Abstract
L’autodeterminazione dei popoli costituisce un principio fondamentale del diritto internazionale contemporaneo. In una prospettiva di evoluzione storica, viene esaminata l’emersione del detto principio nel diritto internazionale generale e nel diritto internazionale pattizio e ne viene definito l’ambito di applicazione, con particolare riferimento ai soggetti destinatari dei diritti da esso derivanti e alle situazioni in cui tali diritti trovano riconoscimento. Infine, è preso in considerazione il tema d’attualità dell’autodeterminazione cd. “esterna” nel diritto internazionale contemporaneo, oltre il contesto storico della decolonizzazione.
L’autodeterminazione dei popoli costituisce un principio fondamentale del diritto internazionale contemporaneo, in virtù del quale tutti i popoli hanno diritto a decidere autonomamente del proprio assetto politico, economico e sociale. La Corte internazionale di giustizia lo ha caratterizzato come un principio da cui derivano obblighi c.d. erga omnes, al cui rispetto hanno un interesse giuridicamente riconosciuto tutti gli Stati, in nome e per conto della comunità internazionale (C.I.J., 30.6.1995, Case Concerning East Timor, Portogallo c. Australia; C.I.J., 9.7.2004, Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, parere consultivo). Secondo parte della dottrina, il principio è diventato parte dello ius cogens, cioè di quel nucleo di norme inderogabili a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale (cfr. Brownlie, I., Principles of Public International Law, VII ed., Oxford, 2008, 511; Cassese, A., Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, Cambridge, 1995, 140). Ciò nonostante, esso continua a essere contraddistinto da margini di incertezza giuridica, sia riguardo all’ambito soggettivo di applicazione, in particolare rispetto all’individuazione dei gruppi destinatari del corrispettivo diritto; sia riguardo alla possibilità che tale diritto possa essere esercitato al di fuori del contesto coloniale per condurre alla creazione di un nuovo Stato.
Troviamo traccia delle prime declinazioni politiche del principio di autodeterminazione dei popoli nel contesto delle rivoluzioni francese e americana di fine XVIII secolo: si pensi alla Déclaration du droit des gens dell’Abbé Grégoire, non approvata dalla Convenzione nel 1775, e al preambolo della Dichiarazione di indipendenza americana del 1776. A livello internazionale, il principio di autodeterminazione dei gruppi nazionali trova espressione nel 1918 nei Quattordici Punti del Presidente americano Wilson, che avrebbero dovuto informare il nuovo ordine politico-territoriale successivo alla Prima Guerra Mondiale. Sebbene il Patto della Società delle Nazioni non contenga alcun riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli, i regimi internazionali di tutela delle minoranze nazionali stabiliti con la Pace di Versailles costituiscono una prima declinazione giuridico-formale del principio di autodeterminazione delle nazioni (di quegli anni, particolarmente rilevanti ai fini della successiva elaborazione giuridica in merito al principio in esame, sono il rapporto della Commissione internazionale di giuristi, in LN Official Journal, Suppl. 3, 1920, 3 ss., e il rapporto della Commissione di relatori, in LN Council doc. B7 21/68/106, 1921, relativi alla controversia tra Svezia e Finlandia sui diritti della popolazione svedese delle Isole Aaland).
L’autodeterminazione dei popoli trova pieno riconoscimento giuridico nel 1945 con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite. La Carta richiama il principio nel preambolo, all’art. 1, concernente le finalità dell’organizzazione, e all’art. 55, relativo all’azione delle Nazioni Unite in ambito economico e sociale e di promozione del rispetto dei diritti dell’uomo. Va notato tuttavia come, aldilà di questi riconoscimenti di natura generale e programmatica, l’autodeterminazione non appaia nei capitoli XI e XII relativi all’amministrazione dei territori coloniali, nelle rispettive forme dei territori non autonomi e delle amministrazioni fiduciarie. L’assenza nella Carta di meccanismi istituzionali e di specifiche procedure per dare attuazione al principio di autodeterminazione deriva dalle posizioni assunte da Francia e Gran Bretagna durante i lavori preparatori; queste miravano a garantire ampia discrezionalità alle potenze coloniali nello stabilire quando i popoli e i territori “d’oltremare” sotto il loro controllo avrebbero raggiunto quel grado di civilizzazione e di organizzazione politica necessario perché potessero costituirsi in nuovi Stati (Oeter, S., Self-Determination, in Simma, B., a cura di, The Charter of the United Nations. A Commentary, III ed., Oxford, 2012, 313 ss.).
