Abstract
Il delitto di autoriciclaggio è stato fin dalla sua introduzione – e, a ben vedere, anche nel dibattito che l’ha preceduta – oggetto di letture critiche e fonte di significativi dubbi interpretativi; il contributo, nell’ambito di una rapida descrizione della struttura dell’illecito, passa in rassegna le principali questioni ermeneutiche, anche alla luce della (poca) giurisprudenza e della (molta) letteratura sul tema.
I delitti di ‘riciclaggio’ e di ‘impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita’ sono da anni bersaglio di censure in ragione della loro ineffettività, dettata, anzitutto, dalla rispondenza a logiche ormai superate. Entrambe le incriminazioni sono sorte – seppur in epoche diverse – con l’obiettivo di fungere da strumenti di contrasto a fenomeni criminali specifici (sequestri di persona, narcotraffico, ecc.), rispetto ai quali assumevano il ruolo di reati ostacolo nonché di potenziale surrogato punitivo laddove i delitti principali non fossero risultati accertabili. Di qui, anzitutto, l’applicabilità delle fattispecie esclusivamente fuori dei casi di concorso nel reato produttivo dei proventi illeciti.
Già da parecchi anni è andata però maturando una spiccata sensibilità rispetto ai pregiudizi autonomamente connessi alla gestione di capitali illeciti e, in particolare, all’infiltrazione degli stessi nei circuiti dell’economia regolare. Si è dunque iniziato a guardare con sfavore al “privilegio di autoriciclaggio”, non più giustificabile solo in forza della punizione del reato presupposto; inoltre, il progressivo ampliamento dei reati presupposto aveva reso assai problematico giustificare la paralisi dei reati di riciclaggio e impiego a fronte di reati puniti in maniera assai più blanda. Breve: vi erano numerose ragioni a sostegno di un ripensamento della tradizionale non punibilità dell’autoriciclaggio.
Tradurre in pratica una simile istanza non era, tuttavia, cosa da poco: come evidenziato in dottrina e ribadito da alcune delle Commissioni ministeriali investite della questione, l’incriminazione di condotte autoriciclatorie necessitava particolare accuratezza nella perimetrazione del fatto tipico, al fine di evitare possibili frizioni con i principi del ne bis in idem (è intuibile che la punizione di comportamenti di sfruttamento delle risorse illecite originate da un precedente reato rischi di ridursi a una doppia sanzione per il reato presupposto) e del nemo tenetur se detegere (laddove l’azione sia funzionale esclusivamente a evitare la punizione per il reato precedentemente commesso). E proprio tali difficoltà avevano fino al 2014 indotto a soprassedere sul punto.
L’impasse si è sbloccata per effetto di un rinnovato interesse della classe politica al tema, rapidamente assurto a punto centrale dell’agenda governativa quale irrinunciabile strumento di contrasto alla criminalità organizzata. Così, anche sulla scorta di un richiamo a (per vero, inesistenti) obblighi internazionali, la l. 1.12.2014, n. 186 – nel contesto della disciplina della cd. Voluntary disclosure – ha introdotto l’art. 648-ter.1 nel codice penale, rubricato, appunto, autoriciclaggio, che sanziona «chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
La neonata fattispecie ha palesato fin da subito criticità ermeneutiche di non facile soluzione e tratti di rilevante fragilità, sia sul versante della coesistenza con i già citati principi del ne bis in idem e del nemo tenetur se detegere sia delle relazioni con i reati “tradizionali” di riciclaggio e impiego. La scelta di demandare la punibilità dell’autoriciclaggio a una fattispecie autonoma di reato e non a un ampliamento delle fattispecie madri costituisce, d’altronde, un unicum nel panorama internazionale. Le questioni aperte sono, dunque, numerose: esigenze di sintesi connaturate allo spirito del presente lavoro inducono a soffermarsi solo sulle più significative.
