‘Aurora’ rinascimentale, ‘sole’ illuministico
In un saggio del 1901 – Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt («Deutsche Rundschau», agosto-settembre 1901; trad. it. , Il secolo XVIII e il mondo storico, 1967) – Wilhelm Dilthey sottolinea in maniera originale e impeccabile il contributo dell’Illuminismo nell’elaborare «una nuova concezione della storia […] realizzata in splendide opere storiche da Voltaire, da Federico II, da Hume, da Robertson, da Gibbon» (trad. it. 1967, p. 25).
«In esse – osserva Dilthey – l’intuizione della solidarietà e del progresso del genere umano illumina le vicende di tutti i popoli e di tutte le epoche. Per la prima volta la storia universale pervenne a una connessione che nasceva dalla stessa considerazione empirica: essa era razionale in virtù della concatenazione di tutti gli eventi secondo il principio di causa ed effetto ed era criticamente superiore in virtù del rifiuto di qualsiasi superamento della realtà data in rappresentazioni che la trascendessero. I fondamenti di tale costruzione erano un impiego affatto spregiudicato della critica storica, che non si fermava neppure dinanzi alle più sacre reliquie del passato, e un metodo comparativo che si estendeva a tutti gli stadi dell’umanità (p. 25)».
Al centro di questa complessa elaborazione è collocato il rapporto genetico tra Rinascimento e Illuminismo, interpretati, rispettivamente, come l’‘aurora’ e il ‘sole’ interamente dispiegato della civiltà. Presentato in chiave storiografica, si tratta di un giudizio di carattere squisitamente filosofico-storico, destinato a diventare una pietra miliare dell’autocoscienza dei ‘moderni’. Sarebbe perciò fuori luogo sottoporre queste valutazioni a una critica di carattere strettamente storico, mostrando come nella ‘genealogia’ da loro stabilita gli illuministi trascurassero temi e problemi fondamentali della cultura rinascimentale. Quello che era in gioco era altro, e riguardava l’identità culturale e la coscienza storica dei ‘moderni’, imperniate – ed è questo che interessa sottolineare – sul nesso strutturale di Rinascimento e Illuminismo.
Nell’Ottocento questo nesso fu variamente ripreso, discusso e anche rifiutato, con osservazioni molto precise e convincenti; tanto più è significativo – e testimone della lungimiranza dell’intuizione degli illuministi – che, in termini strettamente storiografici, esso sia stato invece ripreso nel Novecento e sia ridiventato anzi, per un lungo tratto di tempo, un vero e proprio ‘senso comune’.
A riproporre con energia il rapporto tra rinnovamento umanistico ed età dell’Illuminismo fu, nel 1955, Delio Cantimori, in un saggio classico, e famoso, intitolato La periodizzazione dell'età del Rinascimento, nel quale, da un lato, si criticano le tradizionali interpretazioni del Rinascimento; dall’altro, si configura nell’ambito della storia europea una lunga continuità che da Francesco Petrarca arriva fino a Jean-Jacques Rousseau. Nella sua interpretazione Cantimori prendeva le mosse dalla critica di Konrad Burdach all’‘uomo del Rinascimento’, concordando sul fatto che esso non aveva alcuna consistenza reale e che un ‘uomo del Rinascimento’, in quanto tale, non era mai esistito.
Ma proprio muovendo di qui Cantimori individuava nella storia europea quella che egli definiva l’«età umanistica»:
in letteratura dal Petrarca al Goethe, nella storia della Chiesa dallo scisma d’Occidente alle secolarizzazioni, nella storia economico-sociale dai comuni e dal precapitalismo mercantile alla rivoluzione industriale, nella storia politica dalla morte dell’imperatore Carlo IV alla rivoluzione francese (La periodizzazione dell'età del Rinascimento , in Id., Studi di storia, 1959, p. 361).
