Automatismi sanzionatori e principi costituzionali
La discussione sui vincoli apposti alla discrezionalità giudiziale, nella definizione del trattamento sanzionatorio dei singoli casi concreti, non è certo contingente. Si è registrata tuttavia, negli ultimi anni, una netta tendenza all’introduzione di automatismi, che trova del resto riscontro anche in norme processuali o pertinenti alla fase esecutiva. Misure del genere provocano tensioni coi principi di ragionevolezza, uguaglianza, proporzionalità, non più fronteggiabili con l’assioma che le scelte sanzionatorie sono rimesse all’insindacabile discrezionalità del legislatore. Tuttavia la spinta per una rimozione degli automatismi è bilanciata, e spesso neutralizzata, dalla impraticabilità per la Corte costituzionale di soluzioni che sostituiscano una opzione ragionevole, ma pur sempre discrezionale, a quella eventualmente irragionevole che sottende alle norme censurate. Il punto sugli istituti attualmente più controversi del sistema sanzionatorio.
Non è certo contingente la discussione sui vincoli alla discrezionalità giudiziale, che concerne, specie riguardo alla giurisdizione penale, un problema di equilibrio. Il principio di legalità (art. 25, co. 2, Cost.) esige che le scelte fondamentali circa le condotte meritevoli di pena, ed a proposito del relativo trattamento, siano compiute dalle istituzioni rappresentative, e si declina in un requisito di determinatezza delle previsioni sanzionatorie. La stessa procedura per l’accertamento delle responsabilità è oggetto di una esplicita riserva di legge (art. 111, co. 1, Cost.).
Nondimeno, la discrezionalità del giudice è da lungo tempo individuata quale presidio irrinunciabile di valori costituzionali fondamentali. Tra questi, guardando ancora alla materia penale, subito emerge il principio di uguaglianza, anche nella prospettiva della ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché solo la possibilità di adattare il trattamento alle caratteristiche dei casi concreti consente di differenziare la risposta punitiva riguardo a situazioni difformi. Per altro verso, l’attuazione piena del principio di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, co. 3, Cost.) esige una regolazione fine, operata riguardo al fatto e alle caratteristiche del suo autore, possibile solo attraverso margini adeguati di discrezionalità giudiziale.
Come si accennava, si tratta di profili centrali e risalenti della riflessione sul “volto costituzionale” del sistema penale. Per fare solo un esempio, il tema delle cd. “pene fisse” è oggetto di discussione da alcuni decenni (infra). Non si può negare, tuttavia, che negli ultimi anni si è registrata una netta propensione del legislatore a restringere gli ambiti della discrezionalità giudiziale. Le ragioni sono molteplici e complesse, e non v’è spazio qui per esaminarle. La tendenza è però manifesta.
Sul versante processuale si è registrata (in singolare controtendenza rispetto alle ricorrenti doglianze su presunti abusi della carcerazione preventiva) una nuova modifica del co. 3 dell’art. 275 c.p.p., volta ad incrementare ulteriormente i casi di applicazione “obbligatoria” della custodia in carcere (salva l’eventualità che non risulti positivamente esclusa l’esistenza di esigenze cautelari)1. Com’è noto, la scelta legislativa non ha retto al vaglio di legittimità della Corte costituzionale, e probabilmente verrà travolta in ogni sua parte, salvo il caso dell’associazione per delinquere di tipo mafioso2.
Meno contrastate, almeno per il momento, le analoghe opzioni compiute con riguardo alle norme di ordinamento penitenziario, anch’esse interessate da manipolazioni volte a limitare la discrezionalità giudiziale circa l’accesso dei condannati ai benefici penitenziari ed a forme alternative di esecuzione delle pene3.
Quanto al diritto penale sostanziale, il culmine della tendenza si è certamente registrato con la l. 5.12.2005, n. 251, che ha introdotto una serie di ostacoli, nel trattamento sanzionatorio dei recidivi, alla piena esplicazione dei meccanismi di determinazione discrezionale della pena da parte del giudice. Per qualche tempo la costruzione ha retto, sia pure attraverso una logica paradossale di disattivazione delle preclusioni imposte dal legislatore, attraverso l’assunto per il quale gli effetti cd. “indiretti” della recidiva operano solo in caso di concreta “applicazione” della circostanza4. L’edificio, tuttavia, mostra delle crepe di tutto rilievo, e già due sentenze della Consulta, una delle quali assai recente, hanno stabilito l’illegittimità degli automatismi imposti dal legislatore.
