autorita
Termine che presenta un’ampia gamma di significati, tutti in qualche modo legati alla capacità – da parte di un qualsiasi soggetto (individuale o collettivo, reale o immaginario) – di determinare o influenzare il comportamento o le opinioni altrui. Per tale ragione è spesso considerato sinonimo di potere (➔), anche se in realtà deriva dal concetto romano di auctoritas, che era chiaramente distinto dalla nozione di potestas e che tale sarebbe sostanzialmente rimasto sino alle soglie dell’età moderna.
Il concetto di auctoritas è così tipico del mondo romano che Dione Cassio – storico romano di origine greca e membro del Senato – lo riteneva intraducibile nella sua lingua originaria. Esso designa i casi in cui una volontà interviene a difendere, assistere o integrare un’altra volontà: l’auctoritas tutoris, per es., è l’intervento del tutore negli atti compiuti dal minore, intervento necessario per conferire a quegli atti efficacia giuridica. Auctoritas significa quindi garanzia, certificazione, indispensabile approvazione: la sua origine è nel verbo augere («accrescere»), dal quale derivano altri termini connessi come augustus (colui che accresce), auxilium (aiuto che viene dato da una potenza superiore) e augurium (termine anch’esso di origine religiosa: voto per una cooperazione divina all’accrescimento). Questo significato originario emerge chiaramente nella famiglia, dove i genitori sono autori dei figli sia in senso fisico (attraverso la generazione), sia in senso morale (attraverso l’educazione): ed è questa condizione di autori – ossia di coloro che «fondano», «conservano» e «accrescono» qualcosa – che conferisce loro autorità. In tale origine si coglie anche la ragione della distinzione tra auctoritas e potestas. Mentre quest’ultima rimanda all’idea di una forza materiale esterna, che è in grado di costringere all’obbedienza i suoi destinatari, l’auctoritas rimanda a quella che oggi noi definiremmo «autorevolezza», ossia ad una condizione di superiorità morale – dovuta all’età, alla capacità, al prestigio, al rapporto con la sfera del sacro – che gli altri riconoscono e che li induce ad obbedire, nella maggior parte dei casi, spontaneamente. Nell’antica Roma l’auctoritas trovò la sua prima formulazione nel diritto di famiglia e in seguito si istituzionalizzò nel Senato: i senatori erano i «padri della patria» e la loro auctoritas consisteva nell’approvare le decisioni prese da altri centri di potere (consoli, assemblee popolari), conferendo loro legittimità. Alla restaurazione dell’auctoritas, dopo un lungo periodo di conflitti civili, mirò esplicitamente Ottaviano, che fu salutato dal Senato come Augustus (27 a.C.). A partire dal 2° sec. si ha tuttavia una progressiva e inarrestabile perdita di prestigio e di influenza da parte delle élites tradizionali e si fa sempre più indifferibile l’esigenza di una organizzazione ‘monarchica’ dell’Impero: l’auctoritas del principe inizia ad essere, in questo quadro, soltanto il sinonimo della carica imperiale e dell’illimitato potere politico ad essa connesso. L’emergenza politica, militare e sociale dei secc. 3°, 4° e 5° porterà infine l’auctoritas a coincidere con la potestas e quindi a indicare semplicemente il «potere più alto». Va peraltro ricordato che già a partire da Cicerone il concetto di auctoritas aveva assunto anche un significato metaforico, in relazione a quegli scrittori e pensatori ai quali venivano universalmente riconosciute dottrina, competenza e virtù.
