IACOBITI (Iacobucci), Aurelio Simmaco
Nacque a Tossicia, nel Teramano; mancano notizie esaustive e certe sulla famiglia d'origine, sulla sua formazione, le amicizie, gli ambienti frequentati. Dai Notamenti di Pietro D'Afeltro e dai Repertori dei magni sigilli della Sommaria - fonti citate dal Percopo e ora non più accessibili perché distrutte nel 1943 durante la seconda guerra mondiale - si apprende che era attivo a Napoli come giureconsulto già nel 1423 e che nel 1499 era ancora vivente.
Lo I. fu autore di versi sia in latino sia in volgare, ma la maggior parte dei suoi testi è rimasta inedita fino ad anni recenti; due i manoscritti che ne conservano le opere: Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds ital., 1097 e Washington DC, Holy Name College Library, cod. segnato 92.
Il codice parigino, che testimonia l'attività dello I. come volgarizzatore, contiene una traduzione in 78 ottave della Batracomiomachia dello Pseudo Omero, datata 1456 e composta "ad peticionem et instantiam […] Jacheti Maglabeti", cioè Iachetto Magliabeti, segretario del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini Del Balzo; seguono due sonetti (i cui incipit sono, rispettivamente, Io non fo mai in cielo né in paradiso e Oymé lasso chi vedo vingire); un terzo sonetto è dedicato a Bernardino da Siena (inc. Almo confessore, tu Bernardino). Si leggono poi due capitoli ternari (il primo Se de iustitia la spata superna, il secondo Signore in cui è volto ogni disio), il volgarizzamento - anch'esso in ottave - del VI libro dell'Eneide virgiliana, un altro capitolo O muse che dal monte di Parnaso, un componimento in lode del re di Napoli, Alfonso I d'Aragona il Magnanimo Ay Napoli excellente, pubblicato integralmente prima da Mazzatinti e poi da de Marinis, e infine un epitaffio in esametri latini, nel penultimo verso del quale lo I. qualifica se stesso come "vicii spretor virtutis amator". Il volgarizzamento della Batracomiomachia è stato edito a cura di M. Marinucci, Padova 2001.
Il manoscritto di Washington contiene il Liber miraculorum vitae et mortis fratris Iacobi de Marchia, un poema in ottave dedicato al francescano Giacomo della Marca di cui lo I. fu, in ordine di tempo, il terzo biografo dopo Venanzio da Fabriano e Giovanni Battista Petrucci. Questo codice ha una storia curiosa: lo I. terminò di comporre la vita di Giacomo della Marca, che nel manoscritto è priva di titolazione, nel 1490, disponendo che fosse custodita presso la tomba di Giacomo, posta in una cappella della chiesa di S. Maria la Nova di Napoli; dal 1609 se ne persero le tracce e fu creduta smarrita fino a quando, nel 1916, il francescano Livario Oliger la ritrovò a Monaco di Baviera nel negozio di un antiquario; Oliger tuttavia pensò di darne notizia solo nel 1939, quando il manoscritto era ormai arrivato negli Stati Uniti, e poté quindi stamparne solo stralci basati sugli appunti presi ventitré anni prima (L. Oliger, Una vita in ottava rima di s. Giacomo della Marca, opera di A.S. de' J. [1490]. Con una tavola, in Studi francescani, XXXVI [1939], 1, pp. 22-50); ancora un francescano, Renato Lioi, nel 1966 pubblicò uno studio corredato da un'ampia selezione del testo, ma un'edizione critica, curata da un altro francescano, Girolamo Mascia, è stata data alle stampe solo nel 1970 (Poema inedito in ottava rima su s. Giacomo della Marca, Napoli 1970).
La vita di Giacomo della Marca è composta da venti canti di lunghezza variabile ed è preceduta da due gruppi di distici latini: il primo costituisce l'Exordium dell'opera, nel quale l'autore, rivolgendosi retoricamente al libro, giustifica il proprio stile non solenne, non modellato sui poeti che hanno cantato le avventure delle divinità pagane; il secondo gruppo di distici forma il Preambolum (cioè il sommario del poema stesso) che inizia con una invocazione a Giacomo della Marca. Alla fine del poema si legge un sonetto di scuse nei confronti dei lettori per l'insufficienza dell'opera, dovuta alle continue liti giudiziarie dell'autore, come spiega una Rubrica preposta ai versi: lo I. riferisce infatti di aver composto la vita di Giacomo della Marca per riconoscenza, avendogli attribuito il merito della vittoria in una causa per il possesso di un feudo protrattasi dieci anni.