Più in generale, una pressione crescente contro le norme di elevata compressione dei margini di discrezionalità giudiziale si riscontra su diversi versanti.
L'azione erosiva contro la logica di automatismo nella disciplina delle sanzioni penali si è manifestata di recente, non senza contraddizioni, in alcuni particolari settori, che conviene analizzare partitamente.
2.1 Automatismi e preclusioni nella disciplina della recidiva
Qualche cenno è ancor oggi opportuno, in primo luogo, alla decisione con cui la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 62 bis, co. 2, c.p., nella versione introdotta con l’art. 1 della citata l. n. 251/2005, «nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato»5.
In sostanza la norma censurata aveva introdotto il divieto per il giudice di riconoscere attenuanti generiche in favore del recidivo reiterato dichiarato colpevole di un grave delitto6, quando detto riconoscimento si fondasse su considerazioni concernenti l’intensità del dolo o la capacità a delinquere del reo (art. 133, co. 1, n. 3, e co 2, c.p.), anche in relazione alla «condotta contemporanea o susseguente al reato». In pratica: un divieto di apprezzamento del buon comportamento processuale eventualmente tenuto dal recidivo reiterato. Per quanto limitato ai casi di applicazione “obbligatoria” della recidiva7, si trattava di un automatismo dalla forte incidenza, in quanto riferito al più versatile tra gli strumenti a disposizione del giudice per adeguare il trattamento sanzionatorio alle circostanze del caso concreto, e per ovviare agli squilibri persistenti (ed anzi sempre più ampi) che segnano la dosimetria delle pene nel nostro ordinamento.
La ratio della norma si fondava su un doppio ragionamento presuntivo, cioè che i recidivi reiterati esprimono sempre una pericolosità elevata, tanto da non risultare mai credibilmente ridotta alla luce dei fattori attenuanti “oscurati” dal legislatore. È noto però che le presunzioni assolute risultano compatibili coi principi di uguaglianza e ragionevolezza solo quando fondate su una regola di esperienza verificabile (almeno e quasi) nella totalità dei casi. La Consulta ha facilmente rilevato come non corrisponda all’id quod plerumque accidit che il reo gravato da determinati precedenti (magari non gravi e assai risalenti nel tempo) sia immancabilmente portatore di una capacità delinquenziale tale da rendere insignificante il comportamento successivo al reato. È agevole immaginare situazioni concrete in cui lo scarto dal modello presuntivo sia tale da rendere irragionevole la parificazione nel trattamento di maggior rigore. È significativo che sia stata ritenuta la violazione non solo dell’art. 3 Cost., ma anche del co. 3 del successivo art. 27: il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena non opera soltanto con riguardo alla fase esecutiva, ma deve permeare le scelte legislative già nella fase della determinazione edittale della risposta sanzionatoria.
Insomma, un primo caso accertato di irragionevolezza degli effetti “indiretti” della recidiva, particolarmente significativo perché riferibile alla dimensione, comunque omogenea, della disciplina del trattamento sanzionatorio. Ed è rimarchevole che, in epoca ancor più recente, se ne sia registrato già un altro: illegittimo (ancora in rapporto agli art. 3 e 27, co. 3, Cost.) anche il quarto comma dell’art. 69 c.p. (come sostituito dall’art. 3 della l. n. 251/2005), nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, co. 5, del d.P.R. 9.10.1990, n. 309 (fatto di lieve entità in materia di stupefacenti) sull’aggravante della recidiva reiterata8.
Si trattava di un automatismo dagli effetti particolarmente perniciosi, dato l’elevatissimo valore della pena edittale minima in assenza della citata attenuante: una pena che il divieto di subvalenza della recidiva rendeva ineluttabile anche per fatti di minima entità, ancora una volta in base ad una condizione non necessariamente significativa di spiccata capacità criminale (per l’aspecificità dei precedenti fondanti e per l’irrilevanza dell’epoca di relativa commissione).
