AUTOGESTIONE E COGESTIONE
di Ota Šik
In economia per autogestione si intende in generale l'amministrazione delle aziende esercitata dai lavoratori, ovvero da organi da loro eletti e responsabili di fronte a loro. Tali organi hanno il diritto e il dovere di garantire una conduzione dell'azienda volta ad assicurarne lo sviluppo in accordo con gli scopi fondamentali stabiliti dai lavoratori nel loro insieme.I sistemi di autogestione si sono sviluppati storicamente, si sono formati all'interno di differenti sistemi economici, e in connessione con questi si sono specificati il loro carattere, il regime della proprietà, nonché gli scopi, i diritti e i doveri stabiliti dall'insieme dei lavoratori. Perciò lo sviluppo dell'autogestione può essere delineato solo in connessione con lo sviluppo dei differenti sistemi economici e sociali. Come accade con tutte le istituzioni e con tutti i fenomeni economico-sociali, non è possibile rivolgere l'attenzione esclusivamente ai processi materiali; occorre considerare anche le idee e le teorie che li accompagnano e che interagiscono con essi. Da determinate idee sono sorte aziende autogestite, l'esperienza delle quali ha poi modificato le teorie, e le nuove teorie hanno in seguito nuovamente influenzato le aziende autogestite.
Le prime aziende autogestite furono le cooperative, i cui inizi risalgono ai primi decenni del XIX secolo. I fondatori di queste cooperative erano principalmente artigiani e contadini, ma anche, in misura sempre maggiore, operai e impiegati. Le ragioni che spingevano a fondare delle cooperative erano, in parte, di natura puramente economica; in parte però, attraverso di esse, venivano perseguiti anche scopi di riforma sociale. Questi ultimi erano in stretto rapporto con lo sviluppo di dottrine orientate in senso sociale oppure in senso socialista.Le cooperative che perseguivano finalità puramente economiche sorsero per la maggior parte come associazioni di artigiani o di contadini, che si vedevano minacciati dalla rapida crescita delle imprese capitalistiche e dalla loro pressione concorrenziale. Mediante associazioni cooperative essi speravano di raggiungere una migliore organizzazione nonché cognizioni tecniche e commerciali più elevate, e quindi, complessivamente, una posizione che permettesse loro di reggere la concorrenza delle imprese capitalistiche e di affermarsi sul mercato. Con tali scopi furono fondate cooperative di produzione e cooperative di servizi (cooperative per la vendita delle merci, per il rifornimento di macchine e materiali, cooperative di consumo, cooperative bancarie o casse di risparmio, ecc.).
Tali cooperative sorsero attraverso la riunione di mezzi di produzione già esistenti o creati a tale scopo: capitale liquido e lavoro, là dove al lavoro spettava il primato, ed esso poteva essere svolto solo dai soci della cooperativa. Tutti i soci avevano gli stessi diritti e ognuno disponeva di un voto. Nelle piccole cooperative l'assemblea dei soci sceglieva un direttore d'azienda per la gestione operativa, ma conservava una funzione deliberante e perciò determinante circa le linee fondamentali dello sviluppo. Nelle grandi cooperative veniva eletto generalmente, per un certo periodo, un gruppo di gestione, e all'interno di questo un direttore, i quali una o più volte l'anno dovevano rendere conto della propria attività all'assemblea dei soci della cooperativa, ricevendo eventualmente da questa l'indicazione di nuovi scopi da perseguire.
Accanto alle cooperative di artigiani e contadini, che avevano soprattutto scopi economici, si svilupparono cooperative di lavoratori che perseguivano anche scopi d'altro genere. In parte queste sorsero dietro l'influsso della Chiesa, ma, in misura sempre crescente, furono le prime idee socialiste a influenzarne la nascita. Tali cooperative non miravano solo a sviluppare attività economiche competitive, bensì aspiravano anche a un diverso tipo di vita, a rapporti umani fondati sul sostegno reciproco fra i soci, e non di rado a cambiamenti del sistema sociale.
Un grande influsso su questo genere di cooperative fu esercitato da pensatori di varia ispirazione, tra i quali Gracchus Babeuf, Robert Owen, Charles Fourier, Louis Blanc, Étienne Cabet, Wilhelm Weitling, Ferdinand Lassalle e altri, che da Marx vengono annoverati tra i 'socialisti utopisti'. Quasi tutti vedevano nelle cooperative, ovvero nelle associazioni di lavoratori, i fondamenti di un nuovo ordinamento economico e sociale, non capitalistico e umanitario. Alcuni di essi cercarono anche di fondare aziende comunitarie o vere colonie (come i falansteri di Fourier) con mezzi propri o con un proprio contributo iniziale, o anche di ottenere dallo Stato un sostegno materiale e politico per le proprie idee.Nel periodo compreso fra il 1815 e il 1870 furono fondate in Inghilterra, in Germania e successivamente in quasi tutti i paesi del mondo, migliaia di cooperative e leghe di cooperative. La maggioranza di esse non poneva limiti all'associazione e la quota richiesta per i nuovi soci era abbastanza modesta.
Mentre una gran parte di queste prime cooperative non resse alla concorrenza delle imprese capitalistiche e fu eliminata, si formarono in seguito sempre nuove cooperative, soprattutto di servizi, che si diffusero ovunque. Quasi tutte sono oggi riunite nella Lega internazionale delle cooperative (fondata nel 1895), che è la più antica e la più grande organizzazione di questo genere. Nel 1973 essa raccoglieva, tramite le singole organizzazioni che ne facevano parte, più di 280 milioni di uomini di 63 paesi (v. Loesch, 1977).
Karl Marx e Friedrich Engels non ritenevano le cooperative un'istituzione capace di liberare i lavoratori "dallo sfruttamento e dall'oppressione capitalistici". Non le credevano capaci di affermarsi in concorrenza con le imprese capitalistiche, né ritenevano che potessero ricevere appoggi dallo "Stato borghese di classe". Essi pensavano che l'idea di uno sviluppo delle cooperative all'interno della società borghese fosse espressione di un'"utopia piccolo-borghese", la quale, oltre tutto, allontanava i lavoratori "dalla necessaria lotta di classe contro lo Stato borghese".
Il fatto che nell'ambito del sistema capitalistico la maggior parte delle cooperative di produzione, cioè delle aziende autogestite, venisse eliminata dopo poco tempo sembrò confermare la teoria di Marx e di Engels. Anche tutti i critici borghesi dell'autogestione nelle aziende, che oggi ricompaiono numerosi, insistono sul tracollo inevitabile del sistema delle cooperative di produzione, senza comunque spingere l'analisi più a fondo e mostrare le cause concrete di questo tracollo. Non è l'autogestione come tale la causa della debolezza economica delle cooperative, bensì i particolari principî organizzativi e gli scopi economici delle cooperative stesse, che le hanno condotte ogni volta a essere rapidamente eliminate dalla concorrenza capitalistica e a fallire. È certamente possibile immaginare imprese autogestite che si sviluppino in base a principî diversi e siano in grado di competere sul mercato; ve ne è un numero non piccolo che si è affermato da decenni con successo.Le cause principali dell'incapacità delle cooperative di produzione di essere competitive furono le seguenti. Vi fu, anzitutto, la carenza di capitali propri, provocata dal tipo di ripartizione dei profitti. Una quota troppo piccola dei profitti veniva utilizzata per gli investimenti netti o, se si preferisce, una quota troppo grande dei profitti veniva ripartita tra i soci come remunerazione. La mancata utilizzazione dei profitti per gli investimenti netti condusse le cooperative ad avere rapidamente la peggio nei confronti delle imprese capitalistiche.
La possibilità di accettare capitali esterni fu scartata, anche se questi capitali non avrebbero potuto comunque sostituire i capitali delle cooperative medesime.Tale scarsità di capitali determinò un rilevante ritardo nel progresso tecnico delle cooperative, e in conseguenza di ciò anche un insufficiente aumento della produttività del lavoro e perciò del guadagno dei singoli soci.
A causa delle insufficienti possibilità di scelta delle qualifiche professionali dei nuovi lavoratori - insufficienti rispetto alla disponibilità di specialisti propria delle aziende capitalistiche - le cooperative rimasero indietro anche nello sviluppo delle singole specializzazioni. Ciò emerse in modo particolare in rapporto ai direttori e al personale dirigente in genere, che conformemente ai regolamenti della maggior parte delle cooperative poteva essere scelto solo nel novero dei soci. Infine si deve ricordare che in linea di massima le cooperative evitavano quelle innovazioni tecniche e strutturali che avrebbero condotto a una riduzione della forza-lavoro, rendendo così superfluo un certo numero di soci. Sotto questo profilo le imprese capitalistiche non avevano remore ed erano perciò più produttive e competitive delle cooperative.
Tutte queste carenze non toccano tuttavia l'autogestione come tale. Esistono aziende autogestite anche nell'ambito dell'economia capitalistica, le quali sono fondate su principî organizzativi differenti, si sviluppano con successo, rimangono competitive e si affermano persino in Stati che non sono propriamente ben disposti nei confronti delle idee cooperativistiche o socialiste. Facciamo qui un esempio che vale per tutti.
A metà degli anni cinquanta un giovane sacerdote cattolico aveva fondato a Mondragon, nei Paesi Baschi, in Spagna (che allora era sotto la dittatura di Franco), una cooperativa industriale. Era una cooperativa autogestita, che tuttavia introdusse alcuni principî propri di un'effettiva economia di mercato (v. Oakeshott, 1975). Così fu deliberato l'accantonamento di profitti che assicurassero un sufficiente autofinanziamento per investimenti netti e modernizzazioni. Su tale base Mondragon crebbe con successo e fu in grado di fondare nuove, importanti aziende e istituzioni complementari, le quali a loro volta resero possibile uno sviluppo ulteriore e la costituzione di un vasto sistema di cooperative. Al principio degli anni settanta l'intero complesso consisteva già di 55 cooperative di produzione (di cui 47 di carattere industriale) con 10.000 lavoratori circa. L'azienda maggiore, ULGOR, produceva soprattutto frigoriferi e a quel tempo occupava più di 2.500 lavoratori. Il livello tecnologico a Mondragon era abbastanza elevato e presentava una produzione ad alta intensità di capitale. Una cooperativa bancaria contribuiva in forte misura a un efficace sviluppo degli investimenti. Una scuola di formazione professionale (Escuela Profesional Politécnica) assicurava la preparazione di specialisti e dirigenti per Mondragon, garantendo così l'indispensabile crescita della specializzazione. Il management veniva eletto dai soci, e i direttori che si rivelavano incapaci potevano essere destituiti dall'assemblea plenaria dei soci.
Questo esempio, e altri che si potrebbero addurre, dimostrano che le imprese autogestite possono essere molto efficienti e che nulla dunque impedisce una partecipazione democratica di tutti i lavoratori alla proprietà, ai profitti e alle principali decisioni inerenti alle linee di sviluppo. Un'autogestione di questo tipo deve essere fondata sull'interesse, sull'iniziativa e sulla piena responsabilità dei lavoratori avendo di mira il successo dell'impresa, condizionato dal mercato.