In sintesi, per Cantimori, «pur con tutte le possibili variazioni e contraddizioni interne, antecedenti e sopravvivenze», si trattava di
un periodo unico, che può essere definito dal nome del movimento intellettuale che continua attraverso di esso con varie ramificazioni; nome nato nelle biblioteche e nelle università […], ma via via riempitosi di vari e vasti significati, spesso lontanissimi da quelli originari, spesso arbitrari, ma sempre, ameno dei giuochi di parole, legati a quel momento europeo (pp. 361-62).
Certo, e Cantimori ne era ben consapevole, era una «definizione unilaterale», perché teneva conto «soprattutto dell’elemento della storia intellettuale, e anche di questa sotto un profilo particolare, contrastato, spesso negato come nella Querelle e infine dal Rousseau» (p. 362); ma, al tempo stesso, pur «sempre presente sia come termine di affermazione che come termine di negazione o come termine di paragone» (da «Cola di Rienzo a quando il Saint-Just invocava Bruto e Scipione, Licurgo e Solone, e i giacobini italiani richiamavano il Machiavelli», p. 362).
In conclusione, questa interpretazione aveva – concludeva Cantimori – «il pregio, insito, di fondarsi su una continuità accertata e di essere di carattere europeo generale, di potere offrire sempre una linea di riferimento» (p. 362). Con questo saggio Cantimori conseguiva due obiettivi importanti: rivendicare il Rinascimento come ‘principio’ del mondo moderno e stabilire, al tempo stesso, un nesso organico fra storia italiana e storia europea, riprendendo, in modi originali, un motivo di fondo della storiografia idealistica italiana, a cominciare da Bertrando Spaventa che aveva imperniato su questa tesi uno dei punti centrali della sua prolusione napoletana del 1861.
Come si è detto, questa interpretazione di Cantimori ha avuto notevole successo ed è stata ripresa anche da Eugenio Garin – il quale, nell’Avvertenza a un suo libro intitolato sintomaticamente Dal Rinascimento all'Illuminismo, citò fin dalle primissime righe la tesi «senza dubbio non nuova ma certamente suggestiva» di Cantimori, sottolineandone la fecondità sul terreno della storia della cultura, a patto di coglierne
il senso reale: e cioè, innanzitutto, il richiamo alla costanza dei temi in una sostanziale permanenza di problemi e prospettive: una sorta di linguaggio comune collegato a ‘autori’ comuni. Ramo scrisse una volta che un dotto medievale che fosse risorto dalla tomba nel Cinquecento non vi avrebbe riconosciuto nulla di familiare; un contemporaneo di Ramo destato dal sepolcro a metà del Settecento, nello scorrere i libri di testo delle scuole e gli auctores, sarebbe stato assai meno turbato (E. Garin, Dal Rinascimento all'Illuminismo. Studi e ricerche, 1970, 19932, p. 11).
Garin scriveva queste battute nel 1970, raccogliendo nel suo volume saggi che, come si legge nell’Avvertenza alla seconda edizione, avevano precisamente l’obiettivo di
chiarire i nessi e gli intrecci di temi rilevanti entro lo svolgimento della cultura filosofico-scientifica soprattutto italiana fra umanesimo rinascimentale e discussioni settecentesche (p. 7).
Ma, proprio in quello stesso periodo, altri studiosi impegnati nello studio della cultura scientifica e della scienza ‘moderne’ stavano mettendo in crisi radicale questa impostazione, proponendo una nuova interpretazione e una diversa periodizzazione basata su una sostanziale cesura fra Rinascimento e ‘mondo moderno’.