Facendo leva su di un’accorta motivazione del giudice rimettente, la Corte ha finalmente negato cittadinanza all’espediente per il quale un irragionevole effetto indiretto della recidiva può essere evitato, quando non ricorrano i casi di cui al co. 5 dell’art. 99 c.p., non applicando il connesso aumento di pena: una cosa è il giudizio sull’incidenza dei precedenti riguardo ai profili soggettivi del fatto delittuoso (in base alla quale va condotta la valutazione discrezionale sulla recidiva), ed altra cosa è il giudizio di comparazione tra la circostanza aggravante, una volta “applicata”, e le attenuanti eventualmente concorrenti. Un effetto irragionevole va rimosso anche quando il giudice, facendo un uso inappropriato dei propri poteri, potrebbe escluderlo rimuovendone la causa.
Ciò premesso, ed al fine di sottolineare adeguatamente anche i limiti di portata “espansiva” della decisione, va dato rilievo all’importanza determinante conferita, nella specie, all’enormità delle implicazioni dell’automatismo sul piano sanzionatorio. La Corte non ha negato, in realtà, che possano essere introdotti limiti al bilanciamento delle circostanze, e che questi limiti possano attenere anche alla recidiva. Occorre però che le conseguenze della preclusione non risultino manifestamente irragionevoli sul piano della proporzionalità e del diritto alla parità di trattamento. In questo senso, la decisione si inserisce più nel nuovo filone delle sentenze concernenti il sindacato sull’entità delle pene (infra) che nella sequenza dei colpi recati alle presunzioni assolute non sorrette da ragionevolezza9.
Particolare interesse rivestono, in questa prospettiva, alcuni rilievi che segnano la motivazione, specie in un’epoca nella quale trovano qualche ascolto, presso i legislatori, pulsioni mai del tutto sopite per un diritto penale “d’autore”. La recidiva reiterata è significativa sul piano della colpevolezza e della pericolosità, cioè riguardo a profili essenziali del fatto criminoso, che non possono assumere un ruolo dominante, però, rispetto all’elemento oggettivo del reato, ed in particolare con riferimento all’offesa. Un meccanismo capace di moltiplicare per sei il trattamento sanzionatorio minimo, ben oltre le percentuali di incremento tipiche della stessa recidiva, restando del tutto indifferente ai profili materiali del fatto, elimina ogni possibilità di seria individualizzazione della pena, di proporzionalità della risposta punitiva, di misurata sua differenziazione rispetto all’identico fatto commesso dal non recidivo.
Non mancheranno certamente, nel prossimo futuro, tentativi di provocare un giudizio della Consulta sugli aspetti residui (e quantitativamente preponderanti) delle norme preclusive già intaccate. Fino a raggiungere forse, un giorno, il cuore del problema: se si legittimino, alla luce del nostro ordinamento costituzionale, casi di applicazione obbligatoria della recidiva, dai quali oltretutto far discendere effetti automatici diversi dall’aggravamento della pena, finanche per la fase esecutiva.
2.2 Pene “fisse” e previsioni edittali di ampiezza inadeguata
L’espressione più eclatante della logica di automatismo nella determinazione dei trattamenti sanzionatori è quella delle “pene fisse”: sanzioni non modulabili per quantità, in assoluto o per il rapporto istituito, mediante quote predeterminate, con un profilo quantitativo del fatto (come nel caso del contrabbando di tabacchi esteri, punito con una multa calcolata in base al peso del materiale sottratto al pagamento dei diritti).
È acquisita da lungo tempo, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione “teorica” della incompatibilità tra pene fisse e “volto costituzionale” dell’illecito penale10. La necessaria finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, co. 3, Cost.) deve attuarsi non solo riguardo alle modalità esecutive, ma anche mediante una fine corrispondenza tra il fatto e la misura della sanzione irrogata, dalla quale soltanto può scaturire una percezione sociale ed individuale, in termini di “giustizia”, della punizione applicata. In tal modo, la responsabilità penale diviene effettivamente personale, cioè la pena corrisponde alla colpa, al grado di rimproverabilità dell’agente (art. 27, co. 1, Cost.), e trova reale applicazione il principio di uguaglianza, che esige il trattamento differenziato di fattispecie non ragionevolmente assimilabili in termini di offesa e riguardo ai profili soggettivi11.
