Autodichia del Senato: Corte cost. n. 120/2014
Con la sentenza del 9.5.2014, n. 120, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sul tema dell’autodichia parlamentare, ribadendo i propri precedenti quanto alla insindacabilità dei regolamenti parlamentari, ma indicando nel conflitto d’attribuzione tra poteri una possibile via d’uscita all’annoso problema della giurisdizione domestica delle Camere. Benché sempre più esili appaiano le ragioni per giustificare una simile prerogativa, non pochi sono i dubbi intorno al regime applicabile alle controversie che vedono coinvolti i dipendenti delle Camere nel caso in cui essa dovesse venire meno.
Dopo essersi pronunciata sul tema dell’autodichia delle Camere con la sentenza n. 154/1985, che aveva fatto salvo il sistema di giustizia domestica tradizionalmente operante all’interno delle assemblee parlamentari per le controversie con i propri dipendenti, la Corte costituzionale torna a pronunciarsi nel merito sul punto dopo quasi trent’anni con la sentenza n. 120/2014, che rispetto a quel lontano precedente segna qualche continuità e diverse rilevanti novità.
Pur ribadendo, infatti, che le norme regolamentari che si pongono a fondamento di tale istituto (nel caso di specie l’art. 12 Reg. Senato) non possono essere sindacate in sede di giudizio in via incidentale, in quanto non rientranti tra le leggi e gli atti aventi forza di legge di cui all’art. 134 Cost., la Corte osserva che «anche norme non sindacabili potrebbero essere fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili» cui porre rimedio, eventualmente, per il tramite di un conflitto fra poteri.
L’esito prefigurato dalla pronuncia si inserisce in un’evoluzione giurisprudenziale che, soprattutto ad opera della Corte di cassazione e della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha visto negli ultimi anni rinsaldarsi i presupposti giustificativi della prerogativa in questione.
La prima, non di rado investita della questione quale organo regolatore della giurisdizione, ha alternato negli ultimi anni un orientamento critico nei confronti dell’estensione degli spazi di giustizia domestica delle Camere ad un atteggiamento di sostanziale rispetto della loro autonomia. Se, dal primo punto di vista, meritano infatti di essere segnalate le pronunce che hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti tra i gruppi parlamentari e i propri dipendenti1 ovvero quelle concernenti la ripartizione dei contributi elettorali2, resta fermo, dal secondo punto di vista, che le S.U., almeno fino all’ordinanza che ha sollevato la questione decisa con la sentenza n. 120/2014, hanno sempre fatto salva la riserva di giurisdizione delle Camere nei rapporti con i propri dipendenti3.
Parallelamente, di simile riserva è stata ritenuta titolare anche la Presidenza della Repubblica. Dopo che, infatti, ancora nel 1998 le S.U. avevano stabilito che giudice dei rapporti di lavoro dei dipendenti del Segretariato Generale dovesse essere il Giudice amministrativo4, con l’ordinanza del 17.3.2010, n. 6529, il supremo organo regolatore della giurisdizione ha riconosciuto alla Presidenza «una potestà di autorganizzazione a fondamento costituzionale indiretto», realizzata per il tramite di una procedura paragiurisdizionale interna che, per il fatto di demandare la decisione a personale totalmente esterno all’organo di appartenenza del dipendente, è stata ritenuta in linea con requisiti minimi di imparzialità e di indipendenza.
L’approccio scelto da questa ultima pronuncia, criticato in dottrina in quanto rivelatore di una concezione riduttiva della imparzialità5, si spiega tenendo conto dell’orientamento nel frattempo intrapreso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la decisione resa nel caso Savino c. Italia6 non ha ritenuto l’autodichia di per sé incompatibile con i dettami dell’art. 6 CEDU, limitandosi proprio a richiedere che i criteri di composizione degli organi di giustizia domestica rispettassero i requisiti di indipendenza e imparzialità di cui all’art. 6 CEDU7.
L’evoluzione degli ultimi anni dimostra, pertanto, come rispetto all’assunto fatto proprio dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 154/1985, secondo cui l’autodichia rientrava in quella «indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere» di cui godevano le Camere e che postulava, pertanto, la sua sostanziale estraneità rispetto all’esercizio della giurisdizione8, si sia fatta strada l’idea per cui la giustizia domestica debba essere considerata come una forma di giurisdizione speciale, affidata sì ad organi esterni alla Magistratura, ma pur sempre tenuta a rispettare quei presupposti base di imparzialità e indipendenza dell’organo giudicante asseritamente compendiati nell’art. 6 della CEDU e negli artt. 24, 111 e 113 Cost.