Qui emerge il significato della democratizzazione dell'impresa economica, che la teoria socialista del marxismo-leninismo ha sottovalutato. Marx (v., 1871) ha certo parlato sempre, nei suoi rari accenni al futuro, di associazioni di lavoratori e di cooperative autogestite; tuttavia egli riteneva che tali associazioni avrebbero avuto un carattere democratico e socialista solo in seguito a una rivoluzione socialista. Engels ha poi dato rilievo all'idea della 'statalizzazione' delle aziende nel socialismo, parlando tuttavia al tempo stesso dell'inizio dell''estinzione' dello Stato come risultato di tale processo di espropriazione (v. Engels, 1878).
Lenin a sua volta ha fondato la conservazione dello Stato per tutta la lunga fase di sviluppo socialista sulla necessità "di un controllo strettissimo da parte della società e dello Stato sulla quantità di lavoro e sulla quantità di consumo" (v. Lenin, 1917). Contemporaneamente, egli ha parlato anche dell'estinzione dello Stato nel corso di quest'epoca, il che però non si è verificato. Dopo la presa rivoluzionaria del potere, l'espropriazione dei capitalisti e la costruzione d'una economia 'socialista', cominciò, a partire dal 1933 (anno della 'Costituzione socialista'), con Stalin, la lunga fase durante la quale doveva iniziare l'estinzione dello Stato. In realtà, la macchina repressiva dello Stato divenne sempre più forte e più imponente. La proprietà burocratico-statuale delle aziende si consolidò, e non esisteva un'autogestione delle aziende stesse.
Neppure nel piccolo settore delle cooperative c'era un'autentica autogestione, poiché i dirigenti dei kolchoz furono imposti dall'apparato burocratico del partito, e i processi di produzione e di ripartizione del reddito venivano determinati non dai kolchoz stessi, bensì dall'apparato statale-amministrativo della pianificazione.
Già con Lenin, nel 1921, il sistema degli organi di autogestione eletti dai lavoratori (i consigli operai) fu abolito. I sostenitori dell'autogestione furono combattuti come deviazionisti anarco-sindacalisti e, in epoca staliniana, in gran parte eliminati fisicamente. Da quel momento in tutti i paesi socialisti - eccettuata la Iugoslavia - il sistema dell'autogestione fu combattuto in quanto revisionismo negatore del leninismo. Al suo posto fu proclamato il ruolo di guida del partito anche nell'economia, inteso quale 'garanzia socialista' ed eretto a dogma intoccabile.
L'esigenza di una democratizzazione dell'economia e della società nei paesi dell'Est è stata qualificata, sino all'inizio del corso riformista di Gorbačëv, come richiesta antisocialista, e condannata politicamente.
Dopo l'abbandono da parte di questi paesi dell'idea originaria di autogestione propria di Marx, così come dopo la trasformazione degli Stati socialisti in strumenti di repressione di ogni libertà per ampi strati della popolazione, la lotta dei riformatori per la democratizzazione del sistema politico si è collegata con la lotta per la democratizzazione dell'economia. L'elemento più importante di questa esigenza di democratizzazione era l'introduzione di consigli di autogestione eletti democraticamente in tutte le aziende e istituzioni, con la simultanea soppressione della regolamentazione da parte dello Stato e l'autonomizzazione economica delle aziende.Il primo paese socialista in cui fu introdotto un sistema di autogestione fu la Iugoslavia. Esso sorse alcuni anni dopo la profonda frattura, verificatasi nel 1948, fra l'Unione Sovietica di Stalin e la Iugoslavia di Tito. In seguito all'approfondirsi del conflitto fra le direzioni del Partito comunista sovietico e di quello iugoslavo, il Cominform elaborò nel 1947 - su ordine di Stalin - una risoluzione con la quale il Partito comunista iugoslavo veniva espulso dal novero dei partiti comunisti fedeli a Mosca.
L'interruzione, che ne seguì, di ogni rapporto economico dei paesi governati da partiti aderenti al Cominform con la Iugoslavia, con la relativa difficilissima situazione in cui venne a trovarsi l'economia iugoslava, assieme alla sempre più aspra critica iugoslava alla concezione del socialismo propria di Stalin e all'intero sistema staliniano indussero i politici iugoslavi a ricercare nuove forme di socialismo.In questa situazione uno dei dirigenti di punta del Partito comunista iugoslavo, Milovan Djilas, nella primavera del 1950 ebbe un'"idea", come egli stesso scrive: "I comunisti iugoslavi avevano ora la possibilità di procedere alla realizzazione della 'libera associazione dei produttori' di cui aveva parlato Marx" (v. Djilas, 1969, p. 204). Egli conquistò a questa idea Edvard Kardelj, Boris Kidrič e, in seguito, anche Tito. Dopo pochi mesi l'Assemblea Nazionale iugoslava accettò la legge proposta da Tito sull'autogestione dei lavoratori.I comunisti iugoslavi cercarono di fondare la loro riforma del sistema sulle idee di Marx, le quali erano, fondamentalmente, generalizzazioni delle esperienze della Comune di Parigi. Questa non era però una base sufficiente per costruire un sistema economico interamente nuovo. Gli sviluppi pratici richiesero continue decisioni nuove e una serie di modificazioni organizzative, istituzionali e giuridiche, alle quali solo lentamente seguì l'elaborazione di una nuova teoria, capace a sua volta di agire sulla prassi. Iniziò così un processo di riforma destinato a prolungarsi negli anni, spesso in modo contraddittorio, e che in realtà non può a tutt'oggi ritenersi concluso.
Lo sviluppo dell'autogestione iugoslava ha risvegliato attese e speranze in coloro che non erano soddisfatti né dell'ordinamento economico-sociale capitalistico, né di quello comunista. Le riforme iugoslave ispirarono forze riformatrici in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e in altri paesi, che credettero di aver trovato in quelle riforme una terza via finalmente praticabile. Per la maggior parte di quelle forze tale modello si rivelò tuttavia una delusione, determinata in primo luogo da uno sviluppo economico inefficace e difettoso, e in secondo luogo da uno sviluppo sociale non realmente libero, umano e democratico.Ancora una volta, tuttavia, le cause di ciò non devono essere ricercate nel sistema dell'autogestione come tale, perché risalgono a errori inerenti alla struttura complessiva del sistema politico ed economico, errori che non possono essere rimossi dagli organi dell'autogestione.In primo luogo va menzionato il persistere di un sistema a partito unico, che impedisce una vera democratizzazione del sistema politico ed economico. Il dogma di Lenin, secondo il quale una democrazia all'interno della società capitalistica costituisce "sempre solo una democrazia apparente", dietro la quale si nasconde in realtà una "dittatura della borghesia", così come la pretesa dogmatica che la società socialista debba sostituire "il sistema parlamentare con un sistema consiliare sotto la guida del proletariato e della sua avanguardia, il partito comunista", non furono superati nemmeno in Iugoslavia.
L'idea che gli interessi del proletariato possano essere rappresentati solo dal partito comunista rende impossibile la creazione di un sistema pluripartitico, il che impedisce non solo la soluzione democratica dei conflitti politici, bensì anche una reale democrazia economica. Il ceto al potere in Iugoslavia è radicato nel sistema che si è costituito, e non è più in grado, senza una reale opposizione politica, di eliminare le carenze inerenti al sistema.
La lotta contro lo statalismo di Stalin ha condotto bensì a una eliminazione delle ingerenze dirigistiche degli organi centrali dello Stato nell'economia, senza tuttavia eliminare le regolamentazioni dell'economia operate dai governi delle singole repubbliche iugoslave. Un influsso particolarmente negativo viene esercitato dalle misure amministrative nazionalistiche dei governi delle singole repubbliche, con le quali esse mirano a proteggere le proprie aziende dalla concorrenza delle aziende delle altre repubbliche iugoslave; vengono così sovvenzionate e tenute in vita aziende non redditizie. Un simile protezionismo intrastatale riduce la pressione del mercato sulle aziende, frena lo sviluppo delle innovazioni, premia l'antieconomicità e diminuisce la competitività delle aziende stesse sui mercati esteri. Le conseguenze sono il crescente debito con l'estero, la svalutazione della moneta e la crescita dell'inflazione.
Alle aziende sono affidate anche le decisioni sulla crescita dei salari. Mancando la pressione della controparte capitalista ciò ha condotto a crescite dei salari e dei consumi eccessive e troppo differenziate tra le diverse aziende. Inoltre, alla carenza di mezzi da investire nelle aziende - causata da una politica monetaria centrale radicalmente insufficiente - si rimedia con eccessivi ricorsi al credito, nonché mediante rapidi aumenti dei prezzi, dunque in modo inflazionistico. Nominalmente gli investimenti crescono, ma, a causa della loro insufficiente crescita reale, non è possibile assicurare la piena occupazione.Tutte queste deficienze - come la pressione del debito estero, l'inflazione galoppante, la disoccupazione, le sperequazioni salariali tra le aziende a fronte di uguali prestazioni lavorative, e una crescita insufficiente della produttività del lavoro e del capitale - vengono normalmente attribuite al sistema iugoslavo di autogestione, ma sono in realtà anzitutto il risultato di un meccanismo di mercato non funzionante in modo adeguato. Le esperienze iugoslave mostrano nel modo più chiaro che un sistema di autogestione può soddisfare ampi strati della popolazione e trovare un solido sostegno sociale solo se non produce una crescita inadeguata o addirittura un abbassamento del tenore di vita, forti insufficienze nell'approvvigionamento, differenze eccessive di stipendi all'interno delle medesime attività professionali e tra singole regioni o repubbliche.La limitazione delle libertà e la repressione da parte di un partito unico detentore del potere annullano il contenuto democratico presente nell'idea dell'autogestione.
Le vicende e gli sviluppi di questa non possono essere considerati e valutati prescindendo dalle complesse condizioni politiche e socioeconomiche all'interno delle quali essa deve realizzarsi.
Nei paesi capitalistici, nei quali i tentativi rivoluzionari comunisti fallirono, le esperienze di occupazione e di autogestione delle aziende da parte dei lavoratori furono liquidate rapidamente. Dall'idea dei consigli operai si svilupparono i consigli di fabbrica, per i quali lottarono molti sindacati, consigli che si assunsero come compito principale la difesa degli interessi dei lavoratori nei confronti degli imprenditori o dei managers, ovvero quello di influenzare le decisioni di questi ultimi nella misura in cui concernevano gli interessi dei lavoratori. Tuttavia questa istituzione dei consigli di fabbrica, che nel frattempo si è molto diffusa, non ha quasi più nulla a che fare con l'idea dell'autogestione.Dopo la seconda guerra mondiale tale idea ha conosciuto una rinascita in alcuni paesi dell'Europa occidentale. Il movimento più incisivo si è avuto in Francia, dove le concezioni intorno alle cooperative e all'autogestione avevano una tradizione relativamente lunga. I gruppi della Resistenza guidati dai comunisti contavano sull'appropriazione, da parte dei lavoratori, delle fabbriche dei collaborazionisti.Dopo la ritirata dei Tedeschi e la riconquista delle città da parte delle forze della Resistenza, molti imprenditori fuggirono o furono arrestati e imputati di collaborazionismo. Nelle aziende rimaste prive di guida la direzione fu assunta dai cosiddetti 'comités de gestion', eletti dai lavoratori. Tali comitati furono confermati dal governo de Gaulle ancora nel 1945.De Gaulle si interessò in modo particolare ai problemi economico-sociali, ritenendo necessario in tale ambito un nuovo ordinamento, che prevedesse una partecipazione generale dei lavoratori alle imprese e una programmazione politico-economica a grandi linee.