Nonostante l’evoluzione in senso politico cui si è fatto riferimento, la nozione di auctoritas conservò un grande prestigio morale e venne fatta propria dal cristianesimo, che se ne servì per giustificare l’assetto istituzionale della Chiesa: l’auctoritas dei vescovi deriva, per i padri della Chiesa, dalla successione apostolica, cioè dal rapporto diretto e ininterrotto con gli apostoli e con la missione, affidata loro da Cristo, di custodire il depositum fidei. La lotta per l’auctoritas si svolse dapprima all’interno della Chiesa, nella quale si affermò progressivamente il primato del vescovo di Roma, in quanto successore diretto di Pietro (auctoritas apostolica): a tale primato, riconosciuto dagli ultimi titolari dell’Impero Romano d’Occidente (5° sec.), era connesso il monopolio dell’interpretazione vincolante delle Sacre Scritture. L’auctoritas fu anche l’oggetto di uno scontro, durato sostanzialmente per tutto il Medioevo, tra Chiesa e Impero, dovuto al fatto che il cristianesimo – non essendo, come la religione romana, una religione nazionale e quindi politica – poneva il problema del rapporto tra sfera trascendente e sfera temporale. Per Agostino l’Impero è espressione di una potestas necessaria nell’ordine mondano, ma di quest’ultimo condivide tutti i limiti e le imperfezioni: il potere può quindi giustificarsi soltanto se si lascia orientare al bene, sottomettendosi all’a. della Chiesa. L’impostazione dei rapporti fra Chiesa e Impero come titolari, rispettivamente, dell’auctoritas e della potestas troverà espressione nella «teoria delle due spade» di papa Gelasio I (492-96), che tuttavia si presterà anch’essa a interpretazioni discordanti e quindi non metterà fine ai contrasti tra le due grandi istituzioni universalistiche del Medioevo. Nel corso del 14° sec. prenderà avvio – con Marsilio da Padova, Guglielmo di Occam e Bartolo da Sassoferrato – la tendenza all’autolegittimazione dell’ordine politico.
Con l’età moderna il ruolo e il significato della nozione di a. mutano profondamente. Dal punto di vista religioso, Lutero e Calvino attaccano frontalmente l’a. della Chiesa di Roma, rivendicando il «libero esame» delle Sacre Scritture da parte di ogni credente. Insieme alla libertà religiosa, che riguarda la sfera della coscienza, Lutero e Calvino teorizzano però la completa sottomissione del cristiano all’a. politica (necessaria per punire i malvagi), contribuendo così a quel rafforzamento del potere politico che costituisce uno dei tratti caratteristici della modernità. I moderni Stati nazionali tendono infatti a liberarsi dalla ‘tutela’ della Chiesa e ad affermare la propria autonomia. Sotto questo profilo, l’idea di a. perde il suo significato religioso-sacrale e assume un significato esclusivamente politico, che la fa coincidere con il potere (o i poteri) dello Stato e che troverà il suo nuovo paradigma teorico nel giusnaturalismo moderno (da Hobbes a Kant). Tale paradigma si contrappone alla tradizione aristotelica, che vedeva nello Stato l’esito di un processo naturale, fondato sulla naturale socievolezza dell’uomo e sulla altrettanto naturale diseguaglianza degli individui (divisi, in virtù delle loro doti intellettuali o fisiche, in «atti al comando» e «atti all’obbedienza»): per i giusnaturalisti, infatti, lo Stato è l’esito di una decisione razionale, presa da individui liberi ed eguali e sancita da un patto o contratto. Il nuovo principio di legittimazione dell’a. politica è quindi il consenso razionale: ma mentre per l’assolutista Hobbes e per il democratico Rousseau la sovranità (sia essa esercitata da un individuo, da un’assemblea o dal popolo nella sua interezza) assorbe in sé e annulla le libertà individuali, nei liberali Locke e Kant il potere dello Stato trova il suo limite, la sua funzione e il suo fine nella tutela delle libertà individuali.