La comprensione degli elementi di novità apportati alla materia in questione dalla sentenza n. 120/2014 richiede di trattare separatamente i due versanti lungo i quali si snoda l’analisi della Corte: il sindacato sugli atti-fonte in cui l’autodichia è concretamente prevista e disciplinata e il fondamento costituzionale del relativo potere delle Camere nel momento in cui l’esercizio di questo limita quello conferito dalla Costituzione all’autorità giudiziaria.
2.1 Autodichia e sindacato sui regolamenti parlamentari
L’elemento di più evidente continuità tra la sentenza n. 120/2014 e il precedente del 1985 risiede sicuramente nella recisa negazione, ad opera della Corte, della possibilità che l’autodichia possa essere censurata per il tramite di una declaratoria di incostituzionalità delle norme regolamentari che la prevedono e che ne costituiscono il fondamento. Ora come allora, infatti, viene confutata l’appartenenza dei regolamenti parlamentari al novero delle fonti primarie sindacabili ai sensi dell’art. 134 Cost. in virtù della «sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria». Da questo punto di vista, quindi, la Corte mostra di non voler affrontare le perplessità di quella parte della dottrina che, rivalutando la primarietà come categoria in grado di sostituirsi alla forza di legge al fine di rafforzare ed estendere il principio di costituzionalità rispetto al diritto di rango sub-costituzionale, aveva da subito visto nell’approccio scelto dalla Corte il rischio di far rinascere la dottrina degli interna corporis9.
Al di là dell’apparente continuità, tuttavia, ad una attenta lettura il rilievo del problema sembra oggi in certa misura ridimensionato. La Corte precisa, infatti, che l’insindacabilità dei regolamenti non rende questi ultimi «fonti puramente interne», nonostante che la ratio di essa risieda nella «garanzia di indipendenza delle Camere da ogni altro potere». E questo perché il fondamento e l’estensione dell’autodichia non possono essere disgiunti dalla individuazione di quell’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari dagli artt. 64 e 72 Cost., che la Corte ricollega alle «funzioni primarie delle Camere», in relazione alle quali sussiste una sicura competenza dei regolamenti e la cui interpretazione e applicazione non può che spettare «in via esclusiva alle Camere stesse». A fronte di ciò, e tenuto conto del successivo caveat secondo cui è controverso se lo stesso discorso possa valere per i rapporti di lavoro con i dipendenti e per i rapporti con i terzi, diventa chiaro come lo scarto tra questa pronuncia e i suoi precedenti sta nel fatto che mentre questi ultimi (si pensi anche alla sentenza n. 379/1996) fanno coincidere l’ambito del regolamento con lo spazio di autonomia delle Camere considerato nel suo insieme, sottraendone lo spazio d’azione alla logica delle fonti e alla sua dogmatica10, la seconda cerca invece di isolare chiaramente l’ambito di insindacabilità del regolamento come espressione delle sfere in cui il regolamento ha una competenza riservata11, dai limiti cui sono invece soggetti gli istituti del diritto parlamentare “amministrativo”.
In questo aspetto sembra nascondersi, tuttavia, un elemento di ambiguità della nuova pronuncia della Corte12, se è vero che dall’enfasi posta sull’individuazione di un ambito di competenza riservato dei regolamenti parlamentari non discende, come sarebbe forse stato conseguente, un sindacato sul regolamento anche solo in parte qua, bensì un dirottamento del controllo sul diverso rimedio del conflitto di attribuzioni. Uno strumento senza dubbio maggiormente rispettoso dell’autonomia normativa delle Camere, ma che pone il rischio di un controllo maggiormente penetrante sulle modalità di esercizio delle loro funzioni.
2.2 La prospettiva del conflitto di attribuzioni
La Corte addita quindi nel conflitto di attribuzione tra poteri lo strumento idoneo a verificare il fondamento costituzionale della giurisdizione domestica delle Camere e a scongiurare che essa comprometta diritti fondamentali o pregiudichi l’attuazione di principi inderogabili.