Il punto sul quale questi studiosi facevano forza era la radicale differenza, a loro giudizio, tra l’‘ermetismo’ rinascimentale e i paradigmi costitutivi della rivoluzione scientifica moderna e dei suoi maggiori rappresentanti. Non si negava, in verità, che le tendenze ermetiche avessero contribuito alla definizione di un nuovo concetto di uomo e del rapporto tra uomo e natura, e si riconosceva anche che esse avevano svolto un ruolo importante nella genesi della scienza moderna; ma si sottolineava con nettezza che una cosa è la genesi di una teoria scientifica, altra cosa è la sua ‘struttura’ generale, irriducibile, nel caso della rivoluzione scientifica moderna, ai parametri propri della cultura umanistica e rinascimentale. Sulla base di queste intuizioni, veniva proposta una nuova periodizzazione del mondo moderno (da Nicola Copernico a Isaac Newton). Simmetricamente, sotto la pressione di questa interpretazione, i maggiori filosofi del Rinascimento – a cominciare da Giordano Bruno – venivano sospinti verso il premoderno e consegnati a un ‘mondo dei maghi’, estraneo, in quanto tale, alla cultura e alla scienza moderne.
Su questa discussione varrebbe la pena di soffermarsi più a lungo, mettendo a fuoco in primo luogo la confusione tra ‘ermetismo’ e ‘magia’ rinascimentale, che è alla base di molte delle interpretazioni allora di moda. Ma, certamente, esse individuavano delle differenze reali fra ‘filosofie’ del Rinascimento e scienze moderne, che riguardavano in primo luogo le rispettive ontologie su cui esse si fondavano – qualitativa nel primo caso; quantitativa, nel secondo. Differenze sostanziali, che si esprimono a tutti i livelli, compreso quello della lingua e della scrittura, come si vede confrontando la pagina di Bruno e quella di Galileo Galilei. Né meno diversi – anzi, profondamente differenti – erano gli interlocutori, i seguaci, i pubblici ai quali l’uno e l’altro si rivolgevano. Quello di Bruno era un sapere magico, segreto, da cui scaturiva il potere di un «capitano» capace di vincolare a sé i propri adepti, avviando la renovatio mundi, la quale sarebbe avvenuta, né poteva essere diversamente, secondo il modello ermetico di filosofia della storia messo al centro dello Spaccio de la bestia trionfante. Galilei, invece – il quale anche per questo si tenne rigorosamente lontano sia da Bruno che da Tommaso Campanella –, si muoveva in un orizzonte assai diverso, nel quale risulta acquisito quel carattere pubblico del sapere e della discussione di cui, nel mondo moderno, sarebbero state protagoniste le accademie scientifiche. È, per molti aspetti, la stessa prospettiva in cui si muoveva René Descartes, per il quale era acquisita l’eguaglianza delle intelligenze, con un drastico rifiuto delle differenze tra ‘sapienti’ e ‘volgo’, poste al centro del pensiero di Bruno.
In conclusione, negli ultimi decenni del secolo scorso il concetto di ‘mondo moderno’ è stato radicalmente ripensato, a tutti i livelli, alla luce di una nuova interpretazione – e periodizzazione –, imperniata, come essenziale punto di riferimento, sulla genesi e sui caratteri della scienza classica moderna, a sua volta considerata, e valorizzata, in netta contrapposizione con il Rinascimento, di cui sono stati così radicalmente delimitati sia il valore che il significato, con un conseguente rifiuto del modello filosofico-storico elaborato dagli illuministi.
Eppure, quando si considerano queste posizioni, è difficile non riconoscerne il valore e l’importanza anche per una rinnovata interpretazione dell’età rinascimentale, alla quale si è peraltro già fatto riferimento nell’introduzione alla seconda sezione di questo volume. Né è il caso di insistere ancora su questo punto, se non per ribadire, sommariamente, che una rimessa a fuoco del Rinascimento nella sua specificità e autonomia – al di là delle genealogie moderne – è stata paradossalmente resa possibile proprio dalle critiche che gli storici della cultura scientifica e della scienza hanno rivolto al ‘paradigma moderno’ costruito dagli illuministi e destinato, come si è visto sopra, a vasti e imponenti sviluppi.