Le due tendenze dalle quali de Gaulle riteneva di dover dedurre queste due esigenze erano, da una parte, l'impetuoso sviluppo generale del capitalismo, che avrebbe condotto all'alienazione dei lavoratori, alla lotta di classe, a turbamenti nei rapporti sociali, alla divisione delle comunità nazionali e infine alle guerre, e, dall'altra parte, la crisi della civiltà dopo la seconda guerra mondiale, la perdita di credibilità dei ceti dirigenti e dei privilegiati in Francia, prima e durante la guerra (v. Desvignes, 1977).
De Gaulle cercava una terza via, distante sia dal capitalismo che dal comunismo. Egli auspicava un ordinamento sociale ed economico in cui tutti i lavoratori avessero un interesse diretto, morale e materiale, a partecipare alla vita e alla gestione delle aziende. Essi avrebbero dovuto essere non solo lavoratori salariati, ma anche partners degli imprenditori. Le condizioni interne all'imprenditoria avrebbero dovuto quindi cambiare. De Gaulle diede rilievo allora all'idea dell'associazione, richiamandosi alla tradizione storica del 1835, 1840, 1848.Il processo di partecipazione, tuttavia, andò esaurendosi progressivamente allorquando, nei mutati rapporti di forza politici, una gran parte delle imprese tornò nelle mani dei precedenti proprietari e un'altra parte fu statizzata. Persino nelle imprese statizzate le proposte dei sindacati per l'elezione dei consigli di fabbrica dovevano ottenere l'approvazione del ministro competente. "Nei consigli di amministrazione delle aziende statizzate siedono certo rappresentanti dei lavoratori, i quali però, come del resto gli altri membri dei consigli d'amministrazione, vengono nominati dallo Stato. Normalmente i rappresentanti dei lavoratori sono due, in alcune aziende essi raggiungono un terzo dei posti del consiglio d'amministrazione. Ma i consigli d'amministrazione delle imprese statizzate non hanno grande influenza sulla elaborazione e realizzazione della politica aziendale. Tutte le decisioni importanti vengono elaborate dalla direzione generale e concordate con i vari ministeri. I rappresentanti dei lavoratori [...] non possono impedire formalmente nessuna misura, poiché in ogni caso possono essere messi in minoranza" (v. Petwaidic-Fredericia, 1968, pp. 16 ss.).
Nelle società capitalistiche per azioni non c'è alcuna partecipazione, dal momento che i rappresentanti dei lavoratori nei consigli d'amministrazione hanno diritto a essere interpellati solo in via consultiva. In altre imprese private non c'è nessuna partecipazione fissata per legge. Così, l'idea che de Gaulle aveva della partecipazione è naufragata dinanzi alla resistenza opposta dagli interessi del capitalismo privato e al disinteresse dei sindacati. Questi ultimi cercano la loro legittimazione nelle lotte salariali e non sono particolarmente interessati alla partecipazione.Mentre in Francia la partecipazione è stata intesa originariamente come partecipazione alla proprietà del capitale e ai profitti (interessi materiali) e come diritto a essere interpellati, nella Germania Federale si è sviluppata una lotta politica e sindacale solo intorno a quest'ultimo diritto, ovvero al diritto alla cogestione. Questa lotta ha in Germania una lunga tradizione che ha visto impegnati non solo sindacati e partiti orientati in senso socialista, ma anche sindacati cristiani e altre associazioni (v. Grohmann e Pawlowski, 1983).Già nella Costituzione di Weimar c'era un articolo che prevedeva la partecipazione con eguali diritti di lavoratori e impiegati, assieme con gli imprenditori, nella regolamentazione delle condizioni salariali e di lavoro. Ciò fu stabilito nel 1920 con la prima legge sui consigli di fabbrica nelle aziende con più di 20 lavoratori. Nel 1922 seguì una legge sulla presenza di uno o due membri dei consigli di fabbrica nei consigli di amministrazione delle grandi aziende capitalistiche. Queste leggi furono soppresse dai nazionalsocialisti, ma subito dopo la fine della guerra furono nuovamente costituiti i consigli di fabbrica secondo la vecchia legge.
Questo processo condusse nel 1951 alla legge sulla partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione e negli organi direttivi delle industrie minerarie e siderurgiche. Dopo alcuni ampliamenti della partecipazione in tutto l'ambito della vita economica, tale processo culminò nel 1976 con la legge sulla cogestione dei lavoratori, la quale prevedeva una partecipazione paritaria dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle grandi imprese capitalistiche (tutte le imprese con più di 2.000 dipendenti). Tuttavia, in caso di parità di voti tra datori di lavoro e dipendenti, due voti spettavano al presidente del consiglio di amministrazione, appartenente in genere ai datori di lavoro, cosicché il potere prevalente restava nelle mani del capitale.'intero sviluppo della cogestione in Germania non ha perseguito lo scopo di superare la contrapposizione tra capitale e lavoro, e perciò non ha potuto nemmeno condurre alla nascita di un'autogestione da parte dei collettivi dei lavoratori. L'autogestione è stata vista dalle forze politiche dominanti come uno sviluppo in senso socialista, sviluppo che è stato respinto non solo dai partiti borghesi, ma anche da quello socialdemocratico.
Le leggi introdotte nella Repubblica Federale Tedesca, in base alle quali nelle grandi aziende i lavoratori possono avere una determinata partecipazione agli utili, portano a una partecipazione così ridotta dei lavoratori al capitale produttivo delle imprese che essa non influisce in modo rilevante sulla proprietà del capitale e non frutta interessi o dividendi significativi ai lavoratori stessi. Per questa via non può quindi sorgere un'impresa collettiva autogestita.
Fino a quando non divengano proprietari o comproprietari del capitale in misura significativa, i lavoratori non possono sviluppare interesse o senso di responsabilità nei confronti del capitale stesso. In qualità di semplici salariati essi tendono a interessarsi solo alla crescita dei salari e al mantenimento del posto di lavoro, anche a discapito del necessario sviluppo degli investimenti da parte delle imprese, del progresso tecnico, dei mutamenti strutturali, dell'incremento delle vendite. Proprio tale contrasto di interessi si manifesta nella cogestione tedesca, dove il presidente dei consigli di amministrazione deve sempre assicurare (come abbiamo già visto) il prevalere del capitale pur nella ripartizione paritaria dei voti.
L'idea di fondo dell'impresa comunitaria in un'economia di mercato è appunto la modificazione dell'atteggiamento dei lavoratori nei confronti della loro impresa. Mediante una sensibile compartecipazione alla proprietà del capitale e quindi agli utili (in questa o quella forma), così come mediante il diritto di cogestione da parte dei collaboratori-comproprietari, dovrebbe svilupparsi il loro interesse per la presenza efficace delle imprese sul mercato e dunque per l'economia nazionale nel suo complesso. Si tratta dell'idea di una strada diversa, che dovrebbe condurre al superamento dell'estraneazione dei lavoratori rispetto al capitale ovvero alle aziende e all'economia nazionale. Essa si differenzia dalla strada tracciata dall'ideologia marxista-leninista, il cui obiettivo peraltro non è stato realizzato nella prassi dei paesi socialisti. Quest'ultima ha anzi condotto a un'estraneazione ancora maggiore dei lavoratori rispetto alle aziende a direzione burocratico-statale di quanto non accada nelle aziende capitalistiche.
Le riforme tentate nei paesi socialisti hanno avuto in larga parte come obiettivo quello di rendere i lavoratori proprietari collettivi de facto delle aziende, benché la proprietà collettiva socialista fosse già proclamata de iure. La riforma cecoslovacca del 1968, che fu liquidata dall'intervento militare del 21 agosto 1968, aspirava a introdurre l'autogestione nelle aziende, e quindi prevedeva la nomina e il controllo collettivi anche della direzione delle aziende stesse. Nella nomina dei direttori i consigli di autogestione avrebbero potuto scegliere - mediante concorsi - anche esperti esterni all'azienda. L'attività economica - produzione, investimenti, acquisti, vendite, ecc. - avrebbe dovuto essere decisa dalla direzione dell'azienda. Nell'assunzione e nel licenziamento dei lavoratori la direzione dell'azienda avrebbe dovuto ottenere l'assenso del consiglio di autogestione. Questo, comunque, avrebbe dovuto tener conto anche dei condizionamenti effettivi del mercato al fine di ricercare soluzioni appropriate alle contraddizioni tra fini umanitari e fini di efficienza.Nelle loro decisioni le direzioni delle aziende avrebbero dovuto orientarsi sulla base dei prevedibili sviluppi del mercato, e sostenere tutte le spese mediante le proprie entrate. Dopo alcuni tentativi di risanamento, le aziende improduttive avrebbero dovuto essere chiuse. Le continue sovvenzioni statali alle aziende non redditizie a spese di quelle redditizie (redistribuzione statale) avrebbero dovuto cessare.
Contemporaneamente i riformatori cecoslovacchi volevano evitare le note carenze del sistema iugoslavo. Veniva auspicata l'introduzione di un meccanismo di mercato possibilmente coerente ed efficace. Era stata progettata una transizione graduale ai prezzi di mercato, ed era già in corso una promozione della concorrenza mediante la soppressione dell'organizzazione aziendale monopolistica.
La graduale apertura ai mercati stranieri doveva, dopo un periodo programmato, con un pareggiamento della bilancia dei pagamenti, condurre alla convertibilità della moneta. A differenza della Iugoslavia, dovevano essere elaborati solo piani a grandi linee con funzione essenzialmente indicativa. La realizzazione di questi piani globali doveva essere raggiunta mediante strumenti di politica economica, di politica fiscale (creditizia e finanziaria), di politica dei redditi, di politica commerciale con l'estero. Un'importanza particolare avrebbe dovuto avere la politica dei redditi, poiché con questo mezzo si doveva prevenire la spirale inflazionistica provocata dalla crescita dei salari, caratteristica del sistema iugoslavo. Con l'ausilio di speciali strumenti di politica fiscale nei confronti delle imprese fu programmata una crescita dei salari in base alla quale doveva essere assicurato uno sviluppo equilibrato dei consumi e degli investimenti.