Va aggiunto che l’efficacia dell’enunciato è stata temperata, fino ad oggi, dall’assunto per il quale, al fine di stabilire se davvero la legge impedisca un’adeguata modulazione della pena, occorre non fermare l’esame alla previsione edittale, estendendolo piuttosto all’incidenza di ogni possibile fattore di computo a disposizione del giudice: ad esempio, alle circostanze del reato, e quindi alle attenuanti generiche, cioè ad uno strumento particolarmente “duttile” quanto ai presupposti per l’applicazione12. Correttivi del genere non ricorrono, però, riguardo ad interi settori del sistema punitivo, che infatti vivono una crisi di attendibilità sul piano della compatibilità costituzionale: è il caso, ad esempio, delle pene accessorie, sul quale si tornerà partitamente tra breve.
All’estremo opposto, ma nella stessa dimensione problematica, si collocano le ipotesi di eccessiva ampiezza della previsione edittale di pena, tale da dilatare il ruolo della discrezionalità giudiziale, fino a disperdere la funzione regolatrice della legge. Il principio di legalità richiede che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della sanzione comminata non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., e che la relativa ampiezza risulti correlata alla variabilità delle fattispecie concrete rapportabili alla previsione astratta. Altrimenti – ha osservato la Consulta – «la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario»13.
Resta da stabilire, a questo punto, se sia sufficiente che la legge, anche per effetto di previsioni circostanziali, consegni al giudice un qualche potere di variazione del trattamento edittale, contenuto dall’osservanza del principio di legalità. La risposta è stata per lungo tempo affermativa, perfettamente armonica con l’insegnamento tralaticio per il quale le scelte di sanzionamento penale sono eminentemente politiche, e quindi rimesse alla discrezionalità del legislatore. Dunque, purché attuato, il bilanciamento normativo tra determinatezza e variabilità sarebbe sempre insindacabile.
Ricorre però, anche nella materia in esame, il limite della manifesta irragionevolezza, ed in questa prospettiva può guardarsi ai casi di “forbice edittale” troppo stretta: casi nei quali – in opposizione a quanto si riscontra per le previsioni sostanzialmente indeterminate – la variabilità della pena in concreto non corrisponde, per difetto, alla eterogeneità delle condotte riconducibili alla previsione incriminatrice (per grado del dolo, gravità della lesione, ecc.).
Si ripropongono le tematiche caratteristiche del dibattito sulle pene fisse. E si ripropongono, naturalmente, le difficoltà tipiche degli interventi sugli automatismi sanzionatori: si tratta di sostituire una valutazione discrezionale della Corte, per quanto razionale, a quella che, razionalmente, avrebbe dovuto compiere il legislatore.
Com’è risaputo14, al momento l’unico varco aperto dalla giurisprudenza costituzionale si regge sull’applicazione del principio di uguaglianza formale, e quindi sulla individuazione di fattispecie con diverso trattamento sanzionatorio15, le cui analogie con quella presa in considerazione siano tali da consentire una “equiparazione” guidata, almeno sul piano formale, da “rime obbligate”. Non si è sottratta a questa logica neppure la recente decisione additiva che la Corte costituzionale ha assunto riguardo all’art. 630 c.p., introducendo per il sequestro di persona a scopo di estorsione una attenuante riguardo ai fatti di «lieve entità» sulla base, appunto, di un giudizio comparativo condotto in riferimento al regime sanzionatorio per il delitto di cui all’art. 289 bis c.p.16. È vero che nel caso di specie è stata riconosciuta anche una violazione concorrente del principio di proporzionalità, ancorato secondo tradizione alla regola di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. Resta da chiedersi però se (e con quali esiti) la Corte avrebbe potuto rilevare il difetto di proporzionalità anche in assenza di una violazione del principio di uguaglianza formale.
Si affrontano insomma due spinte formidabili, nell’odierno dibattito sugli automatismi sanzionatori: quella che opera nella direzione di un sostanziale superamento, in nome dell’uguaglianza e della proporzionalità, e quella della legalità, che esige siano rimesse all’istanza politico-rappresentativa le opzioni circa i limiti entro i quali deve essere contenuta la discrezionalità giudiziale. Finora la seconda ha quasi neutralizzato la prima, sebbene non manchino, anche nella giurisprudenza costituzionale, vivaci segnali di insofferenza per l’inanità del legislatore.
3.1 Il sistema delle pene accessorie
Qualche risultato, in materia di pene accessorie, si è ottenuto, non casualmente, a proposito dell’an e non del quantum della misura punitiva, e sulla base di condizioni così particolari da escludere un effetto generale d’impulso verso forme più accentuate di discrezionalità giudiziale.
