autentico/inautentico
Coppia di concetti, con cui, soprattutto nella filosofia esistenziale del 20° sec., si contrappone ciò che appartiene alla natura più propria dell’uomo, che ne esprime il carattere e il valore più alto, a ciò che invece fa sì che l’uomo perda tale natura, e di conseguenza si trovi separato dal suo sé più profondo e vero.
Questa contrapposizione di valori è sottotraccia già nel pensiero di Kierkegaard e nella sua intensa ricerca del vero cristianesimo; in quello di Nietzsche, che nei Greci, in tutto l’arco della sua opera, vede la realizzazione di una vita piena, a cui di rado le epoche successive hanno saputo elevarsi; nella cultura mitteleuropea, e specialmente austriaca a ridosso della prima guerra mondiale, in cui esponenti quali Hofmannsthal e R. Musil hanno sottolineato come nel mondo contemporaneo il linguaggio e i modi di vita perdano sempre più consistenza e capacità di orientare l’uomo nel mondo.
Ma è soprattutto in alcuni esponenti della filosofia esistenziale che questa coppia concettuale riceve nel 20° sec. la definizione più precisa. In Jaspers, innanzitutto, nella sua opera Psicologia delle visioni del mondo (1918), si trova la seguente definizione dell’autenticità e dell’inautenticità: «L’a. è ciò che è più profondo in contrapposizione a ciò ch’è più superficiale; per esempio, ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò che ne sfiora l’epidermide, ciò che dura di contro a ciò ch’è momentaneo, ciò ch’è cresciuto e si è sviluppato con la persona di contro a ciò che la persona ha accettato o imitato». Jaspers precisa anche il carattere puramente ideale (nel senso kantiano del termine) dell’autenticità, che si trova sempre mescolata all’i. e da esso minacciata: «l’a. non è mai concepibile, e l’i. non è così assolutamente e semplicemente i., né può negarsi completamente». In Heidegger questa coppia concettuale è inserita all’interno della complessa analisi esistenziale delineata in Essere e tempo (➔) (1927), divenendo la contrapposizione fra due diverse condizioni dell’«Esserci» o Dasein; questo, che solo in via indicativa e provvisoria può essere identificato con l’uomo, è per definizione «L’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso», che «si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria», ma esso può aver successo o fallire in questo conseguimento della sua dimensione propria: «Appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o ‘scegliersi’, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo ‘apparentemente’»: nel primo caso si ha autenticità, nel secondo inautenticità. Nell’inautenticità ricade tutta la nostra esistenza quotidiana, esistenza che Heidegger definisce «anonima» e «deietta» e in cui la tecnica ha una parte importante. A strapparci ad essa per condurci verso l’autenticità è fondamentale per Heidegger il rapporto con la morte e l’angoscia (➔) che a essa si connette: solo chi sa decidersi senza riserve ad accettare la prospettiva della morte, cioè della propria finitezza, può realizzare in pieno la propria esistenza. Sulla linea di Heidegger, che è stato suo maestro, ma sviluppandone in modo originale l’insegnamento, anche la Arendt riprende la tematica dell’autenticità: per un lato ella vede nella banalità del male, nell’acquiescenza passiva agli ordini superiori la rinuncia al proprio più a. essere morale; per l’altro, in Vita activa (1958), individua come modello di una dimensione più a. dell’esistenza quella della polis greca, nella cui agorà si svolgeva un libero e conflittuale dibattito fra i cittadini, che permetteva il pieno sviluppo delle dimensioni più creative dell’uomo. Anche nella sua ultima opera, La vita della mente (post. 1978), la Arendt sviluppa una ricerca sulla libertà come interiorità che è strettamente legata alla contrapposizione fra a. e i.: è la dimensione interiore del pensiero a costituire una vita veramente a., di contro all’esteriorità della vita pratica, dispersa nella superficialità del quotidiano. Rispetto a questi autori, che sono tutti legati, seppure in modo e grado diverso, alla cultura esistenzialistica, filosofi come Adorno, Horkheimer e Marcuse, appartenenti alla Scuola di Francoforte, danno dei due concetti una versione in parte, anche se non totalmente, differente. L’enorme sviluppo della tecnica viene considerato da questi autori come un fattore di inautenticità. Ciò vale anche per Heidegger; ma la critica alla tecnica dei francofortesi viene invece strettamente legata a una critica del capitalismo di ispirazione marxista. Sull’inautenticità della vita nel tardo capitalismo, sulla riduzione dei rapporti umani a una dimensione meramente utilitaria e sulla perdita di ogni vero sentimento nelle società contemporanee, sono rimaste paradigmatiche la pagine di Adorno in Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951).