Il delitto di autoriciclaggio può essere realizzato da chiunque abbia «commesso o concorso a commettere un delitto non colposo». La quasi totalità della dottrina legge tale inciso come funzionale a limitare la soggettività attiva dell’illecito, delineando, così, un reato proprio. Il legislatore sembrerebbe aver in tal modo collegato al peculiare status del soggetto una disciplina di favore rispetto al terzo (chiamato a rispondere dei più gravi reati di riciclaggio e impiego), assumendo verosimilmente che l’aver partecipato alla commissione del reato produttivo dei fondi renda meno grave – rectius, meno biasimevole – l’impiego dei relativi proventi in attività economiche. In dottrina non è mancata, tuttavia, un’autorevole voce dissonante: si è sostenuto, così, che non si sarebbe al cospetto di un reato proprio e che l’inciso relativo alla partecipazione al reato base svolgerebbe la funzione di (più o meno implicita) clausola di smistamento delle responsabilità tra riciclaggio/impiego e autoriciclaggio (così De Francesco, G., Riciclaggio ed autoriciclaggio: dai rapporti tra le fattispecie ai problemi di concorso nel reato, in Dir. pen. proc., 2017, 944 ss.).
Per altro verso, tra i commentatori che sostengono la natura di reato proprio dell’illecito in esame, taluni autorevoli studiosi (Mucciarelli, F., La struttura del delitto di autoriciclaggio. Appunti per l’esegesi della fattispecie, in Mezzetti, E.-Piva, D., Punire l’autoriciclaggio, Torino, 2016, 3 ss.; Piergallini, C., Autoriciclaggio, concorso di persone e responsabilità dell’ente: un groviglio di problematica ricomposizione, in Mantovani, M.-Curi, F.-Tordini Cagli, S.-Torre, V.-Caianiello, M., a cura di, Scritti in onore di Luigi Stortoni, Bologna, 2016, 739 ss.) hanno suggerito che il legame tra autore e illecito sia talmente stretto, e carico di significato, da configurare un reato di mano propria e, cioè, uno di quei reati per i quali è sempre necessario che l’azione tipica sia eseguita personalmente dal soggetto qualificato: ne deriva che nel caso di realizzazione plurisoggettiva del fatto, il terzo non possa mai sostituirsi all’autore del reato presupposto nel compimento della condotta incriminata (i.e. nell’impiego delle utilità in attività economiche). Una simile lettura presenta l’inconveniente di espungere dall’incriminazione la fenomenologia di laundering più rilevante: i casi, cioè, nei quali l’autore del reato fonte affidi a terzi la gestione dei proventi illeciti affinché vengano reindirizzati nei circuiti dell’economia legale; inoltre, la categoria dei reati di mano propria presuppone tendenzialmente l’irrilevanza penale del comportamento del soggetto sfornito della qualifica: in questi casi il terzo risponde, invece, di uno dei più gravi reati di riciclaggio o impiego. Sembra, dunque, preferibile concludere di essere in presenza di un reato proprio “comune”. Ne consegue una piena possibilità di concorso da parte del terzo, anche mediante l’esecuzione della condotta tipica.
Oggetto d’incriminazione sono tre diverse condotte: impiego, sostituzione o trasferimento di proventi delittuosi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Sembra corretto assegnare un ruolo centrale all’impiego: si tratta di un concetto di genere idoneo a contenere, quali possibili specificazioni, tanto la ‘sostituzione’ quanto il ‘trasferimento’. Si punisce, dunque, qualsiasi utilizzo dei proventi nel contesto di una delle attività nominate. Anche per esse è possibile operare uno sfrondamento: si nota, infatti, una certa ridondanza nell’elencazione delle quattro diverse attività, animata, verosimilmente, dall’intento di prevenire ogni possibile incertezza circa le condotte rilevanti. In particolare, le attività imprenditoriali sembrano riconducibili al genus delle attività economiche e quelle speculative a quello delle attività finanziarie. Combinando impiego e attività economiche e finanziarie, si comprende che oggetto del divieto sono tutti gli utilizzi dei proventi potenzialmente idonei a generare profitto.