Si allude qui alle due pronunce intervenute riguardo alla perdita della potestà genitoriale, prevista dall’art. 569 c.p. quale automatica conseguenza della condanna per uno dei delitti contro lo stato di famiglia (artt. 566-568 c.p.). La Corte ha ragionato soprattutto sulla peculiare implicazione della pena in discorso, che produce effetti diretti anche nei confronti di un soggetto estraneo al reato, e soprattutto portatore di un diritto rafforzato alla protezione. La potestà genitoriale è oggi una funzione di servizio in favore del minore, più che una prerogativa dell’adulto, e dunque lo strumento per una tutela che, anche alla luce di numerosi parametri sovranazionali, va considerata preminente. Per tale ragione è costituzionalmente imposta una verifica della corrispondenza, in ciascun caso concreto, tra interesse del minore e soluzione del suo rapporto con il genitore. Esattamente quel che è precluso dall’automatismo della pena accessoria in questione.
La Corte ha ripreso, pur con molta sintesi, la già ricordata giurisprudenza circa l’illegittimità di norme fondate su presunzioni non superabili, quando la “legge di copertura” che dovrebbe reggere la presunzione si rivela non sufficientemente affidabile. Non è detto affatto che, per quanto il genitore abbia commesso un reato che coinvolge il figlio, corrisponda all’interesse di questi che la potestà sia trasferita ad altri. E dunque l’automatismo sanzionatorio è costituzionalmente intollerabile. In questa logica è stata ritenuta l’illegittimità dell’art. 569 c.p., dapprima nella parte in cui collegava ineluttabilmente la pena accessoria alla condanna per alterazione di stato17, e poi nella parte pertinente al delitto di soppressione di stato18.
È significativo, del resto, che analoghi attacchi mossi riguardo a pene accessorie diverse da quella concernente la potestà genitoriale siano per ora falliti. È il caso, in particolare, dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni, che conseguono alla condanna per i fatti di bancarotta previsti dall’art. 216 della legge fallimentare. Si tratta di sanzioni “fisse” nella loro durata, che dunque cumulano un automatismo nell’applicazione ad un altro in punto di quantità. Proprio sotto questo profilo, ed in esplicito collegamento con la tematica delle pene fisse, la relativa previsione è stata ripetutamente soggetta a questioni di legittimità costituzionale. Ma l’esito, non imprevedibile, è stato quello della inammissibilità: la Corte – nonostante i tentativi dei rimettenti di ancorare a specifici parametri normativi un possibile criterio regolatore della discrezionalità nella quantificazione della durata – si è arresa di fronte al palese esercizio di discrezionalità politica che avrebbe posto in essere nell’adottare la manipolazione prospettata19.
Non è un caso tuttavia – ed in questo senso si alludeva a significative manifestazioni di crescente insofferenza – che sia stato rivolto un nuovo ed esplicito monito al legislatore affinché «ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma»20.
3.2 Le misure di sicurezza
Il problema degli automatismi nel sistema delle misure di sicurezza si è posto già in epoca risalente, tanto che la Corte costituzionale ha svolto un’opera di smantellamento, com’è noto, sia riguardo alle presunzioni assolute di pericolosità che condizionavano l’applicazione delle misure, sia riguardo alle rationes, di analoga matrice presuntiva, che sostenevano la disciplina dell’esecuzione e della durata dei provvedimenti in discorso.
V’è però un elemento di novità, dato dalla “mutazione genetica” delle misure a carattere patrimoniale, la cui disciplina, e la cui sussunzione nell’area di tutela assicurata dalle norme costituzionali e sovranazionali in materia di “misure punitive”, pongono ormai problemi di ragionevolezza e proporzionalità analoghi, appunto, a quelli che segnano le pene principali ed accessorie conseguenti ad una sentenza penale di condanna.
L’esempio, concreto ed attuale, di una tendenza che sembra destinata ad inevitabile espansione, è dato dalle questioni di legittimità costituzionale poste riguardo ad una ipotesi di confisca di valore, quella pertinente ai mezzi finanziari utilizzati per compiere (tra l’altro) il reato di insider trading (art. 187 sexies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58). Il giudice rimettente aveva posto in luce l’afflittività esorbitante della misura in un contesto nel quale è normale vengano impiegate grandi somme per conseguire illecitamente un profitto che, per quanto eventualmente cospicuo, rappresenta pur sempre una porzione molto ridotta del capitale investito. Un problema aggravato dalla previsione della confisca per equivalente, come tale chiamata ad operare quand’anche i mezzi finanziari utilizzati per l’illecito siano andati persi proprio a causa dell’operazione illegale. Un problema che la Corte costituzionale ha definito «in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore». E tuttavia la Corte stessa ha optato per la dichiarazione di inammissibilità21.