È solamente con l’impetuosa affermazione dei movimenti indipendentisti nei contesti coloniali dell’Africa e dell’Asia, che il principio di autodeterminazione assume i contorni di un vero e proprio “diritto all’autodeterminazione” di cui i popoli sono destinatari, in quanto titolari o, perlomeno, beneficiari (per la tesi, prevalente nella dottrina italiana, secondo cui i popoli sarebbero meri beneficiari dell’obbligo degli Stati di rispettare il principio di autodeterminazione si veda, per tutti, Arangio Ruiz, G., Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1 ss.). Con le due risoluzioni 1514 (XV) e 1541 (XV), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1960, si cristallizza una opinio iuris generalizzata, accompagnata da una successiva prassi applicativa guidata dalla stessa Assemblea generale, che riconosce in maniera incondizionata il diritto all’autodeterminazione in capo a tutti i popoli sottoposti a dominio coloniale; secondo la formula stabilita dalla stessa risoluzione 1541, i popoli possono liberamente scegliere tra l’indipendenza, un accordo di libera associazione con la madrepatria ovvero l’integrazione nello Stato amministrante. Con la risoluzione 2625 (XXV) sui principi di diritto internazionale che regolano le relazioni amichevoli tra Stati, approvata dall’Assemblea generale nel 1970, viene data compiuta espressione all’opinio iuris che il principio di autodeterminazione dei popoli si estenda anche a quelle situazioni in cui una popolazione sia sottoposta ad un qualsiasi dominio straniero, non necessariamente di natura coloniale (Tancredi, A., Autodeterminazione dei popoli, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 568 ss.). L’adesione degli Stati a tale principio è stata poi riaffermata nel 1975 al Cap. VIII dell’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (in Int. L. Mat., 1975, 1292 ss.) e nel 1993 al par. 2 della Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani tenutasi a Vienna (UN doc. A/CONF.157/23).
Per quanto concerne il diritto pattizio, risalgono al 1966 i due Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti sociali, economici e culturali, il cui comune art. 1 riconosce il diritto all’autodeterminazione politica, economica, sociale e culturale di tutti i popoli. Il secondo paragrafo dell’art. 1 prevede anche il diritto dei popoli a disporre liberamente delle proprie risorse naturali, nel rispetto degli obblighi di diritto internazionale e delle esigenze della cooperazione economica internazionale. In questo secondo paragrafo, trova espressione pattizia il corollario della sovranità permanente dei popoli alle proprie risorse naturali, sviluppatosi soprattutto grazie all’azione dell’Assemblea generale (si veda soprattutto la risoluzione 1803 del 1962). Il terzo paragrafo dell’art. 1, oltre all’obbligo degli Stati di rispettare il diritto all’autodeterminazione, prevede anche l’obbligo positivo di promuoverlo. La natura erga omnes partes del principio in esame è stata messa in luce dal Comitato dei diritti umani nel 1984 nel General Comment No. 12, in cui ha stabilito che gli obblighi di cui all’art. 1 si applicano agli Stati, anche quando il popolo destinatario non sia da essi dipendente e che, in questi casi, gli Stati sono tenuti ad adottare tutte le misure positive per facilitare la realizzazione e il rispetto del diritto all’autodeterminazione e dei suoi corollari (UN doc. HRI/GEN/1/Rev.1). Infine, per quanto concerne il diritto internazionale regionale, il diritto all’autodeterminazione e alla sovranità permanente sulle risorse naturali è riconosciuto dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli agli artt. 20 e 21.
