa della sfrenata espansione tecnologica del mondo d’oggi, per far fronte ai problemi interconnessi del macrosistema uomo-natura e prevenire il suo collasso, bisogna iniziare in parallelo un processo di global planning che aiuterà a trovare futuri migliori per il mondo. Per Peccei, come anche per Ferraro, la necessità di creare una nuova scienza in grado di programmare il futuro è vista come un obbligo morale collettivo dell’umanità.
Quello che è notevole in Chasm ahead è che propone di far condurre questi studi sul futuro da panels di esperti convocati dai governi delle nazioni avanzate, con lo scopo specifico di esaminare differenti aspetti della problematique e giungere alle conclusioni sul da farsi (A. Peccei, La qualità umana, cit., pp. 254-59). In effetti, quello che Peccei propose già allora fu la formazione di un gruppo di studio con le caratteristiche dell’Intergovernmental panel on climate change (IPCC) per studiare i problemi del mondo. Obiezioni a questa proposta erano già sorte nella riunione ai Lincei. Molti, sebbene d’accordo con l’idea di global planning, semplicemente dubitavano della praticità della proposta e chiedevano quale ente internazionale avrebbe organizzato i vari gruppi di studio. In effetti, il Club di Roma fu creato, in parte, per promuovere e implementare queste idee lungimiranti.
Genesi del primo rapporto al Club di Roma: Limits to growth
Dopo la riunione ai Lincei, che portò alla formazione del Club di Roma, il ritmo delle attività di Peccei e King accelerò ancora di più. Insieme o da soli, i due cominciarono a girare il mondo cercando altre persone con la loro stessa sensibilità riguardo i crescenti problemi dell’umanità. Il loro messagio era semplice: i problemi del mondo sono interconnessi e non possono essere risolti separatamente; bisogna capirli nella loro complessità, per poi poterli affrontare sistematicamente. King e Peccei, nei loro peregrinaggi, descrivevano la situazione in cui si trovava l’umanità con la frase «the predicament of mankind», già usata ai Lincei. Peccei la traduceva in italiano come il «‘malpasso’ dell’umanità». Anche se il loro messaggio, a volte, fu ascoltato con simpatia, come scrisse Peccei, «questa ostinata attività peripatetica non produsse risultati tangibili – come se i problemi globali riguardassero un altro pianeta» (La qualità umana, cit., p. 87). Era necessario trovare un altro approccio.
Una prima idea di cosa fare per essere più efficaci emerse alla fine dell’ottobre 1968. King, in quel periodo, aveva organizzato per l’OECD un simposio a Bellagio su Long range forecasting and planning. Fra i partecipanti c’era Hasan Ozbekhan (1921-2007), un pianificatore e accademico americano di origine turca. Nel suo contributo, intitolato Towards a general theory of planning (1968), Ozbekhan discusse le sue idee sulla prospettiva, che vedeva come una nuova scienza, e nel simposio sottolineò il suo ruolo come strumento per risolvere problemi. Preoccupato com’era di trovare uno strumento adatto per risolvere i problemi del mondo, Peccei si trovò rapidamente in sintonia con il punto di vista di Ozbekahn, e lo invitò a far parte del Club di Roma.
Ci volle però quasi un anno prima che l’idea di analizzare la problematica mondiale usando modelli di prospettiva globale fosse adottata pienamente da Peccei e dal piccolo gruppo raccolto attorno a lui nel Club di Roma. Lo stimolo venne di nuovo da una riunione, questa volta ad Alpbach in Austria nel settembre 1969, nella quale fra i partecipanti vi era l’allora cancelliere austriaco, Josef Klaus. Peccei ricorda che, dopo una lunga discussione dopo cena, i partecipanti si trovarono «d’accordo che il modo più promettente di perseguire i nostri obbiettivi era quello di presentare e analizzare la problematica mondiale mediante l’uso sistematico di modelli globali» (La qualità umana, cit., p. 90).