Per quanto possa apparire singolare, è proprio sulla base di queste critiche che si è cominciato a distinguere fra Umanesimo e ‘ideologia umanistica’, fra Umanesimo e Rinascimento, riportando anche in primo piano quella dimensione drammatica, e a volte tragica, dell’età rinascimentale, del tutto sacrificata nelle immagini, divenute poi classiche, che avevano puntato sulla valorizzazione della dimensione ‘armonica’, e addirittura ‘iperuranica’, di quella cultura.
Anche la prospettiva ‘civile’ posta alla base di questo volume consente però di emanciparsi da vecchie discussioni e contrapposizioni, riproponendo in termini nuovi e originali il problema di una continuità ‘strutturale’ della filosofia e, in generale, della cultura italiane.
Si è appena fatto il nome di Giordano Bruno, ma se anche si volesse accettare la tesi – largamente riduttiva – di un Nolano ‘mago’, non si potrebbe non riconoscere il peso che egli ha avuto nella concezione dell’universo infinito; nell’elaborazione di un concetto del lavoro come predicato proprio dell’uomo e delle civiltà da lui costruite; più in generale, nella proclamazione del principio della libertas philosophandi. Ma questo è solo un esempio. Fili di continuità possono essere agevolmente individuati su altri terreni altrettanto decisivi – per esempio, nella riflessione sulla funzione ‘civile’ della religione.
Su questo punto il paradigma elaborato da Niccolò Machiavelli continua a essere presente e a svilupparsi in autori di primo piano come Pietro Giannone. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio il Segretario fiorentino – e anche su questo si è già variamente insistito – batteva sulla religione come fondamento del vivere civile, facendo esplicito riferimento a quella dei Romani, di cui sottolineava il valore e la potenza, contrapponendola alla religione cristiana, che aveva invece tolto agli uomini «ferocia» e «ambizione». Riprendendo questi temi, Giannone nei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio scrive che
i Romani riguardavano la religione come efficace mezzo per mantenere a dovere i cittadini, sicché fra di loro fosse giustizia e concordia; e stretti da questo vincolo potessero attendere non pur alla conservazione del pubblico bene, ma al maggior suo accrescimento; e non già se n’abusassero, come alle volte alcuni cattivi facevano, per proprio commodo e privato interesse (Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, in Illuministi italiani , 1° vol., Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli, G. Ricuperati, 1971, p. 749).
E contrapponendo, anche qui secondo un modulo machiavelliano, religione cristiana e religione antica, scriveva che i Romani
la religione eziandio l’indrizzavano per la sola conservazione ed ingrandimento dello stato mondano e terreno. Quindi – e qui riecheggiano battute dello Spaccio di Bruno – da’ loro dii non si promettevano che felicità mondane; e gli rendevano sacrifici e voti perché gli scampassero da miseria e calamità parimente mondane. Ragionavano della loro religione de’ loro numi diversamente che noi, ed i loro teologi aveano altre massime e sistemi opposti a que’ de’ nostri (p. 749).
Né i rapporti di Giannone con la cultura umanistica e rinascimentale si fermano qui: nella critica del primato del vescovo di Roma – svolta nel Triregno – era ripresa, sul piano ideale, la grande lezione svolta da Lorenzo Valla nel De falso credita et ementita Constantini donatione.
In quel testo straordinario, Giannone ricordava in primo luogo per quali motivi era sorto il potere del vescovo romano: avere la propria sede nella «prima città del mondo»; essere Roma la città nella quale «le lettere e le discipline fiorivano e dove concorrevano i più insigni domìni del mondo», i quali avevano arrecato onore e reputazione alla Chiesa romana; avere il primo imperatore cristiano – cioè Costantino I il Grande – esercitato «la sua munificenza e magnanimità in favorirla cotanto, arricchirla di beni mondani, di preziose suppellettili», innalzando «il suo vescovo a sommi onori, adornandolo del pallio, o sia manto imperiale, e di regali insegne» (Il Triregno, in Illuministi italiani, 1° vol., Opere di Pietro Giannone, cit., pp. 710-12). È in questo modo che il vescovo di Roma era riuscito a ottenere «quella riverenza e rispetto, quanto l’istoria di que’ tempi racconta» (p. 712).