La strada segnata dalla Corte lascia intravedere la possibilità che l’autodichia, una volta sgombrato il campo dalla pesante ipoteca del sindacato sui regolamenti, venga vagliata alla luce della eccezione che essa rappresenta rispetto ai principi di cui agli artt. 24, 111 e 113 Cost. in termini di menomazione dell’esercizio della funzione giurisdizionale e, di riflesso, di limitazione del diritto all’accesso al giudice e alla tutela da questi offerta.
In vista di un simile esame, la sentenza in discussione alimenta sicuramente la difficoltà di ritenere l’autodichia un proprium indefettibile dell’attività delle Camere. Per un verso, infatti, va rimarcata la sua estraneità al dominio propriamente politico parlamentare, nel quale con maggiore pienezza si possono dispiegare le attribuzioni riservate alle Camere13.
Per un altro verso, e ancora prima, rispetto alla tesi, pur autorevolmente sostenuta, che ha visto nell’intrinseca spettanza della giurisdizione domestica alle Camere un presidio al rischio di condizionamenti ad opera di altri poteri14, sembra doversi preferire l’opinione per cui «nel vigente ordinamento le guarentigie della indipendenza degli organi costituzionali, più che discendere dalla natura di tali organi, concorrono, semmai, con altri elementi a caratterizzare il particolare regime che è proprio di ciascuno di essi»15.
In questo quadro, i contorni del conflitto di attribuzione prefigurato dalla Corte chiamano in causa una menomazione o, tutt’al più, una interferenza subita dal giudice per il fatto stesso di essere impossibilitato a pronunciarsi su un rapporto di lavoro (o di altra natura quando a ricorrere in giudizio sia un soggetto del tutto esterno alle Camere) e potrebbe avere ad oggetto, a seconda delle circostanze, le norme, regolamentari o sub-regolamentari, che regolano l’autodichia, ma anche il singolo provvedimento degli organi interni chiamati a risolvere le controversie in oggetto.
Rispetto a questo scenario,maggiori perplessità suscita l’eventualità che il controllo si appunti unicamente, sulla scia del caso Savino, sul rispetto delle esigenze di imparzialità e indipendenza, da ritenersi comunque soddisfatte allorché i soggetti chiamati a giudicare sul ricorso del dipendente siano diversi da quelli che hanno adottato il provvedimento contro cui questi ricorre. Il precedente europeo, infatti, esprime uno standard minimo di tutela e non una regola valevole allo steso modo per il sistema CEDU e per l’ordinamento italiano, a meno di trascurare il fatto che le garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione sono ben più dettagliate e dense di significato nella Costituzione che nella CEDU: basti pensare, tra l’altro, al significato di “legge” nell’art. 6 CEDU16 e alla ben più pregnante riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.,ma anche alla garanzia dell’inamovibilità (art. 107 Cost.) e al principio dell’accesso alla magistratura solo a seguito di concorso pubblico (art. 106 Cost.).
Al momento, i regolamenti minori che, all’interno delle due Camere, disciplinano il contenzioso dell’Amministrazione con i propri dipendenti e con i terzi17 predispongono un sistema di tutela imperniato su due gradi di giudizio, affidati a collegi decisionali formati in prevalenza da membri delle rispettive assemblee dotati di particolari qualifiche e competenze che non appartengono al Consiglio di Presidenza (per il Senato) ovvero all’Ufficio di Presidenza (per la Camera).
In questo modo, le Amministrazioni dei due rami del Parlamento hanno mostrato di adeguarsi ad una concezione “interna” di indipendenza e imparzialità degli organi giudicanti, anche sulla scorta delle indicazioni promananti dalla citata sentenza Savino della Corte europea.
In attesa di conoscere gli sviluppi della vicenda, anche alla luce dei caratteri specifici di un eventuale conflitto di attribuzioni, uno degli interrogativi che vale la pena sollevare riguarda i possibili scenari nel caso in cui da un’ipotetica, futura, pronuncia dovesse venire una demolizione, totale o parziale, del sistema dell’autodichia così come questo ha operato fino ad oggi.
La difficoltà principale nasce dal fatto che, in conseguenza della impossibilità di ascrivere le amministrazioni delle Camere (e degli altri organi costituzionali) al novero delle amministrazioni pubbliche18, i relativi rapporti di lavoro con i dipendenti sono stati ritenuti estranei alla disciplina generale prevista dall’ordinamento per il pubblico impiego privatizzato e non, da ultimo consacrata nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165, perché rientranti in un ambito di autonomia costituzionalmente garantito che ha reso sinora solo teorico il dubbio sull’applicabilità della normativa generale e sull’individuazione di un giudice (potenzialmente) competente19.