Fin qui sembrerebbe, dunque, che l’attenzione del legislatore si sia appuntata sulla repressione di condotte potenzialmente dannose per l’ordine economico: la creazione di ricchezza mediante l’utilizzo di proventi illeciti costituisce una contaminazione dei mercati regolari e produce significative distorsioni delle ordinarie dinamiche commerciali e finanziarie.
Proseguendo nell’esame del tipo criminoso, si è indotti, però, a mutare opinione: la punibilità delle condotte appena esaminate è, infatti, subordinata alla concreta idoneità a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle utilità illecite.
Il reato è, dunque, strutturato secondo il modello del pericolo concreto, con un coefficiente di offensività rivolto essenzialmente verso la tracciabilità dei proventi illeciti. Sembra, allora, che il delitto si ponga sulla stessa linea del ‘riciclaggio’, allontanandosi, così, dall’‘impiego’: per il primo, ciò che conta è appunto l’ostacolo all’individuazione della fonte illecita dei proventi, in altri termini l’interruzione del cd. paper-trail; per il secondo, invece, il mero utilizzo di utilità illecite in attività economiche. Rispetto al riciclaggio la proiezione offensiva è anche più stringente in forza del richiamo alla necessità che un pericolo si sia in effetti verificato, esplicitato mediante l’avverbio «concretamente». Con esso sembra proprio che il legislatore abbia inteso prevenire uno svuotamento in action dell’estremo del pericolo concreto, simile a quello registrato in tema di riciclaggio (D’Alessandro, F., Il delitto di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), ovvero degli enigmi legislativi riservati ai solutori «più che abili», in Baccari, G.M.-La Regina, K.-Mancuso, E. M., a cura di, Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015, 3 ss.). E le prime applicazioni giurisprudenziali sembrano proprio confermare un’attenzione all’offensività in concreto delle condotte assai maggiore rispetto a quella tradizionalmente mostrata in materia di riciclaggio (Cass. pen., 28.7.2017, n. 33074, con nota di Gullo, A., Il delitto di autoriciclaggio al banco di prova della prassi: i primi (rassicuranti) chiarimenti della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2017, 482 ss.).
Siffatta caratterizzazione dell’illecito induce, allora, a ritenere che l’orizzonte di tutela sia rivolto a interessi legati alla corretta amministrazione della giustizia, prim’ancora che a beni di natura economica. L’impiego di risorse illecite non è punito in quanto tale e, cioè, come fenomeno di per sé meritevole di sanzione perché nocivo per la tenuta dei sistemi economico-finanziari, bensì come forma di movimentazione della ricchezza illecita idonea a camuffarne la genesi. Ciò posto, pare corretto ritenere che l’autoriciclaggio sia stato strutturato come reato contro l’amministrazione della giustizia, pur potenzialmente idoneo a pregiudicare anche interessi economici (Seminara, S., Spunti interpretativi sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. proc., 2016, 1631 ss.).
Le condotte sopra esaminate devono avere a oggetto denaro, beni o altre utilità provenienti da un delitto non colposo. Ritorna, dunque, la formula già in uso nel delitto di riciclaggio (nel delitto di impiego non è, invece, richiesto che si tratti di delitto non colposo). In linea con l’interpretazione comune in relazione all’art. 648-bis c.p., sembra corretto assegnare al concetto di utilità la funzione di clausola generale, idonea a ricomprendere al suo interno il denaro, i beni nonché ogni altra entità suscettibile di valutazione economica.
Pone maggiori problemi interpretativi l’inciso relativo alla provenienza da delitto: sul punto si ripropongono alcune questioni note al dibattito in materia di riciclaggio.