Sono già un giudizio e un’impostazione assai netti. Ma dopo aver sottolineato che quelle appena ricordate erano «le vere e potissime cagioni della […] preminenza» di Roma «sopra gl’altri vescovi dell’orbe cristiano» (p. 712), Giannone, riprendendo anche qui la lezione di Valla, sottolineava con grande energia che
i pontefici romani non vollero attenersi a queste, ma per rendere la loro autorità assoluta ed indipendente da’ concili e dagl’imperatori stessi e dall’Imperio, ne inventarono altre, sopra le quali s’ingegnarono stabilire e fondar meglio la loro potenza, per poterla poi stendere per tutto il mondo, senza che vi fosse argine alcuno che potesse raffrenarla, siccome per l’ignoranza e superstizione de’ secoli seguenti fortunatamente avvenne (Il Triregno, cit., pp. 712-13).
In senso generale, la critica, e la discussione, intorno alla religione è uno dei principali motivi di continuità della filosofia italiana dal Rinascimento all’Illuminismo; ma secondo una pluralità di approcci e di prospettive che va opportunamente segnalata.
Paolo Sarpi, per es., aveva sostenuto in pagine assai nette che la società può fare a meno della religione e che «non è vero che la Torà ritenga le repubbliche, e che senza lei non sosterrebbonsi». L’uomo, infatti,
è di natura timida o audace; se timida, con altri terrori a sufficienza si tiene; se audace, a tenerlo non basta qual si voglia, benché fosse maggiore. […] Quando però la Torà non fosse, i timidi per altre minaccie temerebbono, e gl’arditi nullameno sarebbon tali, se ben ella vi fosse (Pensieri naturali, metafisici e matematici, ed. critica a cura di L. Cozzi, L. Sosio, 1996, p. 314).
Né è da pensare che la religione sia l’unico strumento in grado di esercitare sugli uomini una funzione di controllo: L’onore, se ben è una falsa opinione, fa i medesimi effetti […]. La Torà dunque – conclude Sarpi – non è tanto utile quanto crede alcuno, ma fa perché più fanno due che uno, ed ogni poco d’aggiunto aggiugne (pp. 314-15).
A sua volta, Giambattista Vico ebbe su questo punto cruciale una posizione frontalmente opposta, come risulta dalla polemica che svolge nella Scienza nuova contro Pierre Bayle, il quale aveva affermato «nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia». La qual cosa, contesta sdegnato Vico,
non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama: che, se fussero almondo filosofi, che ’n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo religioni (La scienza nuova, a cura di P. Rossi, 20049, p. 233).
Al contrario – ribadisce con forza –, le religioni, insieme ai matrimoni e alle sepolture, costituiscono uno dei tre «principi» della vita civile (pp. 232-37).
Nell’ambito di questa ampia discussione sulla religione, e in una prospettiva di lungo periodo, si possono individuare almeno tre linee: un’analisi e una critica di carattere ‘scientifico’, che tendevano a ‘naturalizzare’ l’esperienza religiosa; una rivendicazione del suo ruolo civile, che coinvolgeva autori molto lontani tra di loro e che continuerà a svilupparsi anche nell’Ottocento, per esempio nelle pagine di una personalità come Giuseppe Mazzini; una critica molto dura nei confronti della Chiesa romana – da Machiavelli a Francesco Guicciardini, da Sarpi a Giannone, fino ad Antonio Genovesi. Il quale scrisse pagine davvero memorabili per la loro durezza contro i «troppi preti e poltroni», sottolineando con forza che
i sacri canoni hanno messo un giusto e ragionevole limite ai preti, comandando che nessuno potesse essere ascritto fra i sacri ministri senza titolo di benefizio o di necessità di chiesa (Delle lezioni di commercio, o sia Di economia civile, con elementi di commercio, a cura di M.L. Perna, 2005, p. 349).