Subito dopo Alpbach, Peccei e King presero la decisione di rivolgersi a Ozbekhan e lo incaricarono di formulare la proposta di un progetto di ricerca sulla problematique mondiale, che tenesse in conto tutte le sue connessioni e complessità. Ozbekhan si mise al lavoro subito, basandosi sulla metodologia che aveva presentato a Bellagio, ma formulando un piano d’azione per il mondo seguendo le linee generali proposte dal Club di Roma. Il frutto dei suoi sforzi fu una relazione intitolata Quest for structured responses to growing world-wide complexities and uncertainties (1970) che egli presentò a Berna nel giugno 1970, in quella che fu la prima riunione annuale del Club di Roma.
La proposta di Ozbekhan era più dettagliata dello schema generale proposto da Jantsch nel suo working paper per la riunione all’Accademia dei Lincei, e meno complessa. In particolare, la descrizione della problematique era molto più ampia e profonda. Inoltre, la stima di Ozbekhan dei fondi necessari per completare il progetto da lui proposto (900.000 dollari) era dieci volte minore rispetto ai fondi stimati originalmente da Jantsch (Moll 1991, p. 76). Però, sebbene la struttura generale del progetto fosse ben concepita, la metodologia che Ozbekhan aveva in mente per affrontare la problematique non era ancora totalmente sviluppata.
Questo, alla fine, fu il tallone d’Achille della proposta. Dubbi sorsero subito sul tempo necessario per individuare la metodologia giusta e quanto questo avrebbe aumentato i costi. Sebbene Peccei apprezzasse molto di più l’approccio umanistico di Ozbekhan che quello cibernetico di Jantsch, alla fine il timore che il progetto tardasse, e quindi non aiutasse a far capire l’urgenza della crisi globale, lo spinse a cercare un’altra via (Moll 1991, pp. 76-77).
Questa decisione difficile, in effetti, gli fu resa più facile da un circostanza fortunata. Il Club di Roma aveva invitato a Berna un secondo esperto di studi previsionistici, Jay Forrester (n. 1918), professore al MIT e collega di Wilson. Forrester, ideatore e grande esperto dei metodi di sistemi dinamici, aveva già applicato questi metodi alla dinamica industriale e a quella urbana. Nella riunione del Club di Roma a Berna, Forrester nel suo intervento propose di modificare quello che aveva fatto in altri campi e di costruire un modello semplice che simulasse le interazioni fra le varie componenti della problematique dimostrando le loro conseguenze. Peccei, titubante sulla fattibilità del progetto di Ozbekhan, e con l’appogio entusiasta di King, Thiemann ed Eduard Pestel (1914-1988, che nel frattempo era diventato membro del Club di Roma), decise di incaricare Forrester di costruire il modello che lui aveva proposto.
Incredibilmente, in meno di un mese, Forrester costruì il modello della problematique che aveva promesso a Berna e che chiamò World 1 (1971). World 1 era un modello molto aggregato e semplicista. Nonostante questo, risultava chiaro che, in un mondo di dimensioni finite, senza un cambio di rotta, la crescita continua delle variabili dinamiche della problematique, come la popolazione e l’inquinamento, avrebbe portato infine al collasso del sistema. Finalmente dopo tanti culs de sac, Peccei e i suoi colleghi del Club di Roma avevano trovato lo strumento per dimostrare che le loro preoccupazioni sulla sorte del mondo erano ben fondate.
Il successo di World 1 spinse Peccei ad accelerare i tempi. I membri del comitato esecutivo del Club di Roma, appena formatosi a Berna, erano stati invitati da Forrester a fine luglio al MIT a Cambridge, in Massachusetts, per una settimana di studio intensivo delle tecniche dei sistemi dinamici (Moll 1991, pp. 78-79). Tutti, tranne King, poterono accettare l’invito, e a Cambridge furono loro esposti i primi risultati di World 2, una elaborazione di World 1. Al MIT, seduta stante, deliberarono di incaricare Forrester di sviluppare World 2 come progetto del Club di Roma (A. Peccei, La qualità umana, cit., pp. 101-103). La decisione, però, non fu unanime: Jantsch e Ozbekhan, che professionalmente si sentivano rivali di Forrester, si opposero e decisero di lasciare il Club di Roma.