Il principio di autodeterminazione nasce come norma giuridica internazionale di legittimazione dell’emancipazione dal dominio coloniale e dal fatto che questo nucleo normativo “forte” accompagni un processo storico generalizzato e di portata universale deriva il suo rapido affermarsi come un principio fondamentale di diritto internazionale generale. Come osservato, il principio viene esteso, pur senza effetto retroattivo, a quelle situazioni in cui un popolo, già organizzatosi in uno Stato, diventa vittima di una aggressione esterna da parte di uno Stato confinante (per esempio, l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam nel 1977 o l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990) ovvero un territorio coloniale non ancora “autodeterminatosi” viene invaso ed annesso da uno Stato confinante (per esempio, l’invasione di Timor Est da parte dell’Indonesia o l’invasione del Sahara occidentale da parte del Marocco nel 1975). L’autodeterminazione emerge, quindi, nella sua accezione “esterna”: cioè, legittima una scelta di organizzazione politica, economica e sociale “esterna” alla sovranità dello Stato a cui il popolo che la esercita è stato fino ad allora sottoposto. Il diritto all’autodeterminazione così concepito assume tuttavia una chiara connotazione (e una limitazione) territoriale: il popolo sottoposto a dominio coloniale o straniero può optare per una autodeterminazione esterna nel rispetto dei confini internazionali, amministrativi e coloniali precedentemente stabiliti e che definiscono territorialmente la cd. self-determination unit. In altre parole, l’esercizio del diritto all’autodeterminazione si accompagna all’emergere di un altro importante principio di diritto internazionale generale c.d. dell’uti possidetis juris (cfr. Nesi, G., L’uti possidetis iuris nel diritto internazionale, Padova, 1996). La stessa Corte internazionale di giustizia, nella sentenza del 1986 relativa al caso Controversia di confine tra Burkina Faso e Mali, sottolinea come nel continente africano il principio di autodeterminazione dei popoli non sia stato interpretato e applicato in contraddizione al principio di stabilità dei confini, ma che, invece, sia stato declinato nel pieno rispetto di tale principio attraverso l’affermazione della regola dell’uti possidetis juris (C. giust., 22.12.1986, Case Concerning the Frontier Dispute, Burkina Faso c. Mali).
Ormai esauritosi il processo di decolonizzazione, il principio di autodeterminazione dei popoli ha oggi assunto una accezione prevalentemente interna, cioè di esercizio di diritti da esso derivanti all’interno dei confini dello Stato (così rafforzando la natura territoriale del principio stesso). Riguardo a quest’ultima dimensione, il quadro giuridico è più frammentario e risente di una sedimentazione di norme successive nel tempo e piuttosto diversificate, in quanto a tipologie di fonti e ambiti di applicazione. Va rilevato, innanzitutto, un primo nucleo centrale di norme consuetudinarie, elaborate dalle Nazioni Unite nel contesto coloniale, simultaneamente a quelle relative all’autodeterminazione esterna e con particolare riguardo alle situazioni di apartheid, che impone allo Stato di adottare un governo rappresentativo dell’intero popolo e che non lo discrimini sulla base della razza, del credo o del colore. Si pensi, per esempio, alla risoluzione 265 del 1970 con cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condannava la dichiarazione di indipendenza del regime Smith in Rodesia del Sud, in quanto in violazione del diritto all’autodeterminazione di quel popolo. Accezione prevalentemente interna ha anche il comune art. 1 dei Patti ONU del 1966, specificato dagli ulteriori diritti di partecipazione alla vita democratica dello Stato stabiliti all’art. 25. Fatto salvo il diritto pattizio appena menzionato, come correttamente osservato in dottrina (Tancredi, A., op. cit., 568 ss.), non pare che le prassi degli organi delle Nazioni Unite, tra cui quelle del Comitato dei diritti umani e del Consiglio di sicurezza in relazione alle transizioni democratiche successive ad un conflitto, siano ancora sufficienti a provare una emersione di una opinio juris generalizzata, volta a cristallizzare una norma di diritto internazionale generale che conferisca un diritto ad un governo non solo rappresentativo, ma anche democratico. Si è invece consolidata una consuetudine regionale in questo senso, limitata all’ambito del continente europeo, e promossa con convinzione dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea. In ogni caso, destinataria del diritto all’autodeterminazione interna è la popolazione dello Stato nel suo complesso.