L’intervento prospettato dal rimettente, in effetti, sollecitava un doppio ed arbitrario esercizio di discrezionalità. Il primo, maggiormente in evidenza, attiene alla natura asistematica (e dunque modificativa del sistema) della manipolazione. L’ordinamento conosce sia ipotesi di confisca obbligatoria sia previsioni di confisca facoltativa, ma entrambe si riferiscono all’intero oggetto dell’ablazione (discrezionalità nell’an, mai nel quantum), mentre il giudice a quo, trascinato dalla concezione “sanzionatoria” della misura, chiedeva si introducesse una possibilità di graduazione. E proprio a quest’ultimo proposito si radica la seconda e pur stringata obiezione della Corte: se un valore massimo avrebbe potuto forse individuarsi nella corrispondenza tra somma confiscata e somma impiegata per l’insider trading, certamente nessun parametro avrebbe potuto essere fissato, senza un sostanziale sconfinamento nel proprium della legislazione, quanto ad un valore minimo.
Ancora una volta lo stesso problema: gli automatismi sanzionatori sono talvolta superabili trasformando il provvedimento punitivo da facoltativo ad obbligatorio; ben più difficoltoso, fino a scontrarsi con un muro invalicabile, è il recupero della discrezionalità giudiziale riguardo ai profili qualitativi e quantitativi di misure concepite dal legislatore con margini nulli o insufficienti di graduabilità.
1 Art. 2, co. 1, del d.l. 23.2. 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.4.2009, n. 38.
2 Com’è noto la Corte costituzionale, fin dal primo provvedimento della serie delle dichiarazioni di illegittimità parziale della disciplina (sent. 21.7.2010, n. 275), ha trasformato la presunzione di pericolosità costruita sull’oggetto dell’imputazione cautelare da assoluta a relativa, prevedendo la possibilità che siano adottate cautele diverse dalla custodia in carcere quando ne risulti positivamente evidente l’adeguatezza. Per la decisione allo stato più recente si veda C. cost., 23.7.2013, n. 232. Per la riflessione sulla “tenuta” dell’automatismo quanto ai reati di contesto mafioso, si veda C. cost., 29.3.2013, n. 57.
3 In realtà può definirsi costante l’orientamento della Corte, nella materia dei benefici penitenziari, ad escludere rigidi automatismi ed a privilegiare, invece, una valutazione individualizzata, così da collegare la concessione o non del beneficio ad una prognosi ragionevole circa il successo dell’azione rieducativa (tra le molte, C. cost., 28.5.2010, n. 189 e C. cost., 4.7.2006, n. 255, isolato caso – quest’ultima – di decisione caducatoria per un automatismo favorevole al detenuto). Nondimeno, i numerosi attacchi portati all’art. 4 bis della l. 26.7.1975, n. 354, ed alle norme che fondano preclusioni sul catalogo inserito nella disposizione, hanno avuto successo solo occasionale. Nella materia si è registrata anzi l’unica decisione che, pur all’esito di una operazione interpretativa volta a restringere fortemente la base applicativa della preclusione, ha negato l’illegittimità di un divieto di accesso ai benefici fondato sulla condizione di recidiva reiterata del condannato (C. cost., 4.10.2010, n. 291, il cui dispositivo, comunque, è nel senso della inammissibilità della questione).
4 L’assunto, emerso ripetutamente nelle decisioni della Consulta, è stato recepito appieno dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., S.U., 27.5.2010, n. 35738, in Cass. pen., 2011, 2094, con nota di F. Rocchi, Il patteggiamento dei recidivi reiterati: un problema di "discrezionalità bifasica" o di politica legislativa?
5 C. cost., 10.6.2012, n. 183, sulla quale, tra gli altri, Gatta, G.L., Attenuanti generiche al recidivo reiterato: cade (in parte) un irragionevole divieto, in Giur. cost., 2011, 2374; Leo, G., Un primo caso accertato di irragionevolezza nella disciplina degli effetti «indiretti" della recidiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1785.