Le loro dimissioni non furono la sola sorpresa a Cambridge. Quando i tre membri del comitato esecutivo rimasti a Cambridge, Peccei, Thiemann e Pestel, con l’appoggio telefonico di King, proposero a Forrester di continuare a sviluppare il progetto per il Club di Roma, egli rifiutò di prenderne parte personalmente, preferendo passarlo a un suo giovane collega, Dennis Meadows (n. 1942). Sebbene quest’ultimo fosse a loro sconosciuto, Peccei e i suoi colleghi, convinti di avere finalmente trovato il metodo giusto per raggiungere i loro scopi, accettarono questo cambio di direzione, e chiesero a Meadows di formare e guidare un gruppo di lavoro mirato a sviluppare ulteriormente World 2.
Subito dopo la riunione al MIT, Pestel, che aveva cercato senza successo di ottenere fondi per il progetto di Ozbekhan dalla Volkswagen Stiftung, riuscì a convincere la fondazione a stanziare 250.000 dollari per il progetto del Club di Roma. Contemporaneamente Meadows cominciò a riunire attorno a sé un gruppo di giovani studenti e ricercatori, che alla fine contava quasi una ventina di persone. Meadows e i suoi giovani collaboratori decisero di approfondire la base dei dati necessari per descrivere gli elementi principali della problematica mondiale, ma continuando a descrivere il mondo sulla base delle cinque variabili usate da Forrester nei modelli World 1 e World 2: popolazione, disponibilità di alimenti, produzione industriale, risorse non rinnovabili e inquinamento.
Peccei seguì il progetto di Meadows con molta attenzione. La sua preoccupazione principale era che il progetto non si dileguasse nel tempo o diventasse un esercizio accademico. Nella Qualità umana egli così ricorda il modo come illustrò a Meadows lo scopo del progetto:
Spiegai, in sostanza, che il nostro proposito era quello di organizzare una ‘operazione di commando’ diretta ad aprire una breccia nella cittadella di autocompiacimento in cui la società si era follemente trincerata. A tal fine era necessario disporre di una versione divulgativa delle conclusioni del progetto il più presto possibile, anche prima che i saggi tecnici fossero in ordine perfetto (p. 104).
Questa fu la spinta che portò alla stesura di Limits to growth (1972), il primo rapporto al Club di Roma scritto da Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers e William Behrens III un anno prima della pubblicazione dello studio. Il rapporto presentava le principali conclusioni del progetto del Club di Roma al MIT in un piccolo volume di facile lettura, di solo duecento di pagine, che rispondeva perfettamente alle esigenze di Peccei. Con sua grande gioia il libro ebbe un enorme successo e scatenò una polemica mondiale.
I limiti dello sviluppo
Gli autori di Limits to growth avevano tratto tre conclusioni principali dal loro studio della problematique (pp. 23-24):
1) se la crescita delle grandezze principali che caratterizzano il mondo, come la popolazione oppure la disponibilità di alimenti, continua al presente livello, si arriverà a dei limiti che se oltrepassati porteranno a un collasso della popolazione e della capacità industriale del mondo;
2) la crescita di questi parametri può però essere modificata, il che permetterebbe all’umanità di arrivare a un equilibrio ecologico ed economico sostenibile nel futuro;
3) se l’umanità decide di percorrere questa seconda strada, più presto si fa questo cambio di rotta, migliori saranno le probabilità di successo.
L’attenzione del pubblico si soffermò solo sul primo punto, e diede origine a un furioso dibattito internazionale.
Il libro fu presentato il 12 marzo 1972 in un simposio organizzato appositamente presso la Smithsonian Institution a Washington. L’evento, organizzato in ogni dettaglio da Peccei, procurò molta pubblicità al libro e al Club di Roma. Tutti i migliori giornali americani, dal «New York Times» al «Washington Post», nelle loro edizioni domenicali dedicarono ampio spazio al simposio e al messaggio del libro (Moll 1991, p. 104). Limits to growth apparve in italiano lo stesso anno con il titolo I limiti dello sviluppo. Pur se mal tradotto, questo libro denominò in Italia il grande dibattito che suscitò e sarà quello che verrà utilizzato in queste pagine per caratterizzarlo.