Diverse valutazioni vanno invece fatte in merito all’applicazione del principio di autodeterminazione alle minoranze nazionali. Se, come abbiamo visto, nel periodo tra le due Guerre Mondiali il principio trova le sue prime declinazioni nei regimi di tutela delle minoranze in Europa, oggi le minoranze nazionali godono di tutele organiche sancite da norme di diritto internazionale solamente in strumenti pattizi regionali, elaborati in seno al Consiglio d’Europa come la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992 e la Convenzione quadro sulle minoranze nazionali del 1995. Va notato, inoltre, come il principio di autodeterminazione non compaia in questi strumenti. Lo stesso Patto sui diritti civili e politici prevede per le minoranze all’art. 27 una disciplina distinta rispetto a quella ex art. 1 relativa all’autodeterminazione dei popoli. In sintesi, il diritto internazionale generale non riconosce la nozione di minoranza nazionale, assorbibile invece in quella di popolo, generalmente intesa come popolazione dello Stato; ciò nonostante il fatto che la comunità internazionale, negli ultimi venti anni, si sia sovente sforzata di promuovere soluzioni fondate sull’autonomia nei casi di conflitti interni tra gruppi nazionali o etnici territorialmente definiti. Ipotesi diversa è quella in cui sia lo stesso ordinamento dello Stato a riconoscere il diritto all’autodeterminazione di più popoli costituenti; in questi casi, come evidenziato dalla Commissione Badinter nel parere n. 2 relativo al diritto di autodeterminazione delle popolazioni serbe presenti in Croazia e Bosnia-Erzegovina, il popolo costituente ha diritto ad esercitare la propria autodeterminazione interna nel rispetto dei confini prestabiliti (in Int. L. Mat., 1992, 1497 ss.); di conseguenza, la revoca di prerogative fondamentali riconosciute dall’ordinamento interno dello Stato a favore di un popolo costituente potrà costituire una violazione del diritto all’autodeterminazione.
Un breve cenno va fatto, infine, ai diritti dei popoli indigeni. A oggi, non esiste una norma di diritto internazionale generale che tuteli o promuova l’identità storica, linguistica e culturale delle popolazioni indigene, nonostante singole norme di tutela siano contenute in strumenti pattizi. La Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, adottata dall’Assemblea generale nel 2007 attraverso la risoluzione 61/295, ne riconosce il diritto all’autodeterminazione nel rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ma rimane un atto di soft law di natura programmatica. Ciò trova conferma in un documento del dicembre 2010 con cui gli Stati Uniti, che avevano votato contro l’adozione del documento in sede di Assemblea generale, hanno annunciato di avere cambiato la propria posizione e che la Dichiarazione «while not legally binding or a statement of current international – has both moral and political force» (testo della dichiarazione disponibile al sito http://www.state.gov/documents/organization/184099.pdf).
Un importante contributo al riconoscimento e al consolidamento del principio di autodeterminazione dei popoli nel diritto internazionale è stato offerto dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia. L’elaborazione della portata giuridica del principio stesso, e degli effetti da esso derivanti, è stata svolta primariamente nell’ambito di procedimenti consultivi riguardanti alcune delle principali vicende storiche in cui l’affermazione del diritto all’autodeterminazione da parte di un popolo si è scontrata con le pretese sovrane di uno Stato.
Nel 1971, nel parere relativo alle Conseguenze giuridiche della presenza del Sudafrica in Namibia, la Corte affermava, circa la legittimità, contestata dal Sudafrica, della revoca da parte dell’Assemblea generale del Mandato sudafricano in Namibia, che gli istituti del diritto internazionale stabiliti nell’ambito della Società delle Nazioni dovessero essere intrepretati alla luce degli sviluppi del diritto internazionale avvenuti nei decenni successivi, in particolare l’emersione del principio di autodeterminazione dei popoli (C.I.J., 21.6.1971, Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (South West Africa) Notwithstanding Resolution 276 (1990), parere consultivo).
Quattro anni, più tardi, nel 1975, nel parere sul Sahara Occidentale, la Corte, nel giudicare dei pretesi legami di sovranità tra Marocco e confinante “Sahara spagnolo”, considerava il diritto all’autodeterminazione della popolazione del Sahara occidentale un “assunto basilare” per rispondere ai quesiti giuridici ad essa sottoposti dall’Assemblea generale; concludeva escludendo la sussistenza di legami di tale natura, tra Marocco e Sahara occidentale, da incidere sull’applicazione della risoluzione 1514 al processo di decolonizzazione del Sahara stesso e, in particolare, del diritto all’autodeterminazione attraverso una libera espressione della volontà popolare (C.I.J., 16.10.1975, Western Sahara, parere consultivo).
Nel 2004, nel parere relativo alle Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, la Corte ha determinato che la costruzione del muro nei territori occupati e il regime ad esso associato violano il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese (C.I.J., Legality of a Wall, cit.). La Corte ha qualificato l’obbligo di rispettare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese come un obbligo erga omnes, la cui violazione estenderebbe l’ambito soggettivo del regime di responsabilità a tutti gli Stati. In capo a questi ultimi, insorgerebbero degli obblighi di non riconoscimento della liceità del muro e del regime associato, di non assistenza allo Stato autore dell’illecito nel mantenere la situazione in violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e di cooperazione per porre fine a tale situazione.