Anzitutto, viene in esame il tema dei risparmi di spesa e, cioè, di utilità indebitamente trattenute nel patrimonio del reo per effetto della condotta delittuosa, anche se materialmente originate da attività diverse. La questione assume rilevante importanza soprattutto nell’ambito dei reati tributari, il cui principale profitto è rappresentato appunto da un illecito risparmio d’imposta. Non sembra vi siano ragioni – o per lo meno ragioni irresistibili – per negare che i risparmi di spesa possano rientrate nella nozione di utilità provenienti da reato: è dunque preferibile ritenere che i risparmi di spesa ottenuti mediante un’attività delittuosa possano dirsi provenienti dalla stessa. Non sfugge, peraltro, che in relazione ai risparmi di spesa, al pari di tutte le utilità confuse nel patrimonio del reo, si possano riscontrare significativi problemi nell’individuazione delle specifiche utilità rilevanti: si tratta, però, di una questione di fatto, devoluta al giudice del singolo caso.
A favore della piena compatibilità tra reati tributari e oggetto del delitto in esame milita poi la constatazione che l’autoriciclaggio è stato introdotto nell’ambito di un provvedimento normativo di natura tributaria, che gli assegnava il ruolo di spinta per il contribuente ad aderire alla cd. voluntary disclosure, prospettandogli nuovi rischi di responsabilità penale per la gestione dei proventi illecitamente sottratti a tassazione.
Sembra poi corretto ritenere che vi sia spazio anche per ipotesi di autoriciclaggio indiretto, relativo cioè a proventi già oggetto di riciclaggio o di autoriciclaggio, purché le precedenti condotte non abbiano eliminato definitivamente ogni apprezzabile legame con il delitto presupposto; diversamente, non potrebbe essere integrato l’elemento dell’idoneità della condotta a ostacolare l’identificazione delle genesi delittuosa dei beni.
Sempre in relazione alla provenienza da delitto non colposo, si pone il tema del ruolo da assegnare al precedente reato nell’economia della fattispecie in esame e, di riflesso, del contenuto del relativo accertamento in giudizio.
Non vi è dubbio che l’autoriciclaggio, al pari del riciclaggio, sia strutturato come un reato accessorio (seppur di ‘seconda generazione’: Morgante, G., Il reato come elemento del reato, Torino, 2013, 221 ss.), che presuppone per la sua sussistenza la previa realizzazione di un altro reato; quest’ultimo assume i tratti di elemento del reato di autoriciclaggio, chiamato a svolgere una funzione meramente descrittiva, senza, cioè, che il suo specifico disvalore partecipi alla caratterizzazione dell’antigiuridicità del reato seguente. A ben vedere, infatti, ciò che rileva è semplicemente la commissione di un qualsiasi delitto non colposo e la derivazione da esso delle utilità oggetto di laundering. In linea teorica si potrebbe allora anche sostenere la superfluità dell’individuazione dello specifico reato produttivo delle utilità autoriciclate, come avviene per il riciclaggio (facendo, peraltro, attenzione a non annichilire nell’ignoranza del reato presupposto il senso dell’attenuante prevista dall’art. 648-bis, co. 3, c.p.): è, però, evidente che per sapere che l’autore dell’impiego sia stato anche autore del reato presupposto, non solo si debba conoscere quest’ultimo ma anche le dinamiche della relativa realizzazione.
L’elemento soggettivo del delitto di autoriciclaggio non pone significativi temi interpretativi. Il soggetto attivo deve rappresentarsi e volere la commissione di una delle condotte tipiche (i.e. uno degli impieghi rilevanti), essendo a conoscenza tanto della derivazione delle utilità da un reato da lui precedentemente commesso quanto dell’attitudine dell’operazione a ostacolare concretamente l’identificazione della fonte delittuosa dei proventi.
Il tipo criminoso non fornisce alcun elemento decisivo per una restrizione sul versante dell’intensità del dolo: si deve quindi ammettere una potenziale rilevanza anche del dolo eventuale, fermo restando che la morfologia della condotta tipica ne riduce considerevolmente i concreti spazi di operatività. La specifica attitudine della condotta implica che essa mal si presti a particolari incertezze tanto sul fronte della provenienza delittuosa delle utilità quanto proprio sulla relativa efficacia ostacolante, al netto di casi di vero e proprio errore su uno dei due elementi.