Il dibattito sui limiti dello sviluppo, infatti, aveva già avuto inizio nell’autunno del 1971, quando risultati frammentari del progetto del MIT arrivarono al pubblico per opera di due giornalisti olandesi, Willem Oltsman e Wouter van Dieren (Moll 1991, pp. 98-99). Oltsman nel novembre del 1971 presentò due programmi intitolati I limiti del nostro mondo alla televisione olandese, seguiti da un folto publico. Van Dieren lo aveva preceduto, pubblicando sul quotidiano «NRC Handelsblad» una serie di articoli, un po’ sensazionalistici e tendenziosi, sul Club di Roma e la sua politica di zero crescita. La discussione pubblica nei Paesi Bassi, cominciata già prima della presentazione del libro a Washington, si centrò subito sull’idea di crescita zero. Questa fu anche l’ottica attraverso la quale Limits to growth fu visto dai numerosi critici del libro dopo la sua pubblicazione. L’importante messaggio dello studio di Meadows, che i limiti erano più che altro limiti ecologici imposti dalle risorse finite del mondo e dalla capacità della biosfera di assorbire le scorie prodotte dall’attività dell’uomo, passò in secondo piano.
Lo statista olandese Sicco Mansholt contribuì a focalizzare il dibattito in questa direzione quando gli diede un risvolto politico (King 2006, pp. 336-37). Nel febbraio del 1972, poco prima di ascendere alla presidenza della Commissione europea, Mansholt scrisse alla Commissione una lettera nella quale, in base allo studio del MIT (non ancora publicato), suggeriva una serie di misure mirate a portare rapidamente l’Europa a una crescita economica zero. Tale lettera causò immediatamente una reazione molto negativa a livello politico, e la polemica attorno al libro si estese a tutta l’Europa, legando indelebilmente l’idea di crescita zero al Club di Roma.
King, nella sua già citata autobiografia Let the cat turn round (2006, pp. 336-37), ricorda di avere scritto con Peccei, nell’aprile del 1972, una lettera alla Commissione europea cercando di distanziare il Club di Roma dalla posizione politica assunta da Mansholt. Nella lettera King e Peccei notavano che, prima di arrivare ai limiti fisici del pianeta, il mondo dovrà far fronte a una marea di altri problemi sociali, politici e culturali – problemi che il Club di Roma stava cercando di capire. Quindi, sottolineavano, la crescita economica è soltanto uno degli aspetti di una problematica molto più complessa. La lettera, però, non ebbe effetto e nulla servì a cambiare l’etichetta di ‘zero crescita’ che fu appiccicata al Club di Roma in quell’epoca.
Il dibattito suscitato da Limits to growth si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Il tenore delle critiche sorprese e destò persino preoccupazioni in alcuni membri del Club di Roma, che si sentivano imbarazzati per l’enorme pubblicità generata dal libro. In difesa del Club di Roma, King, abilissimo in questo ruolo, notava sempre che il rapporto del MIT non era un rapporto del Club di Roma, ma un rapporto al Club di Roma, una prassi che si mantiene ancora oggigiorno. Peccei, sebbene più degli altri fosse nel mirino delle critiche, fu l’unico a rimanere imperturbato di fronte a questo maelstrom. King, nell’autobiografia, spiega così la ragione: «Aurelio era contento di ogni pubblicità, buona o cattiva che fosse, perché serviva a far conoscere il Club di Roma e il suo scopo. Tutti noi altri la accettavamo un po’ con vergogna» (2006, p. 338).
Nella sua monografia sul ruolo del Club di Roma negli studi sul futuro (1991, pp. 115-22), Peter Moll fa una dettagliata rassegna delle critiche che furono fatte a Limits to growth, notando che queste possono essere classificate in tre categorie. Le critiche provenienti dalla sinistra ruotavano attorno all’idea che preoccuparsi dell’ambiente è un lusso della classe agiata: il ceto medio ha altri problemi ben più difficili da risolvere che l’ambiente, per es. chi controlla la produzione e la distribuzione dei beni nella società. Le critiche provenienti dalla destra, d’altro canto, accusavano gli autori di Limits to growth di non avere tenuto sufficientemente in considerazione il ruolo del mercato e del progresso tecnologico: i meccanismi del mercato, sostenevano, aiuteranno a trovare il prezzo giusto per le risorse non rinnovabili che scarseggiano e nuove tecnologie provvederanno alternative a esse. Infine, le critiche provenienti dal Terzo mondo, essenzialmente, nascono da una lettura di Limits come manifesto per mantenere lo status quo. I Paesi meno sviluppati, seguendo la strada raccomandata nel libro, non riusciranno mai a migliorare le condizioni di vita dei loro cittadini, il che è inaccettabile.