Invero, la caratterizzazione dell’obbligo di rispettare il diritto all’autodeterminazione di un popolo come obbligo erga omnes era già stata operata dalla Corte nel contenzioso tra Portogallo e Australia nel caso Timor Est (C.I.J., East Timor, cit.). Tuttavia, nonostante tale caratterizzazione, la Corte si era dichiarata incompetente, in conseguenza dell’assenza di un valido titolo di giurisdizione per giudicare la presenza indonesiana a Timor Est, la cui legittimità o meno costituiva il presupposto necessario per valutare la compatibilità con il diritto internazionale del Trattato bilaterale, concluso nel 1989 da Indonesia e Australia, sulla definizione del confine marittimo e sullo sfruttamento delle risorse naturali nella zona di mare prospiciente la costa di Timor Est, e dedotto in giudizio dal Portogallo.
Si segnala, poi, come, nel più recente parere del 2010 sulla Conformità al diritto internazionale della dichiarazione unilaterale di indipendenza relativa al Kosovo, la Corte abbia ritenuto che il diritto all’autodeterminazione del popolo kosovaro, e in particolare il c.d. diritto all’autodeterminazione come “ultimo rimedio”, concernessero il diritto a separarsi da uno Stato e, quindi, esulassero da quanto richiesto dall’Assemblea generale, che imponeva solamente un’analisi di eventuali divieti all’emanazione di dichiarazioni di indipendenza previsti dal diritto internazionale (C.I.J., 22.7.2010, Accordance with International Law of the Unilateral Declaration of Independence in Respect of Kosovo, parere consultivo). La Corte ha rilevato nel caso di specie l’assenza di divieti, sia sotto il profilo del diritto internazionale generale, sia sotto il profilo della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, concludendo che la dichiarazione di indipendenza non violava il diritto internazionale.
Ci si chiede oggi se il principio di autodeterminazione dei popoli, fatta eccezione per le poche vicende di teatri di crisi ereditati dall’era coloniale, come la Palestina (si veda, in ultimo, il richiamo al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese al par. 1 della risoluzione 67/19, adottata dall’Assemblea generale il 29.11.2012, con cui la Palestina ha acquisito lo status di Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite) e il Sahara occidentale, abbia esaurito la sua ragione di essere, proprio in virtù dell’ormai conclusa esperienza della decolonizzazione. In particolare, la prassi degli Stati e della comunità internazionale nella fase Post Guerra Fredda sembra avere ridimensionato la portata e gli effetti del principio, da cui deriverebbe un diritto in capo ai popoli di emanciparsi da un’autorità di governo straniera, nemica o anche solamente considerata illegittima, per riaffermare in maniera netta l’esigenza del rispetto del principio di integrità territoriale degli Stati. La comunità internazionale, a partire dagli anni Novanta, ha mostrato unità di intenti nei contesti più diversi, dai Paesi Baschi alla Cecenia, passando per il Somaliland, nel riaffermare il principio di integrità territoriale degli Stati (si veda Crawford, J., State Practice and International Law in Relation to Secession, in Br. Yearb. Int. L., 1998, 85 ss.). Il principio di autodeterminazione è stato sempre più declinato nella sua accezione interna, cioè, come un diritto a ottenere dal governo dello Stato un trattamento rispettoso dell’identità culturale, linguistica e politica della popolazione.
L’individuazione di un punto di equilibrio cui sarebbe giunto il diritto internazionale, in una prospettiva di bilanciamento tra autodeterminazione dei popoli e diritto all’integrità territoriale degli Stati, è evidente nel parere sulla Secessione del Quebec emanato dalla Corte suprema canadese nel 1998 (C. supr. Can., 20.8.1998, Reference Re Secession of Quebec). Il Governo federale canadese aveva chiesto alla Corte suprema se, ai sensi del diritto internazionale, le istituzioni provinciali del Quebec godessero di un diritto a dichiarare e perfezionare la separazione della provincia francofona dalla federazione canadese. La Corte suprema stabilisce che il diritto all’autodeterminazione, nel diritto internazionale contemporaneo, avrebbe una prevalente declinazione “interna” e il diritto a separarsi dallo Stato sarebbe riconosciuto da una norma positiva di diritto internazionale, ove il popolo sia sottoposto a un dominio coloniale o straniero. La Corte suprema presenta anche una terza ipotesi, non realizzata nel caso di specie, di un diritto all’autodeterminazione “esterna” nei casi di violazioni sistematiche commesse dal governo dello Stato nei confronti dei diritti di una parte della popolazione; ma esprime dubbi sul fatto che il c.d. diritto alla secessione come “ultimo rimedio” sia già diventato parte del diritto internazionale positivo.