Infatti – osservava Genovesi –, «il ministero ecclesiastico è fra noi divinamente fondato; ma il numero n’è stato lasciato alla prudenza umana». C’è però – sottolineava –, per quanto riguarda i «ministri della parola divina e de’ sacramenti», una regola certa per il loro numero, e questa è il bisogno dei popoli. Non possono essere né molto meno né molto più, senza male e disordine. Se son meno, i popoli restano ignoranti di quel che loro importa di sapere il più. Se eccedono dimolto, oltreché restano oziosi, e gravano inutilmente lo Stato, non può essere che l’ambizione e la cupidigia non gli solletichi e, in cambio di fare il lor dovere, non riescano di scandalo, e destino delle guerre (pp. 446-47).
Ma Genovesi fa un discorso filosofico e civile di ordine generale, al di là della stessa critica nei confronti della Chiesa di Roma: a suo giudizio,
le sottigliezze metafisiche, l’allontanamento dal senso comune, i sistemi elaborati senza aggancio con la realtà, lungi dall’aiutare la conoscenza della natura, alimentano scetticismo e fanatismo. […] La filosofia astratta, lontana dal commercio degli uomini, emigrata nei mondi intelligibili, ossia oltre le possibilità reali della mente, è fonte di oscurità e di vane controversie (E. Garin, Antonio Genovesi storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illumnismo, cit., pp. 245-46).
È interessante che sia stata proprio una personalità come Genovesi a svolgere una critica di questo tipo nei confronti della «poltroneria» dei preti, sia perché contribuisce a mettere a fuoco la complessità della sua posizione, sia perché getta luce su un carattere di fondo della filosofia italiana di questo periodo e, in modo particolare, sulla discussione svoltasi, anche nelle fila della Chiesa, intorno al ruolo e alla funzione della religione.
Essa non può essere ridotta in alcun modo a una dimensione di carattere anticlericale che ne è, semmai, solamente un aspetto; e non il principale. Quelle che si vengono formando fra Rinascimento e Illuminismo in Italia sono una filosofia e una cultura che si possono definire propriamente laiche – cioè civili –, i cui semi essenziali sono stati gettati nel nostro Paese da pensatori come Leon Battista Alberti, Machiavelli, Pietro Pomponazzi, Bruno, Galilei e potenziati e sviluppati da complesse personalità come Sarpi, Giannone e Gaetano Filangieri, fino a Cesare Beccaria.
Essi elaborano una vera e propria ‘sapienza mondana’ e, muovendo dall’affermazione della libertas philosophandi, mettono a fuoco concetti centrali del vivere civile – dalla ‘legge’ al ‘conflitto’, dall’‘eguaglianza’ al ‘bisogno’, dalla ‘libertà di stampa’ all’‘educazione pubblica’, sulla quale scrive pagine straordinarie Filangieri nella Scienza della legislazione.
Si tratta di una ‘sapienza’ imperniata sul primato del sapere critico e scientifico in tutte le sue forme e, in questo quadro, su un’etica di carattere rigorosamente intramondano, nella quale si esprime una spiccata vocazione civile, caratteristica della filosofia italiana fin dal Rinascimento e pienamente dispiegata con l’Illuminismo. È in quei secoli che nasce e si definisce un carattere originario della nazione italiana, destinato sotto vari aspetti a perdurare anche quando essa, nel 1861, approderà alla forma dello Stato nazionale unitario, continuando a distinguere l’Italia da altre nazioni europee.
Se si volesse indicare l’autore nel quale questa lunga storia arriva al suo vertice, si potrebbe citare, senza alcun dubbio, Beccaria, il quale nel 1764 pubblicò a Livorno Dei delitti e delle pene, argomentando in modo definitivo il rifiuto della tortura e la condanna della pena di morte. Messo all’Indice due anni dopo, nel 1766, quel piccolo, e rivoluzionario, libro è il frutto più maturo della ‘sapienza mondana’ elaborata in Italia dal Rinascimento all’Illuminismo.