Sul piano più specificamente filosofico, l’a. appare ai pensatori moderni come qualcosa che si oppone al libero uso della ragione. Come qualcosa, dunque, che non «fa crescere» l’uomo, ma che al contrario ne limita o addirittura ne blocca lo sviluppo. I protagonisti del razionalismo polemizzano contro il principio di a. (incarnato da Aristotele e dalla Chiesa di Roma) e contro la tradizione, sostenendo che l’uomo deve affidarsi soltanto alla ragione, mentre i primi scienziati moderni, come Galilei, fanno altrettanto nell’ambito della ricerca scientifica. Nella modernità, quindi, l’a. è concepita negativamente, come dogmatismo che ostacola la ragione e/o la libertà, ed è valutata positivamente soltanto in quanto il soggetto possa riconoscersi in essa. Questo atteggiamento, che troverà la sua più chiara espressione nei filosofi dell’Illuminismo e riceverà ulteriore impulso della Rivoluzione francese, ispirerà le ideologie politiche e i grandi sistemi filosofici dell’Ottocento, che prevedono la scomparsa dell’a. come qualcosa di esterno all’uomo: per liberali e democratici l’a. legittima è quella dello Stato fondato sul consenso dei cittadini; per Hegel nella storia, processo razionale e necessario, si realizza la perfetta coincidenza tra libertà e a.; per i positivisti l’a. è rappresentata dalla ragione scientifica, che garantirà all’uomo un indefinito progresso; per i marxisti l’a. come imposizione esterna verrà sostituita, nella società socialista, dall’autogoverno dei produttori.
Nel corso del 20° sec., con l’avvento delle masse sulla scena politica e sociale, si ripresenta un «bisogno di a.» che trova espressione sia nell’espansione degli apparati dello Stato, sia nell’avvento di regimi autoritari e totalitari. In questo quadro la riflessione sull’a. si allarga alle scienze sociali e politiche e alla psicologia. Durkheim considera l’a. come una funzione della società: quest’ultima esercita infatti una sorta di «trascendenza» sui suoi membri ed è quindi la fonte di ogni forma di autorità. In polemica con la visione liberale dei rapporti individuo/Stato, Durkheim sostiene che l’a. non limita ma anzi rende possibile la libertà: il singolo è infatti libero solo se integrato in una pluralità di gruppi sociali (famiglia, Chiese, corporazioni) la cui a., indipendente da quella dello Stato, dà senso all’azione individuale e la sottrae ai rischi di disordine e di anomia. Freud, dal canto suo, sottolinea la natura ambivalente del rapporto che gli uomini hanno con l’a.: per spiegare la genesi della società egli avanza l’ipotesi del parricidio originario, secondo la quale il padre è stato ucciso dall’orda dei figli per liberarsi dai suoi divieti; ma una volta soddisfatta l’aggressività con il parricidio, la figura paterna «sopravvive» interiorizzata dai membri della società. Analogamente, ogni individuo, dopo aver «lottato» contro l’a. paterna, ne interiorizza i divieti contro le pulsioni primarie: e solo tale interiorizzazione permette il sorgere di una personalità integrata e di una società civile. Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, la Scuola di Francoforte – attraverso le opere di Horkheimer, Adorno e Marcuse – reinterpreta le tesi freudiane alla luce del marxismo, sostenendo che la contrapposizione tra a. e libertà non è inscritta nella natura umana, ma è il frutto del sistema capitalistico, nel quale si danno rapporti fondati sul dominio e sullo sfruttamento, tendenti a tradursi in regimi politici autoritari (fascismo). Le tesi dei francofortesi influiranno sui movimenti del Sessantotto, caratterizzati da una ripresa e da una radicalizzazione dell’atteggiamento antiautoritario: l’a. viene attaccata in tutte le sue forme – nella famiglia, nella scuola, nell’università, nello Stato – e si diffondono comportamenti e stili di vita ispirati a un largo permissivismo. È in questa fase che l’idea di a. tocca il punto più alto della sua eclissi, che si riflette emblematicamente nella crisi della famiglia tradizionale e della figura del padre. Questo esito viene spiegato da settori del pensiero cattolico contemporaneo (si pensi a Del Noce) come conseguenza del nichilismo nel quale precipita la ragione quando si distacca dalle sue fonti trascendenti. Una difesa delle «ragioni» dell’a. viene anche dall’etologia: K. Lorenz sostiene che l’ostilità verso ogni forma di a. rischia di far perdere all’uomo contemporaneo la capacità di controllare le proprie dinamiche pulsionali; l’a. appartiene infatti alle strategie umane per gestire l’aggressività e permette all’individuo e alla società di rispondere alle sfide ambientali e culturali.