Benché dalla sentenza n. 120/2014 non possano trarsi indicazioni sul punto, pare tuttavia indubbio che da un’eventuale sottrazione, totale o parziale, alle Camere del compito di risolvere le controversie in oggetto scaturiranno non pochi problemi quanto al regime cui queste ultime saranno soggette, sia in relazione all’individuazione del giudice competente, sia tenendo conto della possibilità che un’autorità giurisdizionale venga chiamata ad applicare la normativa interna che regola lo status e le prerogative dei dipendenti.
1 Cass., S.U., 24.11.2008, n. 27863, nonché Cass., S.U., 19.2.2004, n. 3335 e 26.5.1998, n. 5234.
2 Cass., S.U., 15.3.1999, n. 136.
3 Cass., S.U., 27.5.1999, n. 317 e Cass., S.U., 19.11.2002, n. 16267.
4 Cass., S.U., 17.12.1998, n. 12614.
5 Scoca, F.G., Autodichia e stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 32.
6 C. eur. dir. uomo, 28.4.2009, Savino e altri c. Italia.
7 Per un esame della pronuncia v. per tutti Cicconetti, S.M., Corte europea dei diritti dell’uomo e autodichia parlamentare, in Giur. it., 2010, 1271 ss.
8 Sandulli, A.M., Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica nei confronti del loro personale, in Foro it., 1977, I, 1837, secondo il quale a venire in discussione, nel caso dell’autodichia, sono posizioni soggettive solo “politicamente” protette.
9 Per tutti v., già prima della sent. n. 154/1985, Panunzio, S.P., Sindacabilità dei regolamenti parlamentari, tutela giurisdizionale degli impiegati delle Camere e giustizia politica nello stato costituzionale di diritto, in Giur. cost., 1978, 260 ss.
10 Del tentativo, nella sentenza n. 154/1985, di «far terra bruciata intorno alla questione…assicurandovi un presidio tecnico-giuridico radicale e paralizzante» scrive Floridia, G.G., Finale di partita, in Dir. proc. amm., 1986, 282.
11 Su cui per tutti v. Floridia, G.G., Il regolamento parlamentare nel sistema delle fonti, Milano, 1986, 223 ss.
12 Ravvisato anche da Ruggeri, A., Novità in tema di (in)sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in una pronunzia-ponte della Consulta (a margine di Corte cost. n. 120 del 2014), in ConsultaOnLine, 10.5.2014, 2.
13 Cassetti, L., I regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in Azzariti, G., a cura di, Le Camere nei conflitti, Torino, 2002, 196, secondo la quale, diversamente ragionando, si correrebbe il rischio di far venire meno il necessario bilanciamento tra legalità costituzionale e autonomia del parlamento.
14 Sandulli, A.M., Spunti problematici, cit., 1838.
15 Panunzio, S.P., Sindacabilità dei regolamenti parlamentari, cit., 296.
16 La quale, come noto, prescinde da connotati formali e si qualifica essenzialmente in ragione di requisiti sostanziali, come la sottrazione alla discrezionalità del potere esecutivo, la conoscibilità e la prevedibilità da parte dei consociati: v. la stessa sentenza Savino, cit., parr. 96 ss.
17 Trattasi del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica e, per la Camera, del Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti e del Regolamento per la tutela giurisdizionale non concernente i dipendenti.
18 Di «organizzazioni pubbliche-non pubbliche amministrazioni» scrive D’Orta, C., Funzioni e natura giuridica degli apparati degli organi costituzionali, in D’Orta, C.-Garella, F., a cura di, Le amministrazioni degli organi costituzionali: ordinamento italiano e profili comparati, Roma-Bari, 1997, 127.
19 Navilli, M., Il personale degli apparati serventi delle assemblee parlamentari¸ in Carinci, F.-Tenore, a cura di, V., Il pubblico impiego non privatizzato. IV Autorità indipendenti e organi costituzionali,Milano, 2007, 188 e, ancora prima, Foglia, R., Rapporti di lavoro con gli organi costituzionali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 5.