Anche la politica finanziaria centrale avrebbe dovuto diventare un più coerente strumento di lotta all'inflazione.Importanza particolare rivestiva inoltre l'avvio d'una democratizzazione del sistema politico, che avrebbe dovuto condurre al pluralismo. Nei circoli riformisti si era convinti che un sistema socialista, caratterizzato dalla proprietà collettiva delle grandi aziende e dall'autogestione, può conservarsi anche nelle condizioni d'una democrazia politica pluralistica. I tratti fondamentali del socialismo dovevano essere fissati nella Costituzione, la quale doveva poter essere cambiata solo da una larga maggioranza della popolazione (per esempio almeno con il 70% dei voti).Fu tuttavia proprio quest'orientamento democratico della riforma cecoslovacca, dal quale i burocrati di partito (al pari di quelli dei 'paesi fratelli') si sentivano minacciati, a provocare l'intervento militare. In un'epoca in cui il superamento del 'ruolo guida' del partito comunista, l'introduzione d'una democrazia pluralistica, lo sviluppo dell'autogestione nelle aziende e il passaggio a un meccanismo efficace di mercato nel quadro d'una macropianificazione venivano visti come revisionismo antisocialista, tali riforme non potevano essere realizzate.
L'avvento di Gorbačëv in Unione Sovietica ha condotto a un inizio di riforme che ha risvegliato grandi speranze nei paesi del blocco orientale. I tratti di fondo della riforma sovietica assomigliano molto a quelli della tentata riforma cecoslovacca. Anche in Unione Sovietica viene nuovamente realizzata un'autonomia delle aziende mediante consigli di autogestione. Essi dovrebbero operare nelle condizioni d'un effettivo meccanismo di mercato, con l'eliminazione della pianificazione dirigistica. È stata introdotta una pianificazione di base i cui scopi complessivi dovrebbero essere realizzati con strumenti di politica economica e con normative economiche. Anche il sistema politico si sta democratizzando, senza che ciò implichi (almeno per ora) il passaggio a un sistema pluripartitico. Tuttavia i cambiamenti nella Costituzione e nel sistema elettorale sono di così vasta portata, che la manipolazione delle scelte nella sfera politica e in quella economica da parte dell'apparato del partito è divenuta molto più difficile.
Se i progetti di riforma saranno perseguiti in modo coerente, in Unione Sovietica e in altri paesi socialisti si creeranno in un certo periodo di tempo rapporti tali da consentire un'autogestione delle aziende coronata da successo. Così potrebbe divenire realtà un antico sogno di molti pensatori umanitari. L'autogestione nelle aziende, assieme alla pianificazione macroeconomica e a un funzionamento possibilmente completo del meccanismo di mercato, potrebbe conseguire i vantaggi dell'economia occidentale evitando al tempo stesso le grandi crisi, la massiccia disoccupazione, le eccessive differenze sociali proprie del capitalismo. Qualora i collettivi autogestiti, grazie alla pressione del mercato e della concorrenza, raggiungessero un'efficienza tale da consentir loro di competere con le imprese capitalistiche, potrebbero accelerare nei paesi capitalistici un movimento in grado di condurre al superamento del conflitto di interessi fra lavoro e capitale.
Che una sensibile partecipazione al capitale nelle imprese occidentali private comporti un aumento dell'efficienza, lo provano tutti i modelli di partecipazione già esistenti nei paesi industriali. Nella Repubblica Federale Tedesca vi sono 1.500 imprese (circa 1,3 milioni di lavoratori) con partecipazione al capitale o agli utili, le quali sono riunite in un consorzio, la Aktionsgemeinschaft für Partnerschaft (AGP). Le forme e la dimensione della partecipazione sono differenti, ma nella maggior parte delle aziende esistono comitati consultivi eletti dai rappresentanti dei lavoratori, che decidono insieme agli imprenditori privati tutte le misure importanti di politica economica, nonché la soluzione dei vari problemi tecnico-economici e socioeconomici che si presentano di volta in volta. In tal modo vengono stimolate iniziative dei lavoratori e trovate soluzioni ai problemi, il che non potrebbe accadere nelle imprese senza partecipazione. La maggior parte degli imprenditori e dei lavoratori di tali imprese a partecipazione hanno avuto in merito esperienze prevalentemente positive.
Anche negli Stati Uniti c'è uno sviluppo crescente di imprese a partecipazione, che dal 1974 è stato favorito dal Congresso americano mediante una serie di facilitazioni fiscali. Tale introduzione d'una partecipazione dei lavoratori (Employee Stock Ownership Plan, ESOP) ha condotto a esperienze in prevalenza positive.
Uno studio specifico mostra che le imprese in proprietà o comproprietà dei lavoratori, a partire dal 1974 fino al 1987, hanno raggiunto la cifra di 8.100 e il numero dei lavoratori che sono comproprietari di capitale ammonta a più di 8 milioni (v. Rosen e Quarrey, 1987). Il risultato più importante che si evince da questo studio è il fatto che, su raffronti omogenei, le imprese a partecipazione sono cresciute più rapidamente delle imprese senza partecipazione dei lavoratori. Nelle prime la crescita dell'occupazione è stata più elevata dell'1,21% e l'aumento delle vendite più elevato dell'1,89%. Inoltre, il 73% delle imprese interessate ha migliorato in modo significativo i propri risultati economici dopo l'introduzione della partecipazione.Anche nei grandi gruppi industriali una partecipazione generalizzata, che rendesse possibile la cogestione in virtù di una sensibile partecipazione al capitale e agli utili, potrebbe accrescere l'efficienza. Al tempo stesso ciò potrebbe limitare il sorgere d'una massiccia disoccupazione dovuta ai grandi mutamenti strutturali e tecnologici. La tempestiva ricerca di nuove produzioni che creino posti di lavoro, a fronte dei progressi tecnici che li diminuiscono, potrebbe prevenire inattesi, cospicui licenziamenti di lavoratori, senza comportare una diminuzione dell'efficienza. Comunque la partecipazione dei lavoratori nei grandi gruppi industriali dovrebbe essere accompagnata dalla decentralizzazione e dalla creazione di unità produttive più piccole, affinché i lavoratori possano avere una visione d'insieme dello sviluppo dell'efficienza del gruppo.
Anche l'introduzione di gruppi di lavoro autonomi nell'ambito delle imprese, secondo il modello svedese, promuoverebbe la diretta partecipazione dei lavoratori all'umanizzazione del lavoro, assieme a una contemporanea crescita della loro efficienza (v. Thorsrud, 1973).
Oltre alla distribuzione di una quota degli utili - accanto a una parte che viene trattenuta per gli investimenti dell'azienda e frutta interessi per i lavoratori (per lo più a tassi d'interesse più alti del tasso di sconto corrente) - per il lavoratore-comproprietario è importante la creazione di fondi aggiuntivi per le pensioni di anzianità, ricavati da un'ulteriore quota degli utili. In alcune imprese a partecipazione il lavoratore versa solo una parte dei premi relativi alle pensioni di anzianità, mentre un'altra parte, spesso quella maggiore, viene pagata dall'imprenditore. In tal modo i lavoratori-comproprietari ottengono spesso una pensione di anzianità che arriva fino al 75% dell'ultimo salario lordo (v., ad esempio, Diermann, 1988).Sembra che negli Stati industriali dell'Occidente le aziende a partecipazione operaia (partecipazione che si colloca accanto alle quote di capitale degli imprenditori) abbiano migliori prospettive di sviluppo rispetto a società autogestite composte interamente da lavoratori. Tuttavia sorgono in misura crescente anche società di questo secondo tipo: esse si costituiscono o perché i proprietari privati vengono meno (perché si ritirano o muoiono) e gli eredi non sono interessati al proseguimento dell'attività dell'azienda, oppure perché fondate ex novo da lavoratori. Queste ultime si sviluppano oggi prevalentemente nei settori ad alta tecnologia: i loro fondatori sono specialisti qualificati, i quali uniscono sapere specifico e capitali, e si autogestiscono sin dall'inizio. Anche queste società di lavoratori sono generalmente molto più efficienti delle imprese ad alta tecnologia gestite in modo capitalistico.
Molto verosimilmente i futuri sviluppi dell'alta tecnologia faranno rinascere la vecchia idea della cooperativa, sebbene senza i vecchi principî, inibitori dell'efficienza. Nella nuova società dell'informatica ciò potrebbe dare un importante contributo al superamento della minaccia rappresentata dalla crescita della disoccupazione di massa. Infatti il progresso tecnico, unito a un'intensità sempre crescente di capitale, potrebbe rendere sempre più difficile il superamento della divisione della società in occupati e disoccupati. Lo sviluppo di partecipazioni al capitale e di aziende di lavoratori potrebbe creare - insieme a una programmazione macroeconomica - premesse importanti per il superamento di tale minaccia.Nelle società moderne si svilupperebbero così tre settori economici: un settore costituito dalla normale impresa privata, un altro rappresentato dalle aziende con capitale a proprietà mista (proprietà privata e partecipazione al capitale da parte dei lavoratori) e infine un settore di società autogestite, ove la proprietà piena o la maggioranza del capitale apparterrebbero ai lavoratori. Un simile processo in Occidente, con una simultanea democratizzazione dell'economia e della politica nel blocco orientale, costituirebbe lo sviluppo di una 'terza via' (v. Šik, 1972, 1985, 1988), e potrebbe realizzare l'antica idea d'una convergenza del sistema capitalistico e di quello socialista.
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di Marcello Pedrazzoli
Al pari di altre locuzioni alternative, equivalenti o analoghe (in particolare 'partecipazione' e 'democrazia industriale'), anche 'cogestione' non rinvia a un solo fenomeno, ovvero a una sola tecnica di formazione di regole, ma a manifestazioni molteplici e di segno variabile da paese a paese, in corrispondenza di contesti istituzionali assai diversi. In ambiente italiano, tuttavia, il termine 'cogestione' è stato stabilmente associato a meccanismi assunti come paradigmatici della vicenda tedesca e si è venuto caricando di una duplice valenza negativa, sia nella percezione del nostro movimento sindacale che in quella dell'imprenditorialità. Ciò ha condotto a una sorta di pregiudizio che si può così esporre. Si insinua per un verso che 'cogestione' (così come 'cogestionale') comporti un atteggiamento cooperatorio dell'organizzazione sindacale, nel senso deteriore di una proclività al compromesso con la controparte. Dall'altro verso si considera inaccettabile, per l'autonomia delle decisioni dell'impresa, un'intrusione così intensa quale sarebbe quella che si esprime nella cogestione.In un'ottica consimile, e senza una precisa idea di che cosa sia in effetti la cogestione, il principio e la prassi di questa vengono respinti in quanto, con una considerazione che potrebbe essere fatta propria da entrambi i versanti, si "sostituisce al criterio determinante dell'autonomia dal padronato, il criterio della collaborazione, codeterminazione e corresponsabilità" (Nota dei sindacati metalmeccanici italiani sulla cogestione, in AA. VV., 1975, p. 99). Nell'interpretazione sopraindicata, poiché si rinfaccia alla cogestione ciò che si vorrebbe, da antitetici punti di vista e per opposte ragioni, rinfacciare alla Mitbestimmung, i rispettivi riferimenti sono fatti coincidere. Ma questa identificazione, quand'anche fosse valida, è fuorviante perché si basa su un'idea parziale e spesso caricaturale di Mitbestimmung: per cui, da qualunque parte si prenda la cosa, ci pare confermata l'esigenza di una preliminare precisazione dell'ambito dei fenomeni a cui s'intende alludere con questa espressione.