L'opera si conclude con nove distici latini preceduti da una Rubrica in volgare contenente il ringraziamento dello I. alla Vergine per averlo aiutato a terminare l'impresa; nella stessa Rubrica lo I. spiega la propria scelta linguistica, operata a richiesta dei frati, che egli considera generalmente illetterati, "per comune bene de tucti".
I venti canti dedicati alla vita di Giacomo della Marca svolgono l'itinerario consueto dei testi agiografici e possono essere divisi in tre grandi quadri; nel primo è narrata la vita fino alla partenza per l'Ungheria voluta da papa Niccolò V: l'autore si sofferma sulle predicazioni e sui miracoli compiuti lungo il viaggio e inserisce una digressione affiancando a Giacomo gli altri due grandi francescani del Quattrocento, Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano. Nel secondo è esposto l'apostolato svolto da Giacomo fuori d'Italia, con dettagliate notizie sui suoi ulteriori viaggi; il terzo quadro riferisce il ritorno in Italia di Giacomo, le sue predicazioni e i miracoli fino alla morte, sopraggiunta a Napoli nel 1476. Gli ultimi due canti sono dedicati ai miracoli compiuti dopo la morte.
Per la composizione del poema lo I. ha senz'altro utilizzato come fonte la vita composta da Venanzio ma vi ha inserito anche errori e inesattezze; ciò è stato interpretato come segnale della volontà di compiere una celebrazione poetica di Giacomo, piuttosto che un'operazione rigorosamente storica.
È stato notato che lo I. ha organizzato la propria opera come se fosse un cantastorie che narra le vicende e i viaggi di un eroe: della tradizione canterina in effetti egli impiega non solo il metro, l'ottava, ma anche altri contrassegni, quali la lingua popolareggiante, i richiami all'attenzione del pubblico, la narrazione di eventi eccezionali, la ricerca dell'esotico e del favoloso attraverso la descrizione di terre lontane o la narrazione delle singolari imprese di grandi uomini, come quelle leggendarie di Carlomagno in Calabria.
Nella lingua lo I. si rivela coevo di Francesco Del Tuppo, Pietro Iacopo De Gennaro, Masuccio Salernitano: come loro infatti impiega un lessico tendente al conguaglio, fitto di latinismi e di forme ibride, ma aperto anche all'accoglimento di toscanismi letterari, soprattutto dantismi.
Fonti e Bibl.: G. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti delle biblioteche di Francia, I, Roma 1886, p. 189; Id., La biblioteca del re d'Aragona di Napoli, Rocca San Casciano 1897 (v. la rec. di E. Piscopo, in Rass. critica della lett. italiana, II [1897], 5-6, p. 131); S. De Ricci, Census of Medieval and Renaissance manuscripts in the United States and Canada, I, New York 1935, p. 484; B. Croce, Poesia a Napoli nel primo Quattrocento, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 48-52, 55; R. Lioi - P. Cannata, Giacomo della Marca, in Bibliotheca sanctorum, VI, Roma 1965, coll. 388-401; R. Lioi, A.S. de' J., terzo biografo di s. Giacomo della Marca, in Studi francescani, LXIII (1966), 1, pp. 51-118; 3, pp. 45-77; T. de Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d'Aragona, Suppl. I, Verona 1969, pp. 154 s., 254-256; G. Sabatelli, rec. ad A.S. de Jacobiti, Poema inedito… su s. Giacomo della Marca (1970), in Archivum Franciscanum historicum, LXV (1972), 1-3, pp. 317-321; D. Lasić, De vita et operibus s. Iacobi de Marchia, Falconara Marittima 1974, pp. 108-113, 198-202; P.O. Kristeller, Iter Italicum, III, p. 312; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VI, pp. 105 s.