In tema di errore, merita specifica considerazione l’ipotesi della mancata rappresentazione della natura delittuosa del fatto produttivo delle utilità impiegate: è infatti possibile che un medesimo errore sul precetto del reato presupposto produca effetti differenti sul reato di base e sul reato successivo. Nel primo caso, è indiscutibile che la mancata conoscenza dell’illiceità della condotta possa trovare respiro solo entro i confini dell’art. 5 c.p.; quel medesimo errore potrebbe, invece, rilevare nell’ambito dell’autoriciclaggio ai sensi dell’art. 47, ult. co., c.p.: verrebbe, infatti, a incidere su una legge penale diversa da quella in applicazione (i.e. su un reato diverso dall’autoriciclaggio). Non sfugge, peraltro, la tradizionale chiusura della giurisprudenza ad ammettere interpretazioni di tal genere, compresse da un’ipervalutazione della categoria delle norme integratrici della fattispecie penale.
La previsione del quarto comma dell’art. 648-ter.1 c.p. costituisce uno dei punti di maggiore oscurità dell’intera disposizione. Essa proclama la non punibilità «fuori dei casi di cui ai commi precedenti» di condotte di mera utilizzazione o godimento personale di utilità illecite. Il terreno sul quale ci si muove è quello della prevenzione della punibilità di comportamenti che si riducono al consumo dei proventi delittuosi ottenuti dal reato presupposto, ponendosi, dunque, come la naturale prosecuzione dell’attività illecita di base.
Si tratta, cioè, di una delle questioni cruciali in materia di autoriciclaggio: una delle tradizionali obiezioni all’introduzione di un delitto di tal genere è proprio il timore di assoggettare a sanzione condotte che si pongano in totale continuità con il reato presupposto. È dunque comprensibile l’attenzione dedicata al tema dal legislatore mediante la previsione in esame.
Risulta, invece, assai problematico individuare la natura e la portata della clausola in commento: l’inciso per il quale essa opera solo fuori dei casi dei commi precedenti ne rende imperscrutabile l’effettivo perimetro applicativo e, dunque, la funzione. Tale limite non consente, infatti, di attribuirle il ruolo di restrizione del tipo, mediante l’espunzione dell’utilizzo e del godimento delle utilità illecite. Se infatti la clausola non è per espressa previsione normativa destinata a interagire con i commi precedenti non può logicamente delimitarne l’estensione. Non sembra corretto assegnarle, dunque, la natura di clausola di delimitazione del tipo. Né, a ben vedere, per la stessa ragione le si può riconoscere una portata definitoria: per come formulata, andrebbe riferita a fatti diversi da quelli che dovrebbe definire. Si è quindi ipotizzato che abbia una funzione ermeneutica, per così dire, indiretta, volendo confermare che l’utilizzo e il godimento dei proventi illeciti già non ricadono nell’incriminazione del primo comma: non si capisce, allora, quale sarebbe il senso dell’indicazione e, in specie, dell’enfatico riferimento alla non punibilità di condotte – in quest’ottica – atipiche e quindi necessariamente non punibili. Si è allora prospettata l’eventualità che la previsione intendesse incidere su reati diversi dall’autoriciclaggio: la tesi, per quanto ingegnosa, appare in qualche misura forzata (D’Alessandro, F., Il delitto di autoriciclaggio, cit., 15 ss.).
In definitiva, per uscire dall’impasse, sembra preferibile superare il dato letterale – che rende la previsione impraticabile, anche a voler ritenere che la formulazione sia frutto di un inemendabile lapsus calami – e cercare di recuperare per via ermeneutica il senso della restrizione, come mera esortazione (priva, cioè, di valenza prescrittiva) all’interprete a non applicare il reato a condotte di mera utilizzazione o godimento delle utilità illecite.
Il reato di autoriciclaggio si accompagna a un fitto sistema di circostanze.