6 Delitti cioè ricompresi nella previsione dell’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. e puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni.
7 In tal senso, tra l’altro, la stessa Corte costituzionale, proprio con la sentenza n. 183/2012.
8 C. cost., 15.11.2012, n. 251, sulla quale, tra gli altri, Bernasconi, C., Giudizio di bilanciamento, circostanze c.d. privilegiate e principio di proporzione: il caso della recidiva reiterata, in Giur. cost., 2012, 4057; Notaro, D., La fine ingloriosa, ma inevitabile, di una manifesta irragionevolezza: la Consulta "lima" il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, in Cass. pen., 2013, 1755.
9 Non a caso, nella motivazione del provvedimento, è citata più volte la sentenza n. 68/2012, di cui si dirà tra breve.
10 Per una prima e chiara enunciazione del principio si veda C. cost., 2.4.1980, n. 50.
11 Il principio, consacrato in termini espressi da C. cost., 2.7.1990, n. 313, è stato ripreso da ultimo, come in parte si è visto, nelle sentenze n. 183/2011 e n. 251/2012.
12 In tal senso, nella sostanza, la già citata sentenza n. 50/1980. In altri casi è stata valorizzata la previsione di pene variabili concorrenti con quella fissa (C. cost., 8.11.1982, n. 188; C. cost., 22.11.2002, n. 475), oppure la natura variabile del risultato di aumenti in percentuale fissa applicati su valori fissati discrezionalmente (C. cost., 4.4.2008, n. 91, a proposito della quota “fissa” di aumento stabilita per alcune ipotesi di recidiva).
13 C. cost., 24.6.1992, n. 299. Si veda anche la già citata sentenza n. 183/2012.
14 Tra le sintesi più recenti ed efficaci sul tema, si veda Manes, V., Scelte sanzionatorie e sindacato di legittimità, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 104.
15 Trattamento più lieve, ché altrimenti opera il tradizionale principio del divieto di decisioni che comportino effetti in malam partem nella materia penale.
16 C. cost., 23.3.2012, n. 68, sulla quale, tra gli altri, Rossi, S., Il principio di ragionevolezza, in relazione al quadro sanzionatorio, nel sindacato di legittimità costituzionale: rinnovati spunti in chiave comparatistica, in Indice pen., 2012, 483; Seminara, S., Il sequestro di persona a scopo di estorsione tra paradigma normativo, cornice di pena e lieve entità del fatto, in Cass. pen., 2012, 2393; Sotis, C., Estesa al sequestro di persona a scopo di estorsione una diminuzione di pena per i fatti di lieve entità. Il diritto vivente "preso-troppo?-sul serio", in Giur. cost., 2012, 906.
17 C. cost., 23.2.2012, n. 31, sulla quale, tra gli altri, Mantovani, M., La Corte costituzionale fra soluzioni condivise e percorsi ermeneutici eterodossi: il caso della pronuncia sull’art. 569 c.p., in Giur. cost., 2012, 377; Tesauro, A., Corte costituzionale, automatismi legislativi e bilanciamento in concreto: "giocando con le regole" a proposito di una recente sentenza in tema di perdita della potestà genitoriale e delitto di alterazione di stato, ivi, 2012, 4909.
18 C. cost., 27.1.2013, n. 7, sulla quale, tra gli altri, Larizza, S., Interesse del minore e decadenza dalla potestà dei genitori, in Dir. pen. e processo, 2013, 554; Manes, V., La Corte costituzionale ribadisce l’irragionevolezza dell’art. 569 c.p. ed aggiorna la "dottrina" del "parametro interposto" (art. 117, comma primo, Cost.), in Dir. pen. contemp., 2013, 1, 299.
19 C. cost., 31.5.2012, n. 134, sulla quale, tra gli altri, Manes, V., L’intervento richiesto eccede i poteri della Consulta e implica scelte discrezionali riservate al legislatore, in Guida dir., 2012, 27, 68. La presa di posizione è stata integralmente ribadita da C. cost., 24.7.2012, n. 208.
20 Monito già più volte inutilmente espresso: da ultimo, C. cost., 18.7.2008, n. 293.
21 C. cost., 15.11.2012, n. 252, sulla quale, tra gli altri, Santonastaso, F.E., Abusi di mercato e confisca obbligatoria degli "strumenti finanziari movimentati", in Giur. cost., 2012, 4072.