Secondo una nostra precedente messa a punto (v. Pedrazzoli, Democrazia..., 1985, pp. 183 ss.), i lavoratori e i loro rappresentanti possono contribuire alla formazione di regole concernenti le condizioni economiche e di lavoro mediante due tipi distinti di meccanismo. Il primo, che definiremo per organi contrapposti o per coalizioni, consiste in quella realizzazione dell'interesse dei lavoratori che si può verificare mediante contratto, e cioè formando una regola dopo un confronto-conflitto con la controparte. Tale regola, tuttavia, può anche non determinarsi, giacché le parti possono infine restare in disaccordo, nel qual caso resta aperto il problema - risolto come vedremo da una delle due tecniche in cui consiste la Mitbestimmung (v. cap. 3) - se ci si debba poi affidare, al fine di determinare una regola, a un organo supra partes oppure alla disposizione unilaterale sancita dai rapporti di forza.Il secondo meccanismo (per organi misti o per collegi) presuppone invece che, relativamente a certe materie, vi sia una sede istituzionale di decisione e che questa decisione debba necessariamente formarsi perché tale sede è costituita da un organo, a composizione d'interessi mista, in cui non è possibile lo stallo. In questo modulo l'autonomia delle parti - il loro potere di ritirarsi se non sono d'accordo su una regola che l'altra parte vorrebbe imporre - è sopravanzata dall'interesse a che una regola venga comunque a formarsi: il che significa, beninteso, non la regola migliore o quella preferita dall'una o dall'altra componente, ma quella prescelta dalla maggioranza o dalla componente che prevale.
La cogestione parrebbe rientrare anzitutto nel secondo tipo di procedimento formativo delle decisioni. Tale collocazione sarebbe del resto conforme a una classica formulazione weimariana, per la quale "l'effettiva conduzione (Mitführung) dell'economia da parte dei lavoratori non può realizzarsi nelle singole unità produttive e attraverso i consigli aziendali interni; piuttosto la cooperazione (Mitwirkung) delle maestranze deve essere introdotta proprio là dove si costituiscono gli organismi che padroneggiano il mercato e regolano produzione, vendita e prezzi. All'interno di questi organismi dell'impresa i rappresentanti dei lavoratori debbono esercitare una funzione non determinata e controllata dall'esterno ma che si sprigiona dal di dentro, debbono partecipare alla direzione degli affari di questi organismi, con gli stessi diritti degli altri membri dirigenti" (v. Naphtali, 1928, pp. 40 s.).Vedremo più avanti che Mitbestimmung è concetto più ampio di quello ora adombrato; ma come prima tappa del nostro avvicinamento al suo significato si può ipotizzare che esso significhi appunto partecipazione dei lavoratori agli organi dell'impresa (unternehmerische Mitbestimmung).
Nell'esperienza storica e comparata, l'impresa nei cui organi si verifica partecipazione è quella di notevoli dimensioni, gestita nella forma di società di capitali, di massima nel quadro di un ordinamento societario che prevede un sistema cosiddetto dualistico, e cioè la scomposizione dell'organo amministrativo in un organo di direzione e in un organo di vigilanza.
Come esemplifica in modo paradigmatico la legge tedesca sulle società per azioni (Aktiengesetz), nel relativo sistema l'assemblea generale nomina (e revoca) i componenti del consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat), i quali a loro volta nominano (e revocano) i membri del comitato di direzione (Vorstand), sorvegliandone l'operato e riservandosi, se lo ritengono, l'autorizzazione per certi affari; infine il comitato di direzione è preposto, essendone responsabile, alla gestione dell'impresa di cui ha la rappresentanza legale.
Più in particolare - ma tralasciando gli antecedenti: par. 70 della legge sui consigli d'azienda (Betriebsrätegesetz, BRäteG, del 1920) e la legge di attuazione del 15 febbraio 1922 - nella Germania Federale la 'codeterminazione' negli organi societari di cui si tratta è disciplinata in tre nuclei legislativi che anche attualmente coesistono. Il primo - più famoso, più consolidato, più vicino all'aspirazione sindacale a una codeterminazione paritaria - è quello operante dal 1951 nelle imprese con almeno 1.000 addetti del settore carbosiderurgico, gestite in forma di società per azioni, accomandita per azioni, a responsabilità limitata, consorzio minerario o cooperativa (legge sulla codeterminazione nel settore detto: per brevità MontanMitbG). In esse il consiglio di sorveglianza è composto da 11 membri così ripartiti: 5 rappresentanti dei lavoratori (1 operaio e 1 impiegato dipendenti e 3 membri scelti dal sindacato, 1 dei quali 'esterno' anche all'organizzazione); 5 rappresentanti dei soci (di cui 1 esterno); un 'undicesimo uomo', detto neutrale perché scelto di comune accordo. In tale settore anche il comitato di direzione è in qualche modo 'contaminato', perché viene previsto fra i suoi membri un direttore del lavoro che deve essere scelto fra le persone 'gradite' al sindacato.
Tale modello (che si riferisce a un settore particolare, in cui la Mitbestimmung era stata già introdotta alcuni anni addietro dalle stesse potenze occidentali occupanti, specie nella zona inglese) venne esteso nel 1956 alle holdings del settore (legge integrativa sulla codeterminazione, MitbestimmungsergänzungsG), ma con evidenti regressioni dalla tendenziale parità, in particolare escludendosi che il direttore del lavoro dovesse avere una provenienza caratterizzata nel modo appena descritto. Il continuo tentativo degli imprenditori tedeschi di aggirare, con trasformazioni, scorpori e fusioni della loro attività, l'applicazione della legge ha poi comportato una serie di contromosse legislative. Nonostante ciò attualmente sono pochissime le società assoggettate alla MontanMitbG.
Il secondo nucleo è assai meno significativo, trattandosi della immissione, nel solo consiglio di sorveglianza, di rappresentanti dei lavoratori nella misura di un terzo. Esso è previsto nei parr. 76 ss. della legge sullo statuto aziendale (Betriebsverfassungsgesetz) del 1952 (paragrafi che costituiscono, peraltro, un corpus estraneo alla legge stessa), mantenuti espressamente in vigore dalla nuova legge del 1972; e sopravvive tuttora, semplificando, nelle imprese gestite nelle forme di società summenzionate, che abbiano fra i 500 e i 1.000 addetti nel settore carbosiderurgico e fra i 500 e i 2.000 addetti in ogni altro settore.Il terzo e ultimo modello, realizzato con la legge del 4 maggio 1976 (MitbG 1976 o senz'altro MitbG), ha una portata generale, avendo in qualche misura ridotto i precedenti a discipline specifiche di un certo settore e/o di una certa dimensione imprenditoriale più limitata. Tale modello trova applicazione in tutte le imprese, gestite nelle forme che si diceva, con oltre 2.000 addetti, salvo che per il settore carbosiderurgico e per le imprese di tendenza. Grazie a quanto previsto dalla legge del 1976, il consiglio di sorveglianza (che è di 12, 16 o 20 membri a seconda delle dimensioni della società, desunte dal numero di addetti) risulta in apparenza composto paritariamente. Dei 6 o 8 o 10 rappresentanti dei lavoratori, rispettivamente 4, 6 e 7 debbono essere dipendenti; 2, 2 e 3, invece, di designazione sindacale; nel primo gruppo debbono essere prescelti obbligatoriamente almeno un operaio, un impiegato e un dirigente (leitender Angestellter). Tuttavia, l'inserimento del dirigente nella quota spettante ai lavoratori, da un lato affossa il principio di proporzionalità (nella rappresentanza dei diversi gruppi o categorie di lavoratori) affermato in via teorica, dall'altro nega nei fatti la pariteticità della composizione dell'organo, giacché profila una prevalenza sostanziale del versante dei soci. A tale prevalenza contribuisce ancor più decisamente la circostanza per cui, in caso di parità di voti nel consiglio di sorveglianza, il voto del presidente vale doppio (e può essere formulato per iscritto in caso d'assenza). È da precisare che la nomina del presidente è congegnata dalla legge in modo tale che egli sia inevitabilmente espressione del versante dei soci.
Il panorama legislativo della codeterminazione negli organi societari non è sensibilmente modificato da una serie di altre possibilità che pur tuttavia vanno per completezza menzionate. Voci minoritarie, seppure autorevoli, hanno ad esempio accreditato ipotesi (con riscontri cospicui nella prassi, specie delle imprese attraverso le quali si esprime l'attività economica dei sindacati e in quelle pubbliche) secondo le quali, accanto ai congegni elencati (o combinandoli) ne possono convivere altri, più forti, di origine pattizia. Con ciò si assume, se non la disponibilità del diritto societario o dello statuto dell'impresa (Unternehmensverfassung), la possibilità di accorgimenti per aggirarne i disposti più invalicabili: ad esempio con un contratto di voto vincolato (Stimmbindungsvertrag), grazie al quale i rappresentanti, negli organi di sorveglianza o d'amministrazione, che non provengono dal versante dei dipendenti si obbligano a votare in consonanza con i rappresentanti di questi (v. Däubler, 1975³, pp. 448 ss.).
Questo capitolo della cogestione attraverso contratto collettivo (Mitbestimmung durch Tarifvertrag) permane del resto al centro del dibattito sulla riforma, al di là delle sue sporadiche concretizzazioni. Tant'è che nell'ultimo progetto di legge presentato in materia dal DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund) nel 1982 - nel quale il sindacato tedesco riesprime la sua incondizionata preferenza per il modello della cogestione carbosiderurgica - appare il par. 18 che recita: "I parr. da 5 a 17 [che disciplinano un sistema simile al MontanMitbG] trovano applicazione anche nelle imprese che lo hanno concordato per contratto con il sindacato prevalentemente rappresentato nell'impresa stessa. Discipline di codeterminazione diverse o integrative possono essere stabilite per contratto collettivo o altre convenzioni, purché non ne siano limitati i diritti di codeterminazione spettanti secondo la presente legge" (v. DGB, s.d.).
Altre proposte di modifica sono state avanzate dal movimento dei 'verdi', che sollecita l''esposizione' degli interessi alla tutela dell'ambiente negli organi delle grandi società. È stata pertanto proposta la nomina di due esperti in materia scelti sul versante dei soci e di altrettanti su quello dei lavoratori (si veda il testo del progetto, presentato nel 1988, di una legge per la cogestione nell'impresa e per la riforma 'ecologica' del diritto societario).Va segnalato infine, per completezza, il fenomeno, seppur modesto, della penetrazione del modello partecipativo in esame nel settore pubblico, e in particolare nelle imprese pubbliche. È stato però sollevato il dubbio che questa particolare forma di codeterminazione (direktive Mitbestimmung) collida con i principî di responsabilità e di competenza della pubblica amministrazione (v. Leisner, 1970).