Le critiche a Limiti allo sviluppo in Italia seguono direttrici simili. Il dibattito è descritto ampiamente da Piccioni e Nebbia (2011). La sinistra si fece già sentire prima della comparsa del libro. Un convegno organizzato dall’Istituto Gramsci nel novembre del 1971 indicava come sarebbe stato accolto I limiti allo sviluppo, quando Giovanni Berlinguer nelle sue conclusioni enfatizzava che i problemi dell’ambiente erano affrontabili solo in «un sistema internazionale di rapporti socialisti» (Piccioni, Nebbia 2011, p. 30). Questa posizione fu espressa in forma più estrema nel libro di Dario Paccino L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura (1972), in cui l’autore insiste sul fatto che la crisi ambientale è solo un raffinato complotto capitalista. Sebbene il rapporto al Club di Roma ricevette critiche più sfumate dalla sinistra di quelle di Paccino, il libro fu sbrigativamente giudicato irrilevante, perché non faceva luce sui veri problemi della classe operaia.
In Italia, critiche a I limiti dello sviluppo vennero anche dalla destra, particolarmente dagli esponenti dell’ambiente imprenditoriale che, come scrivono Piccioni e Nebbia (2011), «paiono accorgersi lucidamente e tempestivamente dei rischi per le imprese connessi a un eventuale successo politico delle tesi del Club di Roma, e si impegnano in modo metodico a confutarle» (p. 23). Il libro fu problematico anche per gli ambienti cattolici, non per il messaggio economico, ma per la chiara posizione presa sulla necessità di limitare le nascite (Piccioni, Nebbia 2011, pp. 24-27). In contrasto netto con quello che successe nel mondo anglosassone, dove le critiche a Limits to growth furono vigorose e aspre, gli economisti italiani risposero «con ritardo e con un certo spaesamento» (Piccioni, Nebbia 2011, p. 22). Quindi la loro voce nel dibattito sui limiti allo sviluppo fu secondaria.
L’evoluzione del pensiero di Aurelio Peccei
Le critiche a Limits to growth.furono di gran lunga superiori agli encomi, come c’era da aspettarsi per un libro così rivoluzionario. Scriveva Peccei:
ero certo che critiche subdole e malevole non sarebbero mancate, ma pensavo che in fin dei conti esse avrebbero costituito soltanto un’ondata passeggera […] Dopo tutto, quel che volevamo si era verificato. Il dibattito si stava allargando e l’opinione pubblica era rimasta genuinamente perplessa in merito ad alcuni aspetti della crescita e alle loro possibili conseguenze (La qualità umana, cit., p. 117).
La crisi petrolifera nell’autunno del 1973 inasprì il dibattito aperto da Limits to growth e convinse Peccei, totalmente appoggiato da King, ad aprire un dialogo diretto con vari statisti nel mondo. L’idea di dialogare direttamente con le forze politiche non era nuova, ma era sempre stata uno degli obiettivi del Club di Roma. Infatti, subito dopo la riunione di Alpbach, vari membri del Club di Roma si recarono a Vienna, chiamati dal cancelliere Klaus per discutere con lui molti degli aspetti della problematique (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 89). Dopo quest’incontro, ci furono altri contatti ad alto livello.
Nel febbraio del 1974, invitati dal nuovo cancelliere austriaco, Bruno Kreisky, dieci membri del Club di Roma si riunirono a Salisburgo con alcuni statisti molto importanti, tutti venuti lì in forma privata (A. Peccei, La qualità umana, cit, pp. 121-23). Fra i partecipanti c’era il presidente del Senegal, Léopold Sédar Senghor, quello del Messico, Luis Echeverría Álvarez, e l’ex presidente della Svizzera, Nello Celio. Erano presenti anche i primi ministri del Canada, Pierre Trudeau, dei Paesi Bassi, Joop den Uyl, e della Svezia, Olof Palme. La discussione a Salisburgo fu aperta e franca, e il Club di Roma riuscì a «imprimere nella menti dei leader politici l’idea che essi, più di chiunque altro, [avevano] una responsabilità collettiva globale» (La qualità umana, cit, p. 122). L’incontro di Salisburgo e un incontro analogo a Guanajato (Messico) avvenuto l’anno dopo ebbero molto successo, e segnarono forse l’apice dell’influenza del Club di Roma nel mondo.