Si inizia con l’attenuante prevista dal comma secondo per i casi di reato presupposto punito con la reclusione nel massimo a cinque anni: la logica è quella di creare un raccordo tra le due sanzioni evitando squilibri eccessivi. Si tratta, però, di una prospettiva che contraddice l’autonomia dell’autoriciclaggio, anche e soprattutto in punto di disvalore, dal reato pregresso e che ripropone una linea di pensiero tipica dei reati accessori di prima generazione (quelli, cioè, che derivano il proprio coefficiente di dannosità sociale dal reato presupposto), nell’ambito dei quali sarebbe, però, scarsamente giustificabile la punizione dell’autoriciclaggio per l’evidente contrasto con il principio del ne bis in idem.
L’operatività dell’attenuante è poi paralizzata, ai sensi del terzo comma, dall’eventuale riconducibilità del reato presupposto a una delle situazioni che legittimano l’applicazione dell’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152 (come convertito dalla l. 12.7.1991, n. 203 e successivamente modificato): ancora una volta un raccordo tra i destini sanzionatori dei due reati poco perspicuo; nel caso di specie, peraltro, nulla vieta che l’aggravante cd. del metodo mafioso possa essere applicabile anche all’autoriciclaggio, finendo per incidere doppiamente sulla pena dello stesso.
Si prevede poi al quinto comma un’aggravante per i casi di realizzazione di condotte autoriciclatorie nell’esercizio di un’attività bancaria, finanziaria o, più in generale, professionale: il senso della disposizione è chiaro e coglie l’effettivo maggior disvalore di transazioni economiche riconducibili al mondo della cd. black finance. Proprio per preservare tale proiezione, è opportuno interpretare il riferimento alle attività professionali come limitato ai professionisti inclusi nel novero dei destinatari della normativa amministrativa di prevenzione del riciclaggio e, cioè, del d.lgs. 9.11.2007, n. 231 (e successive modificazioni).
Il comma sesto sancisce, infine, un’attenuante destinata a premiare condotte di resipiscenza (evitare conseguenze ulteriori del reato) o di collaborazione attiva post delictum. Il beneficio è perfettamente comprensibile e condivisibile, anche se pone qualche problema interpretativo rispetto ai rapporti con la circostanza attenuante comune prevista dall’art. 62, co. 1, n. 6, c.p.
La singolare scelta del legislatore italiano di affidare la punibilità dell’autoriciclaggio a una fattispecie autonoma produce significative incertezze a fronte di fatti di laundering realizzati dall’autore del reato presupposto in concorso con terzi. Il dato criminologico delinea, infatti, l’estrema frequenza dell’interazione tra le due diverse categorie di soggetti, soprattutto se si tratta di gestire proventi di rilevante entità: in tali casi, l’autore del reato presupposto si affida pressoché inevitabilmente a un soggetto inserito nel tessuto economico in grado di drenare le risorse illecite. La coesistenza di norme diverse, punite poi in maniera differente, non agevola certamente l’individuazione della fattispecie applicabile al terzo, potenzialmente rimproverabile tanto ai sensi dell’art. 648-bis c.p. (o, ricorrendone i più angusti presupposti applicativi, dell’art. 648-ter c.p.) quanto ai sensi dell’art. 648-ter.1 c.p.
Il primo passo per approcciare il tema consiste nell’individuazione della relazione intercorrente tra riciclaggio e autoriciclaggio: sembra corretto ritenere che le norme siano in rapporto di secca alterità e non, come pure sostenuto in letteratura, di specialità. L’autoriciclaggio presenta, infatti, una forma ibrida tra riciclaggio e impiego, tale per cui in relazione a nessuna delle relative fattispecie è possibile riscontrare una relazione di specialità in astratto (Piergallini, C., Autoriciclaggio, concorso di persone e responsabilità dell’ente, cit., 748); oltre, cioè, alla diversità di soggetti attivi, la norma in esame presenta ulteriori profili di peculiarità (per sottrazione e per aggiunta) rispetto alla fattispecie madre.
Ciò posto, si può escludere che l’autoriciclaggio debba prevalere sul riciclaggio in forza dell’art. 15 c.p. (o, ammesso e non concesso che sia conferente, dell’art. 117 c.p., che pure sottende un rapporto di specialità tra reato proprio e reato comune).