La leggera prevalenza assegnata ai soci nella composizione dei consigli di sorveglianza ha consentito alla legge del 4 maggio 1976 di superare indenne il vaglio della Corte Costituzionale Federale. Questa venne investita della questione dall'intera imprenditorialità tedesca che eccepiva il contrasto tra svariati punti della legge e una serie anche troppo lunga di garanzie costituzionali (proprietà, libertà di associazione, libertà di professione, libero sviluppo della personalità, principio d'uguaglianza e libertà di coalizione dei datori di lavoro). In una sentenza memorabile, emanata il 1° marzo 1979, la Corte Costituzionale Federale ebbe a precisare che una prognosi realistica e ponderata su quali sarebbero stati gli effetti futuri della legge consentiva di ritenere che essa non avrebbe interferito con (né danneggiato) il funzionamento dell'impresa e dell'economia e neppure con quello della contrattazione collettiva: tale conclusione, magnificamente argomentata in rapporto a tutti i nodi della querelle costituzionale, era tratta precisamente dalla constatazione che ai soci era assicurata una presenza lievemente maggioritaria nelle decisioni da prendere.In tal modo la Corte ha contribuito a fissare una sorta di limite logico - la conservazione di un quantum di prevalenza al versante proprietario - oltrepassando il quale viene vulnerata la costituzionalità dell'inserimento dei lavoratori negli organi dell'impresa societaria. In effetti, se si andasse oltre il limite così fissato, si sarebbe in presenza o di una pericolosa pariteticità, foriera di stalli e disfunzioni, oppure, con la prevalenza del versante dei lavoratori, di una socializzazione dell'impresa, secondo i moduli prefigurati dall'art. 43 della nostra Costituzione o dall'art. 15 di quella tedesca.
L'inserimento di rappresentanti dei lavoratori e/o dei sindacati negli organi societari - che si trasformano così da unilaterali in misti - si verifica in altri ordinamenti dualistici (dove cioè, come si è detto, l'organo di sorveglianza risulta separato da quello di amministrazione) in forme diverse da quelle fissate nei modelli tedeschi. Tale forma di partecipazione, invece, non interessa di massima i sistemi monistici o unitari (e cioè quelli - come l'italiano - imperniati su un consiglio di amministrazione nominato dall'assemblea). Può eccezionalmente accadere, tuttavia, che pure in tali sistemi l'organo che amministra sia partecipato: ne daremo qualche esempio.Per completare il panorama delle esperienze nel settore, si possono anzitutto ricordare i casi dell'Austria, dell'Olanda e della Danimarca. Dopo la riforma della legge sulla costituzione del lavoro (Arbeitsverfassungsgesetz), del 1973, nelle aziende austriache con più di 40 dipendenti un terzo dei membri del consiglio di sorveglianza è nominato dal consiglio d'azienda (Betriebsrat), e cioè dall'organo istituzionale di rappresentanza del personale: si determina così fra tali organi una comunicazione molto stretta, di tipo 'endoaziendalistico', una sorta di canale unico dal lato dei lavoratori.In Olanda la legge del 6 maggio 1971 ha introdotto - nelle società per azioni e a responsabilità limitata che superano una certa dimensione di capitale e hanno più di 100 dipendenti - la figura del consiglio di sorveglianza (accanto all'organo di direzione), arricchendola di prerogative anche maggiori di quelle attribuite alla stessa figura dalla legge tedesca sulle società per azioni.
Singolare in questa disciplina è il sistema di scelta dei membri del consiglio di sorveglianza, dopo che sono stati insediati una prima volta con l'atto costitutivo. Quando si verifichi una vacanza, il consiglio di direzione, l'assemblea dei soci e il consiglio d'azienda (organo di rappresentanza dei dipendenti) sono invitati a indicare i loro candidati. Il consiglio di sorveglianza coopta uno di questi candidati e a tale cooptazione ci si può opporre (per assenza di requisiti, creazione di squilibri, ecc.) di fronte a un organo di natura pubblica (il Consiglio economico e sociale), che rinnoverà o confermerà la scelta del consiglio di sorveglianza.Infine in Danimarca, per le società di capitali che superano certe dimensioni, passando a un ordinamento sostanzialmente di tipo dualistico (leggi del 13 giugno 1973, nn. 370 e 371) si è introdotto, accanto al consiglio dei direttori, un più ristretto consiglio del management. La presenza obbligatoria di questi due organi implica, al di là della loro denominazione, che il primo controlli il secondo (anche se non con le stesse modalità del sistema dualistico classico). Orbene, il consiglio dei direttori, nelle imprese con più di 50 dipendenti, deve essere composto per un terzo da membri eletti dai dipendenti. Tali membri hanno uno statuto eguale a quello dei membri eletti dall'assemblea dei soci, ma non possono intervenire né votare nelle questioni sindacali o relative a controversie di lavoro.In altri sistemi, come si è anticipato, le discipline partecipative interferiscono a volte più chiaramente con gli organi di direzione. Così in Francia, fin dal 1946, due membri del consiglio d'azienda (un operaio o impiegato e un quadro) potevano assistere alle riunioni del consiglio d'amministrazione delle società private, con voto consultivo.
Questa immissione si riferisce ora, dopo la riforma del 1966 che lo ha introdotto, al consiglio di sorveglianza nelle società che adottano il modello dualistico. Più di recente si è deciso (legge n. 83-675), per il solo settore pubblico (imprese pubbliche o a prevalente partecipazione statale o pubblica), che i consigli d'amministrazione o di sorveglianza siano composti per un terzo da rappresentanti dei dipendenti.Quanto alla Svezia, in cui vige un sistema monistico, la legge del 1° luglio 1976 ha stabilito che quando le società per azioni e le cooperative abbiano più di 25 dipendenti, nel loro consiglio d'amministrazione possono sedere due membri indicati dai sindacati (dopo aver verificato che gli associati intendono avvalersi di tale facoltà). Ai rappresentanti dei lavoratori è però precluso di partecipare alla discussione e al voto allorquando l'organo amministrativo tratti questioni riguardanti la contrattazione collettiva. (Su queste esperienze v. in particolare Bonell, 1983, pp. 283 ss.).
Non può mancare infine un cenno all'attesa unificazione comunitaria delle discipline di partecipazione agli organi societari, che dovrebbe essere realizzata con la piena operatività della V direttiva CEE. Già la circostanza che una proposta di direttiva - presentata al Consiglio il 9 ottobre 1972, passata attraverso dieci anni di discussioni, approvata dal Parlamento europeo nel 1982, ripresentata modificata dalla Commissione al Consiglio il 19 agosto 1983 - sia ancora, dopo quasi vent'anni, impelagata in una discussione inconcludente, lascia intendere l'estrema difficoltà di una siffatta unificazione. Invero il suo presupposto sarebbe, a ben vedere, l'omogeneizzazione del diritto societario, che viceversa tende a rimanere abbarbicato alle diverse tradizioni nazionali, fondate ora sul sistema dualistico, ora su quello monistico o unitario (v. Lener, 1987).
Nel tentativo di adattarsi a queste strutture antitetiche, la proposta di modifica della V direttiva prevede alcune possibilità alternative di partecipazione dei lavoratori, da adottarsi con riferimento al consiglio di sorveglianza (nei paesi a sistema dualistico) e ai membri non dirigenti del consiglio d'amministrazione (nei paesi che adottino un sistema unitario: per dar corpo alla sua improbabile ipotesi la direttiva immagina che l'organo amministrativo sia suddivisibile in due sub-organi, ricomprendenti l'uno coloro che dirigono, l'altro coloro che non dirigono ma controllano). Orbene, in entrambi i casi, e cioè sia per i membri dell'organo di vigilanza che per quelli del sub-organo di controllo, si auspica che (nella misura di almeno un terzo, ma meno della metà) la nomina sia fatta dai dipendenti della società; oppure che sia istituito un apposito organo di rappresentanza dei lavoratori, esterno agli organi societari, che entri istituzionalmente in rapporto con essi. La scelta dell'una o dell'altra di queste forme partecipative può essere effettuata anche per contratto collettivo, contratto che può stabilire altresì una disciplina differenziata, purché rispettosa dello standard.
Un'ulteriore opzione è possibile (solo nel caso dei sistemi dualistici) e consiste nella previsione per legge della cooptazione dei membri del consiglio di vigilanza dopo il suo primo insediamento, come si verifica in Olanda (v. Ricolfi e Montalenti, 1985).Nonostante le speranze suscitate e le accelerazioni che le varie tappe della vicenda hanno impresso al dibattito anche italiano, la V direttiva non appare in grado di realizzare l'obiettivo perseguito, e sempre più necessario, di sancire per i paesi della Comunità una normativa omogenea rispetto ai costi di partecipazione. Da una proposta di unificazione delle discipline in materia che premiava il modello tedesco si è passati, per impulso dei particolarismi nazionali, a una frammentazione troppo disarticolata delle possibili discipline: tant'è che, se anche venisse infine resa esecutiva un'impostazione così polimorfa, ci si potrebbe chiedere se essa determinerebbe realmente il risultato di un adeguamento della legislazione dei diversi paesi.
3. La cogestione attraverso gli organi di rappresentanza del personale (betriebliche Mitbestimmung)
Nella tradizione tedesca per Mitbestimmung non s'intende solo la codeterminazione negli organi dell'impresa societaria, anche se essa ne costituisce la manifestazione forse più saliente. Storicamente anteriore alla unternehmerische è la betriebliche Mitbestimmung, la quale era disciplinata nella costituzione aziendale (Betriebsverfassung) anche prima che fosse organicamente strutturata (col BRäteG del 1920). Poiché nella nostra indagine si tenta di definire il significato di cogestione anche attraverso la focalizzazione di quello di Mitbestimmung, diventa inevitabile tratteggiare questa sua ulteriore e importantissima forma.
Per betriebliche Mitbestimmung s'intende la codeterminazione, ad opera della direzione aziendale e dell'organo di rappresentanza del personale (il consiglio d'azienda) di numerosissime questioni - previste esplicitamente dalla legge, ma che si ritengano ampliabili per contratto o per accordo - in materia sociale, del personale ed economica. Poiché non sempre, dopo la consultazione e la trattativa, direzione e consiglio d'azienda raggiungono l'accordo, betriebliche Mitbestimmung significa anche il procedimento utilizzabile perché sulla questione posta si formi comunque una regola. Si vuole con ciò evitare che essa rimanga irrisolta o sia abbandonata alla decisione unilaterale della parte in grado di imporsi nei fatti.Le questioni da codeterminare, adombrate nella tripartizione della costituzione aziendale tedesca, non sono di poco conto. Gli affari sociali comprendono, ad esempio, il regolamento aziendale, l'orario, le ferie, gli strumenti di controllo, le norme antinfortunistiche, le istituzioni sociali, le assegnazioni di case ai dipendenti, ecc. Quanto agli affari del personale, le misure di carattere generale attengono all'individuazione dei criteri di scelta del personale, alla sua programmazione e formazione (operano quindi in riferimento ad assunzioni, trasferimenti, classificazioni, riqualificazioni e licenziamenti: cfr. par. 95); le misure di carattere individuale, sulle quali al consiglio d'azienda spetta il diritto di veto, attengono invece alle concretizzazioni nel caso singolo dei provvedimenti decisi in via generale (cfr. parr. 99 ss.; v. Schreiber, 1987).Le questioni economiche (wirtschaftliche Angelegenheiten), infine, riguardano non tanto l'unità di lavoro e i suoi aspetti tecnico-organizzativi, quanto il riferimento più ampio e con diversa proiezione dell'impresa (cfr. parr. 106 ss.).