Oggi, sebbene il messaggio del Club di Roma e di Limits to growth.sia assai più compreso, una riunione di questo tipo appare inconcepibile. Il grande merito di Limits to growth.e di Peccei, oltre a permettere questa apertura politica, è di avere dato una dimensione globale ed ecologica negli studi sul futuro.
In Italia, questo messaggio fu generalmente ben accettato e appoggiato dagli ambienti legati agli studi sul futuro e dai movimenti ambientalisti. Ferraro, già un anno prima della pubblicazione di Limits to growth, invitò Peccei a scrivere un articolo per «Futuribili» (Un modello matematico per la previsione del futuro del mondo, 1971) sul rapporto in preparazione presso il MIT. Dopo la pubblicazione di Limiti dello sviluppo, la tesi del libro fu vigorosamente sostenuta in vari organi di stampa nazionale, fra i quali il «Corriere della sera», controllati da figure importanti dell’ambientalismo italiano come Giulia Maria Crespi (Piccioni, Nebbia 2011, pp. 19-20). Quantunque non uniformemente, il giovane ambientalismo italiano ricevette molto favorevolmente il messaggio di Limits to growth.e Peccei divenne il loro paladino (Piccioni, Nebbia 2011, pp. 37-42).
Il mondo italiano della politica e delle istituzioni si dimostrò disinteressato (Barbieri Masini 1998, p. 20). Peccei, però, come aveva già fatto molte volte nella sua vita, invece di ostinarsi in Italia, continuò a diffondere le sue idee nel mondo. Il successo popolare di Limits to growth, con la vendita di più di dieci milioni di esemplari e la traduzione in trenta lingue, aveva catapultato il Club di Roma e Peccei stesso sul palcoscenico mondiale. Per consolidare il messaggio emerso dal rapporto del MIT, inoltre, vi era un bisogno urgente di rafforzare queste conclusioni con altri studi più dettagliati.
Peccei aveva capito dal profondo dibattito suscitato da Limits to growth, che ulteriori studi del Club di Roma, oltre a rispondere alle critiche fatte, dovevano anche comprendere aspetti della problematique non esplorati da Meadows e dai suoi giovani collaboratori. Questo doppio proposito si intuisce dai temi scelti per i successivi rapporti al Club di Roma. Essi riflettono chiaramente le preoccupazioni di Peccei e l’evoluzione del suo pensiero. Sinteticamente, gli studi alla base di questi rapporti rientrano in tre categorie: studi metodologici e sistemici sui limiti del pianeta; studi sulla governance del mondo; studi sui valori necessari per il futuro.
Lo studio alla base del secondo rapporto al Club di Roma è un’esemplificazione della prima categoria. In tale rapporto, Mankind at the turning point, scritto da Pestel e Mihajlo D. Mesarovic nel 1974, il modello del MIT è disaggregato e regionalizzato. Questo permette una crescita più organica del mondo, e il libro smorza alcune delle critiche fatte a Limits to growth.
Un esempio della seconda categoria è lo studio diretto dall’olandese Jan Tinbergen, alla base del terzo rapporto al Club di Roma Reshaping the international order (RIO) del 1976. Lo studio di Tinbergen, premio Nobel per l’economia nel 1969 insieme con il norvegese Ragnar Frisch, affronta direttamente un tema toccato soltanto marginalmente dallo studio elaborato dal MIT, quello dell’ineguaglianza nel mondo. Tinbergen conclude che, per ridurre i divari esistenti nelle opportunità economiche, è neccessario riorganizzare la governance del pianeta. Solo così si può arrivare a uno sviluppo armonico del mondo nel futuro. Il progetto RIO fu caldamente appoggiato e incoraggiato da Peccei, perché rispondeva alle critiche a Limits to growth provenienti dai Paesi in via di sviluppo. Peccei era convinto della necessità di cambiare il sistema di governance mondiale, ma ancora più ferventemente riteneva importante che la gente stessa cambiasse.