Come già notato, nel parere sul Kosovo, la Corte internazionale di giustizia non si è pronunciata sul diritto all’autodeterminazione della popolazione kosovara, come rimedio alle politiche di repressione portate avanti dal Governo di Belgrado durante gli anni Novanta. Tuttavia, dal procedimento consultivo, emerge che tra i più di 40 Stati che hanno partecipato al procedimento davanti alla Corte, 13 di questi hanno affermato il diritto alla secessione rimedio come fondamento giuridico delle pretese kosovare (si veda Pertile, M., Il parere sul Kosovo e l’autodeterminazione assente: quando la parsimonia non è una virtù, in Gradoni, L.-Milano, E., a cura di, Il parere della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo: un’analisi critica, Padova, 2011, 89 ss.). Lo stesso Piano Ahtisaari, che nel 2007 aveva promosso la soluzione di un Kosovo indipendente sotto supervisione internazionale, prendeva atto del clima di ostilità e di sfiducia nei confronti del Governo di Belgrado in conseguenza delle repressioni dell’era Milosevic e, quindi, faceva propria la necessità di una separazione dalla Repubblica di Serbia (Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement, UN doc. S/2007/168/Add.1). Sebbene sia anche significativo (11) il numero degli Stati che, invece, hanno fermamente negato l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione “post-coloniale” e sostenuto la prevalenza del diritto all’integrità territoriale, l’ingente mole di prassi e di espressione di opinio iuris motivata dall’indipendenza del Kosovo mostra come il punto di equilibrio individuato dalla Corte suprema canadese nel parere sul Quebec non sia affatto stabile. Peraltro, la stessa Corte internazionale di giustizia, in un passo del proprio parere, ha limitato l’ambito di applicazione soggettiva del principio di integrità territoriale, affermando che esso sarebbe “confinato” alle relazioni tra Stati e revocando, quindi, in dubbio che il diritto stesso al mantenimento dei confini internazionalmente riconosciuti possa essere opposto a gruppi non statali che ambiscano alla separazione (C.I.J., Unilateral Declaration of Independence of Kosovo, cit.).
Nonostante la prassi sia ancora limitata e nonostante la dottrina che sostiene l’autodeterminazione “esterna” come ultima ratio svolga, anche per la summenzionata limitatezza, le proprie argomentazioni utilizzando un approccio deduttivo, ancorato principalmente a una lettura a contrario delle simili clausole di salvaguardia dell’integrità territoriale degli Stati contenute nella Dichiarazione Finale della Conferenza di Helsinki del 1975 e nella Dichiarazione Finale della Conferenze di Vienna del 1993 (approccio deduttivo che “cozza” con la nozione di diritto consuetudinario che emerge dall’Art. 38, par. 1, lett. b) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia), gli elementi sopra esposti, unitamente al caso della recente indipendenza del Sud Sudan, sembrano indicare uno stato del diritto internazionale sulla materia di nuovo “fluido”, in cui il diritto all’autodeterminazione potrebbe assumere nuove forme e esprimere le proprie potenzialità sul piano internazionale, in contesti differenti da quelli in cui era originariamente emerso. Il legame tra sovranità, territorialità e legittimità del governo, proiettato nell’emersione del principio di autodeterminazione dei popoli e già evidenziato, quasi un secolo fa, dalla Commissione internazionale di giuristi nel rapporto relativo alle Isole Aaland, non sembra potere essere reciso nel diritto internazionale, del XXI secolo, sempre più rispondente alle istanze degli individui e dei gruppi non statali.
Art. 1, Carta delle Nazioni Unite, San Francisco, 1945; Art. 55, Carta delle Nazioni Unite, San Francisco, 1945; Art. 1, Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York, 1966; Art. 1, Patto internazionale sui diritti sociali, economici e culturali, New York, 1966; Art. 20, Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, Banjul, 1981.
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