Tali questioni sono connesse a decisioni e prospettive che coinvolgono l'attività esterna dell'impresa verso il mercato e assumono perciò un'importanza anche più nevralgica delle precedenti. Il loro elenco (cfr. par. 106, 3° comma) comprende infatti la situazione economica, finanziaria, di produzione e di vendita dell'impresa; i programmi di produzione e di investimento, le misure di razionalizzazione, i metodi di fabbricazione e di lavoro; il ridimensionamento o la chiusura di stabilimenti o di parti essenziali di essi, come pure il loro trasferimento e la loro fusione; le modificazioni sostanziali nell'organizzazione o negli scopi dell'unità produttiva. In relazione alla trattazione di questi affari, in unità imprenditoriali con più di 100 addetti, la legge prescrive che venga appositamente costituito un comitato economico (Wirtschaftsausschuss) composto da lavoratori dell'impresa, tra cui almeno un membro del consiglio interno, sempre revocabili.
Tornando al procedimento di codeterminazione, esso presenta due varianti principali, dopo una fase per così dire comune, nella quale la questione che costituisce oggetto di un Mitbestimmungsrecht viene comunicata dalla direzione al consiglio d'azienda affinché ne sia informato e si possa procedere a un esame congiunto per concordare il provvedimento da adottare. Se l'accordo non viene raggiunto, in alcuni casi si adisce il collegio arbitrale (Einigungsstelle) (ad esempio, nelle questioni sociali in genere, nell'individuazione dei criteri di scelta e dei Sozialpläne che perseguono l'attenuazione delle conseguenze sociali di ristrutturazioni e di riorganizzazioni, e più in generale ogni volta che non è adempiuto un obbligo di informazione); in altri casi invece si adisce il tribunale del lavoro (quando il consiglio d'azienda esercita il diritto di veto che gli spetta: questioni del personale di tipo individuale, nonché licenziamento di membri del consiglio d'azienda). È possibile anche una sequenza conciliativo-arbitrale più complessa (che coinvolge il presidente del tribunale del lavoro e il collegio arbitrale), con particolare riguardo ai piani di ristrutturazione in senso stretto, che pur tuttavia, se non si giunge a un accordo, l'imprenditore può infine e comunque adottare, salvo gli indennizzi sul piano sociale. In complesso si può osservare che, quanto più i provvedimenti ineriscono alle nevralgiche e classiche prerogative manageriali, tanto meno intensamente sono codeterminabili dai lavoratori.
Per valutare in modo appropriato il funzionamento della codeterminazione a livello aziendale bisogna altresì considerare il senso complessivo della costituzione aziendale. Nelle sue successive versioni (1920, 1952, 1972) la relativa legge ha istituzionalizzato un organo di rappresentanza unitaria degli interessi dei dipendenti, regolandone ogni competenza e disciplinando minuziosamente l'intero sistema delle relazioni endoaziendali. Il consiglio interno ha l'obbligo di lavorare fiduciosamente assieme all'imprenditore "per il bene dei lavoratori e dell'azienda"; e quest'obbligo costituisce una vera clausola generale, con capacità espansiva del relativo criterio, quantomeno sul piano interpretativo, come misuratore di tutti i comportamenti aziendali. L'impianto fondato su tale pietra angolare comporta come conseguenze immediate il divieto assoluto di far ricorso a mezzi di lotta; il divieto di svolgere attività partitico-politica; la restrizione dell'ordine del giorno delle assemblee ad argomenti che abbiano rigorosa attinenza con lo stabilimento di cui trattasi; in genere un'attività totalmente indirizzata, nel segno del bene comune dei lavoratori e dell'impresa, alla ricerca di accordi e al superamento di eventuali conflitti (v. Witt, 1987).
Questo valore codificato della pace aziendale (Betriebsfriede) si espande anche più intensamente nella pubblica amministrazione. In proposito si deve ricordare che una legge federale e numerose leggi regionali disciplinano la rappresentanza degli interessi dei dipendenti del Bund e dei Länder negli uffici pubblici, stabilendo analoghi anche se più limitati diritti di codeterminazione e corrispondenti procedimenti.Aggiungasi ancora che la posizione data ai sindacati all'interno della costituzione aziendale non è particolarmente favorevole, ancorché il legislatore del 1972 abbia smussato la carica antisindacale di quello del 1952. Negli anni sessanta, comunque, si è sviluppata, specialmente nel settore metallurgico e chimico, una certa tendenza a contrapporre all'imbavagliamento dei consigli d'azienda momenti rappresentativi svincolati dalle pesanti ipoteche poste dalla legge. Rinasce così, ed è tuttora in fase di sviluppo, il movimento dei fiduciari (Vertrauensleute), che sarebbero un po', come le nostre fallite sezioni sindacali aziendali, i diretti portavoce in fabbrica dei sindacati esterni. Tale circostanza completa fin dentro le aziende il dualismo rappresentativo caratteristico del sistema tedesco.
Nel dibattito politico-sindacale tedesco il concetto di Mitbestimmung viene utilizzato anche in accezioni ulteriori rispetto alle due principali che abbiamo segnalato, in quanto nel mondo dell'economia e dei rapporti di lavoro si pongono questioni suscettibili di essere decise mediante codeterminazione in ogni contesto e a qualsivoglia livello. Da un lato si parla di Mitbestimmung sul posto di lavoro (am Arbeitsplatz) in relazione a esigenze e problemi di umanizzazione del lavoro stesso (Humanisierung der Arbeit), problemi che hanno il loro referente nelle suddivisioni dell'organizzazione del lavoro all'interno dell'unità produttiva (reparto, linea, catena).
Il carattere eterodosso della prospettiva si esprime anche nel fatto che, tendenzialmente, l'agente contrattuale in materia viene identificato da talune impostazioni sindacali piuttosto che nel consiglio d'azienda, organo istituzionale, nei Vertrauensleute, che sono come or ora detto i fiduciari del sindacato in azienda (v. Schumann, 1972).Dall'altro lato, su un piano 'superaziendale' nascono domande di coordinamento ovvero di influsso sindacale sulla politica economica, che integrano quella che è chiamata 'codeterminazione della politica economica' (gesamtwirtschaftliche Mitbestimmung). Tale forma di cogestione risulta a tutt'oggi carente di strumentazioni istituzionalizzate, malgrado una particolare sensibilità su questo punto del sindacato, che aspirerebbe a una sorta di CNEL federale e di piccoli CNEL regionali. I compiti di questi consigli economici e sociali (Wirtschafts- und Sozialräte) sono stati previsti in modo articolato fin dal 1971 (v. Ballerstedt, 1971), ma non hanno avuto finora alcuna realizzazione.
In definitiva, sembra di poter concludere che Mitbestimmung alluda a un complesso di strumenti di partecipazione alla formazione di decisioni, strumenti che richiedono, lì dove è previsto il loro intervento, la presenza di una regola codeterminata dalle due parti o determinata da un terzo organo neutrale. A differenza della contrattazione - rispetto alla quale è ipotizzabile un obbligo solo riguardo alla trattativa da svolgere, ma non alla stipulazione della regola - la cogestione assicura dunque con certezza un risultato normativo non unilaterale. La regola codeterminata è infatti frutto della partecipazione di entrambe le parti in conflitto, ovvero del procedimento che deve essere instaurato se non trovano l'accordo, procedimento al cui termine vi è una decisione presa da un organo supra partes.
Peraltro il tentativo di enucleare un significato complessivo del termine cogestione non deve far dimenticare che alla situazione così descritta si arriva attraverso due meccanismi totalmente diversi. Il primo si basa sull'individuazione analitica, fatta dalle parti o dalla legge, delle questioni che debbono essere decise dalla direzione aziendale con l'accordo di un determinato organo di rappresentanza. Il secondo meccanismo consiste invece nell'attribuzione di una serie di competenze a una sede istituzionale - nella specie gli organi societari - nella quale debbono essere presenti i rappresentanti di entrambe le parti, o anche di parti ulteriori, perché sia garantita l'esposizione dei relativi interessi.Mentre in questo secondo modulo la certezza della codeterminazione deriva dal funzionamento dell'organo collegiale a composizione bilaterale non paritaria o a composizione plurilaterale, nel primo modulo il discorso su come la norma o decisione si formi deve essere sviluppato, come si è detto, in termini processuali.
Se i soggetti in conflitto (direzione e organo di rappresentanza) non concordano la regola, deve intervenire un organo neutrale (giudiziario: il giudice; privato: un arbitro; amministrativo: l'ispettorato del lavoro, come è previsto negli artt. 4 e 6 del nostro Statuto dei lavoratori). Tale organo stabilisce la regola al posto dei soggetti che avrebbero dovuto concordarla, e può farlo in modo inappellabile o meno. Questo eventuale sviluppo, tipico della cogestione aziendale, mostra come anche in essa possa intervenire un soggetto che ha a volte la forma di organo a composizione mista di interessi (si pensi a un collegio di conciliazione e arbitrato, in cui vi siano rappresentanti di entrambe le parti più un presidente neutrale).Risulta così chiaro che il fenomeno della cogestione comprende entrambi i moduli strutturali della democrazia industriale già esemplificati all'inizio; ma essi non corrispondono affatto alle due varianti della cogestione, giacché la betriebliche Mitbestimmung è, a ben vedere, la combinazione di entrambi i moduli detti in una sequenza temporale in cui la seconda fase, e quindi l'intervento dell'organo collegiale, è solo eventuale.
In conclusione, la cogestione è la tecnica in cui si preferisce una regolazione consensuale, o comunque secondo un procedimento prefissato, alla possibilità di regolazioni unilaterali che inevitabilmente conseguirebbero dal fatto che le parti restano libere di abbandonare la trattativa se non sono d'accordo nel concluderla. Sotto questo punto di vista la cogestione è consentanea - e il rilievo vale pure come prognosi - a quei sistemi di relazioni industriali in cui vi è scarsa propensione al conflitto ovvero, più precisamente, si è poco propensi a ricorrere alla lotta per ampliare, o anche solo conservare, l'ambito della contrattazione o per costringere alla stipulazione di contratti ai vari livelli (v. von Beyme, 1985). Questo rilievo è forse illuminante per giudicare in qual senso si possa contrapporre la cogestione alla contrattazione, la logica partecipativo-cooperatoria alla logica negoziale-conflittuale.