Resta allora da comprendere quale sia il reato del quale debba rispondere il terzo che abbia concorso con l’autore del reato presupposto: premesso che non vi è una preclusione alla responsabilità per titoli diversi, sembra preferibile risolvere l’eventuale convergenza di norme sul medesimo fatto nel senso dell’apparenza, facendo applicazione del principio di sussidiarietà.
A fronte di un medesimo fatto sussumibile sotto entrambe le norme (i.e. il compimento da parte del terzo di un “impiego ostacolante”), pare infatti innegabile che si verifichi un concorso di norme (altrimenti, il tema neppure si pone e la questione della norma applicabile è risolta già sul piano del fatto tipico): escluso che esso possa essere risolto sul piano della specialità (che, peraltro, porterebbe all’applicazione dell’art. 648-ter.1 c.p., con le relative conseguenze in termini di alleggerimento del carico sanzionatorio per l’extraneus), è solo mediante il ricorso a uno dei criteri sostanzialistici, o di valore, che si può evitare l’irragionevole (e perciò mai ipotizzato) esito di un concorso di reati.
Volgendo lo sguardo a tali criteri, sembra che ricorrano tutti i presupposti per riscontrare un rapporto di sussidiarietà tra riciclaggio e autoriciclaggio: si tratta di norme che tutelano i medesimi beni giuridici, ponendosi in maniera complementare; esse fotografano poi offese di differente gravità, come segnala il diverso trattamento sanzionatorio: nel caso, dunque, un medesimo fatto storico sia contemporaneamente riconducibile alle due norme (da intendere, trattandosi di fatti plurisoggettivi, come alle due fattispecie plurisoggettive formate dall’innesto dell’art. 110 c.p. sull’art. 648-bis c.p. e 648-ter.1 c.p.), potrà trovare applicazione la sola norma che punisce il reato più grave, e cioè, il delitto di riciclaggio. Ovviamente, il tema riguarda esclusivamente il terzo giacché sul versante dell’autore del reato presupposto non si assiste a una simile convergenza di norme, essendo esplicitamente esclusa una sua responsabilità per il delitto di riciclaggio.
La tesi qui proposta è solo una delle numerose avanzate in dottrina e non ambisce a risolvere in maniera compiuta una questione per certi versi insolubile, innescata dalla improvvida tipizzazione dell’autoriciclaggio come reato autonomo (Brunelli, D., Autoriciclaggio: profili del concorso di persone, in Mezzetti, E.-Piva, D., a cura di, Punire l’autoriciclaggio, Torino, 2016, 40).
Fonti normative
Art. 648-ter.1 c.p.
Bibliografia essenziale
Brunelli, D., Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2015, fasc. 1, 86 ss.; Brunelli, D., Autoriciclaggio: profili del concorso di persone, in Mezzetti, E.-Piva, D., a cura di, Punire l’autoriciclaggio, Torino, 2016, 19 ss.; D’Alessandro, F., Il delitto di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), ovvero degli enigmi legislativi riservati ai solutori «più che abili», in Baccari, G.M.-La Regina, K.-Mancuso, E.M., a cura di, Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015; De Francesco, G., Riciclaggio ed autoriciclaggio: dai rapporti tra le fattispecie ai problemi di concorso nel reato, in Dir. pen. proc., 2017, 944 ss.; Gullo, A., Il delitto di autoriciclaggio al banco di prova della prassi: i primi (rassicuranti) chiarimenti della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2017, 482 ss.; Mucciarelli, F., La struttura del delitto di autoriciclaggio. Appunti per l’esegesi della fattispecie, in Mezzetti, E.-Piva, D., Punire l’autoriciclaggio, Torino, 2016, 3 ss.; Piergallini, C., Autoriciclaggio, concorso di persone e responsabilità dell’ente: un groviglio di problematica ricomposizione, in Mantovani, M.-Curi, F.-Tordini Cagli, S.-Torre, V.-Caianiello, M., a cura di, Scritti in onore di Luigi Stortoni, Bologna, 2016, 739 ss.; Seminara, S., Spunti interpretativi sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. proc., 2016, 1631 s.