La necessità di modificare gli ideali umani, per poter meglio affrontare le sfide che incalzavano il mondo, è alla base della terza categoria di studi intrapresi per il Club di Roma. Il primo progetto del Club in questa nuova direzione fu coordinato da Ervin László, filosofo e cibernetico ungherese. Lo studio di László portò alla publicazione nel 1977 di un volume intitolato Goals for mankind. Fra i valori cruciali per l’umanità nel futuro, László sottolinea l’importanza che l’uomo diventi consapevole del suo ruolo sulla Terra e degli obblighi che ha per le generazioni future. Quest’idea, che l’uomo deve percepirsi e agire da attore globale responsabile, era in perfetta sintonia con il pensiero di Peccei, il quale si era convinto che l’elemento fondamentale, alla fine, era l’uomo stesso.
Questa convinzione è delineata nella Qualità umana, in cui Peccei insiste con grande passione sul fatto che l’uomo, e soltanto l’uomo, può trovare una via d’uscita alla trappola in cui l’umanità si trova. Per riuscirci, deve trovare un nuovo umanesimo e scoprire il suo ruolo nel palcoscenico globale:
Il bene di cui abbiamo bisogno e la forza per compierlo possono essere trovati solo sviluppando la nostra comprensione della nuova condizione umana e di come essa trasforma il mondo, e stimolando la nostra capacità creativa a trovare modi di essere che generino armonie, e non dissonanze, in noi stessi e nel nostro universo (A. Peccei, La qualità umana, cit., p. 218).
E così sintetizza ciò che occorre per realizzare un vero sviluppo dell’essere umano:
A mio vedere, le cose che occorrono sono ad un tempo facili e difficili oltre non dire: occorre, da un lato, che tutti abbiano istruzione e lavoro e, dall’altro, che ciascuno diventi più adatto a vivere nel nostro tempo. Non è saggio né utile limitarsi ad affermare che si tratta di obiettivi impossibili, che il problema, così come è proposto, è un problema senza soluzione. Perché non c’è altra strada che possa offrire all’umanità la possibilità di uscire dalla china precipitosa in cui si è cacciata – e di ciò bisogna convincerci – questo cammino, pur così arduo, deve essere esplorato (p. 170).
Epilogo
Peccei fu un gran tessitore di rapporti umani e riuscì a raccogliere attorno a sé, nel Club di Roma, molti degli intellettuali più impegnati dell’epoca, di diversa formazione ed esperienza. Fra gli italiani, furono membri Altiero Spinelli, ispiratore dell’unità dell’Europa; Adriano Buzzati Traverso, grande genetista e scienzato; Umberto Colombo, autore con Dennis Gabor nel 1978 del quarto rapporto al Club di Roma Beyond the age of waste e poi presidente dell’ENEA e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica; Giorgio Nebbia, noto ambientalista e politico; Eleonora Barbieri Masini, una delle fondatrici della World future studies federation; e Orio Giarini, autore di due rapporti al Club di Roma, Dialogue of wealth and welfare (1980) e The employment dilemma and the future of work (1998) con Patrick Liedtke.
Oltre alla sua grande abilità ad attrarre persone molto diverse intorno alla sua causa, Peccei sarà ricordato per avere per primo dato una dimensione globale agli studi sul futuro. Negli ultimi vent’anni della sua vita, la sua grande missione fu quella di convincere la società umana che, se essa vuole un futuro migliore, l’indirizzo del mondo deve cambiare. L’importanza di far fronte a questa sfida, a mio parere, è il contributo intellettuale più importante che Peccei lasciò all’Italia e al mondo.
In retrospettiva, il grande dibattito suscitato da Limits to growth e l’instancabile attività di Peccei e dei membri del Club di Roma negli anni Settanta non riuscirono a sviluppare completamente una coscienza globale della problematique. La situazione, infatti, regredì nelle decadi successive. Soltanto ora, a distanza di quarant’anni, le idee lungimiranti di Peccei sono capite un po’ da tutti, a ragione dell’inasprirsi delle condizioni del mondo. Purtroppo, però, non vedo ancora molti progressi verso il nuovo umanesimo proposto da Aurelio Peccei.
Opere
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