Si è delineato un significato politico-sindacale sufficientemente preciso di cogestione, come sintesi della sua duplice espressione tecnico-giuridica. Dobbiamo ora verificare in quale misura l'idea si sia concretizzata o sia stata al centro di aspirazioni o progetti nell'esperienza italiana. Vale la pena menzionare, fra le manifestazioni anticipatrici, gli organismi di tutela che cominciarono a sorgere nelle fabbriche a cavallo del secolo. Spesso chiamate 'commissioni interne', tali strutture erano costituite, in linea di massima, da soli dipendenti, che rappresentavano il personale, o meglio gli operai; a volte, ma raramente, in esse erano pure inseriti rappresentanti della direzione (in numero comunque minoritario). A tali strutture erano affidati compiti ben modesti (per lo più facoltà di reclamo e di conciliazione in prima o seconda istanza), che si inserivano tuttavia in un quadro di cooperazione che ha qualche addentellato con l'idea cogestionale (v. Pedrazzoli, 1984). Dopo un effimero rafforzamento per via contrattuale all'inizio degli anni venti, le commissioni interne furono soppresse con l'accordo di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, tacquero nel periodo corporativo e furono rilanciate, quasi come primo atto del rinato libero sindacalismo, con il patto Buozzi-Mazzini del 2 settembre 1943.
Nella nostra ricognizione, è di particolare rilievo il movimento dei consigli di gestione, che ha investito l'Italia del Nord sul finire della seconda guerra mondiale. Per essere esatti, l'atto di nascita di tali organi (D. L. del 12 febbraio 1944, n. 375) è correlativo allo sforzo di socializzazione sviluppato dalla Repubblica Sociale di Salò per ricuperare la coesione dei lavoratori in funzione delle esigenze belliche.
Ripudiata nella forma a Liberazione avvenuta, questa istanza di socializzazione si diffuse capillarmente investendo innumerevoli aziende (circa 500 nell'aprile del 1947), molte delle quali rimaste prive dei vertici per effetto di epurazioni e/o di fughe per collaborazionismo. I consigli di gestione così sorti, spontaneamente o nominati dal CLN, erano organi a composizione mista, e anzi paritetica (e pertanto sistematicamente arricchiti dall'apporto dei tecnici e dei dirigenti delle maestranze); eletti dai lavoratori (nella componente loro spettante) a scrutinio segreto; con compiti di controllo, promozione e iniziativa, soluzione di conflitti e a volte, ma raramente, deliberativi, attribuiti comunque in uno spirito contrassegnato dall'esigenza della collaborazione produttivistica (v. Lanzardo, 1977).Nell'ipotesi di Rodolfo Morandi, che come ministro dell'Industria cercò alla fine del 1946 di disciplinare per legge i consigli di gestione (v. il progetto in Confederazione Generale dell'Industria Italiana, 1946, vol. I, pp. 149 ss.), il carattere paritario, consultivo e cooperatorio di tali organi veniva rafforzato. Essi dovevano essere istituiti nelle imprese con più di 250 addetti; dovevano essere presieduti dal titolare dell'impresa o dal responsabile o dall'amministratore delegato (con prevalenza di voto in caso di parità); avevano diritti d'informazione e consultazione su importanti materie, e anzi deliberavano con riferimento al proprio funzionamento, all'erogazione di somme a fini di protezione sociale, alla migliore utilizzazione delle maestranze. Il nevralgico problema di un rapporto efficiente con le commissioni interne - che, dopo essere state rilanciate, saranno regolate di lì a poco con l'accordo interconfederale del 1947 (seguito da quelli del 1953 e 1966) - veniva frettolosamente risolto con l'art. 21 ("I consigli di gestione non possono occuparsi di questioni strettamente sindacali e di questioni di competenza delle commissioni interne e viceversa"). Converrà aggiungere che nel disegno morandiano i consigli di gestione avrebbero dovuto costituire il reticolo della futura pianificazione o programmazione di un'economia democratizzata.
A decidere il destino dei consigli di gestione, scomparsi nei primissimi anni cinquanta, furono le condizioni del quadro politico e l'avversione delle forze economiche e finanziarie; epitaffio giuridico ne fu invece l'art. 46 della Costituzione: norma di significato ambiguo e comunque non approfondito a sufficienza. Tale articolo è il risultato di una complessa discussione dei costituenti, i cui termini si spostano di continuo, riversandosi infine anche nell'elaborazione di altre norme della carta fondamentale, fra le quali gli artt. 39 e 41 (v. Craveri, 1977, cap. II). La sostanza della norma consiste nell'affidare al legislatore la disciplina del diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, ai fini della loro "elevazione economica e sociale" e in armonia con le "esigenze della produzione". La ragione della riserva di legge deve ravvisarsi nella particolare delicatezza della determinazione del punto in cui la collaborazione in esame si trasforma in una duplice disfunzione: si tratta da un lato di evitare che la partecipazione interferisca sulle prerogative manageriali fino a rompere l'unità di comando e di direzione dell'impresa; dall'altro di evitare ogni confusione dei ruoli nel senso che, pur collaborando alla gestione, l'organizzazione sindacale deve continuare a svolgere una genuina rappresentanza degli interessi dei lavoratori secondo il principio della libertà sindacale.A ogni buon conto, la prospettiva dell'art. 46, finora rimasta in sordina, è destinata a riassumere un'importanza centrale: sempre più opportuno appare infatti articolare la realizzazione di diritti e la redistribuzione di vantaggi e svantaggi per i lavoratori con meccanismi istituzionali che si affianchino al contratto collettivo, evitando l'incertezza delle coregolazioni che possono essere (o non essere) ottenute con quest'ultimo.
Nonostante un perdurante e motivato disinteresse sindacale, deve essere fatto cenno all'amplissima legislazione che, relativamente ai ministeri e agli organismi ministeriali, nonché ai più vari enti pubblici dell'amministrazione centrale e territoriale, prevede una partecipazione di rappresentanti dei dipendenti e/o dei sindacati; si è così verificato che in migliaia di organi, compresi i consigli di amministrazione dei più importanti istituti (ad esempio quelli previdenziali) e delle imprese pubbliche, sono stati immessi, accanto ai rappresentanti dell'interesse pubblico, quelli degli interessi del lavoro dipendente.Si tratta di un fenomeno partecipativo d'intensità variabile, sia per i compiti attribuiti agli organi partecipativi (compiti di governo, di controllo, di conciliazione, oppure d'iniziativa sociale o politica), sia per il diverso momento dell'intervento di tali organi nell'iter formativo di una decisione, sia, infine, per il significato assunto dalla presenza (minoritaria o paritaria) delle diverse componenti, designate in base a regole, anche di quorum, variabili (v. Cammelli, 1982). Si aggiunga infine che sono sempre a composizione mista le commissioni alle quali sono affidati compiti di natura pubblica in materia di lavoro (ad esempio quelle che operano nel mercato del lavoro).Per includere a pieno titolo questa multiforme vicenda in una realizzazione dell'idea cogestionale si dovrebbe verificare in concreto se i rappresentanti dei lavoratori, partecipando agli organi pubblici, possono valorizzare il titolo sindacale di accesso. Ciò è dubbio, non tanto e non solo per il funzionamento dell'organo collegiale - al quale non è di per sé coessenziale una tutela delle minoranze e delle loro espressioni - quanto a causa dei principî d'imparzialità e di buon andamento, ai quali deve pur sempre improntarsi l'attività dei pubblici uffici (art. 97, 1° comma, della Costituzione; v. Perone, 1972, cap. IV).
Almeno per attrazione, merita un cenno il diverso significato rivestito dal Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (art. 99 della Costituzione e legge del 30 dicembre 1986 n. 936, che ne ha rinnovato radicalmente la disciplina). Il CNEL è un organo che opera in collaborazione con le camere e il governo, è costituito da rappresentanti di tutte le categorie produttive (lavoratori dipendenti e autonomi e imprenditori), oltre che da esperti, e ha una serie imponente di attribuzioni di tipo valutativo e consultivo e di poteri di iniziativa, fino a quella legislativa. Per tale aspetto potrebbe rientrare nella cogestione intesa in senso molto ampio, tanto da sfumare nell'idea corporativa. Del resto, nella elaborazione classica della Wirtschaftsdemokratie appaiono sempre le aspirazioni alla costituzione di consigli centrali e territoriali, preposti in qualche modo al governo dell'economia e delle condizioni di lavoro (v. Naphtali, 1928).
Nelle sue concrete realizzazioni il panorama italiano presenta qualche raro esempio di cogestione aziendale in senso tecnico. Due di essi sono precisamente previsti dallo Statuto dei lavoratori (artt. 4 e 6) in materia di impianti audiovisivi e visite personali di controllo, allorquando stabiliscono un procedimento all'esito del quale sarà fissata certamente una regola, da un organo neutrale, anche se le rappresentanze dei lavoratori e la direzione non si fossero trovate d'accordo.Per il resto, l'Italia, nella cui esperienza la contrattazione collettiva svolge un ruolo fondamentale, è il paese della partecipazione in senso debole, polarizzata per tutti gli anni settanta sui diritti contrattuali di informazione e consultazione sindacale. Invece di superare questa asfittica dimensione, si è ritenuto opportuno perfezionarla nel settore delle partecipazioni statali attraverso comitati consultivi paritetici istituiti in alcuni protocolli (IRI, EFIM, ASAP Energia), che dimostrano di servire poco o nulla (v. Pedrazzoli, Sull'introduzione..., 1985).
Nella ritrosia del nostro paese ad affrontare ipotesi partecipative in senso forte, comprese quelle cogestionali, gioca probabilmente un ruolo l'assimilazione in negativo fra vicenda tedesca e cogestione. Tuttavia il panorama italiano degli anni ottanta presenta qualche variazione e novità. Almeno un progetto si è direttamente misurato con le difficoltà tecniche e sistematiche comportate dalla progressiva introduzione di un sistema dualistico di diritto societario nel nostro paese. Si è così ipotizzata, accanto alla generalizzazione per legge dei diritti sindacali di informazione e consultazione fissati nei contratti collettivi, la presenza di un consiglio di sorveglianza nel quale possano sedere, in posizione minoritaria, rappresentanti dei dipendenti e dei sindacati, in quelle società, con più di 500 addetti, nelle quali i lavoratori abbiano votato, mediante referendum, a favore di tale partecipazione (v. Carinci e Pedrazzoli, 1984, pp. 33 ss.).
Del resto la necessità di una omogeneizzazione europea in merito ai costi di partecipazione condurrà inevitabilmente, anche nel nostro paese, a liberare questo argomento da condanne ideologiche, da cariche emotive e da obiezioni di principio che nascondono la vera configurazione e i reali effetti dei diversi congegni partecipativi. Anche gli schemi cogestionali che abbiamo tentato di enucleare, dunque, sono destinati a essere valutati unicamente in base alla loro capacità di introdurre un più ampio tasso di democraticità e una più adeguata ponderazione degli interessi nella formazione di decisioni certe nel mondo dell'economia e del lavoro
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