autonomia/eteronomia
Coppia di termini, dei quali il primo (dal gr. αὐτός «stesso», e νόμος «legge») indica la capacità di un soggetto (individuale o collettivo) di dare a sé stesso le leggi che ne regolano il comportamento, mentre il secondo (dal gr. ἕτερος «diverso») indica la circostanza contraria, ossia il fatto di ricevere le leggi dall’esterno, da qualcun altro. Per Rousseau l’a. coincide con la libertà (➔), giacché si è veramente liberi, secondo il pensatore ginevrino, soltanto quando si obbedisce alla legge che ci si è dati. Questo concetto di libertà, che informava di sé la morale stoica e che è assimilabile alla nozione di «padronanza di sé stessi» (l’uomo è libero quando è padrone di sé stesso, ossia quando segue la sua ragione e non è schiavo delle passioni), viene applicato da Rousseau alla sfera politica. Nella democrazia teorizzata dal pensatore ginevrino il popolo è sovrano e suddito al tempo stesso: è sovrano perché prende parte, direttamente e collettivamente, all’assemblea incaricata di fare le leggi, ed è suddito perché obbedisce a quelle stesse leggi. Obbedendo alla propria volontà il popolo è libero: la volontà, dice infatti Rousseau, o è propria o non è. Di qui la critica al sistema rappresentativo, dove si riproduce la distinzione tra governanti e governati: in un sistema siffatto i governati, secondo Rousseau, non obbediscono alla propria volontà, ma a quella dei deputati, e quindi non sono liberi. Non sono autonomi, ma – come avrebbe detto Kant di lì a poco – sono eteronomi. La coppia concettuale a./e. entra infatti nel linguaggio filosofico grazie a Kant, che influenzato dal pensiero di Rousseau ne riprende il concetto di a. e ne fa il fondamento della morale. «L’a. della volontà – scrive Kant nella Critica della ragion pratica (➔) (1788, I, § 8) – è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono: invece ogni e. del libero arbitrio, non solo non è la base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà». La moralità consiste nella capacità della volontà, che è libera, di seguire la legge dettata dalla ragione (intesa come facoltà dell’incondizionato, dell’assoluto), sottraendosi ai condizionamenti della legge naturale (la sfera sensibile, con i suoi impulsi, i suoi interessi, le sue passioni) o a quelli di una legge di tipo superiore ma esterna (la legge divina). Nel primo caso la volontà sarebbe mossa dalla ricerca di un vantaggio, nel secondo dal timore di una pena: in entrambe le circostanze sarebbe dunque eteronoma e non autonoma. Ma l’azione è morale soltanto quando, lottando contro l’inclinazione al proprio vantaggio, obbedisce a quella legge universale che la ragione indica a ciascuno in modo assoluto e perentorio e che ogni uomo, nel suo intimo, conosce da sempre.