AUTORITÀ (fr. autorité; sp. autoridad; ted. Autorität; ingl. authority)
Si dice autorità il principio dell'azione di una volontà su di un'altra.
Questa azione suppone da un lato la forza determinante, dall'altro il riconoscimento di essa. La forza determinante non può essere fondata che sulla sintesi del volere con la legge. Fuori di questa sintesi non esiste l'autorità, ma solo gli elementi astratti di essa, e cioè o la legge che può attuarsi e non attuarsi e contro la quale si rivolgono tutte le critiche che ne mettono in chiaro l'impotenza; o il volere senza legge, che è il volere che non sa quello che vuole, ossia vuole e disvuole e perciò non possiede autorità. L'autorità non riconosciuta poi è un concetto che da sé stesso si annulla. Il processo di determinazione del concetto di autorità si può far cominciare con gl'inizî della filosofia moderna, quando, con Bacone, Galilei e Cartesio, parve che la filosofia iniziasse il suo nuovo cammino rifiutando e criticando il principio di autorità, ossia, in concreto, ribellandosi all'autorità di Aristotele. Se però non ci si lascia illudere dall'apparente distacco tra il metodo e il contenuto della scienza, si vedrà che l'autorità di Aristotele era fondata sul valore che tuttavia nelle sistemazioni del pensiero medievale e del Rinascimento conservava la parte fondamentale del suo pensiero ossia il suo realismo. Iniziatosi con la filosofia moderna il rivolgimento per il quale il pensiero si orientò verso l'idealismo, l'autorità di Aristotele scemò in quanto il contenuto del suo pensiero, cioè quello che faceva autorevole il pensatore, venne a mano a mano criticato. Ma la critica parve rivolta piuttosto al principio di autorità, nel quale sfuggiva l'elemento del riconoscimento libero personale.
Soppiantato il principio di autorità nella scienza per l'esigenza che il soggetto sia presente in ciò che egli pensa, perché esso abbia un valore per lui (principio della esperienza), parve che lo stesso principio fosse da soppiantare anche nell'educazione umana. Si contrappose alla tradizione la ragione, all'educazione fondata sul principio di autorità, la libertà del discente che non soffre limite. In questa contrapposizione la tradizione s'intese come morta lettera da trasmettere di portatore in portatore e da ricevere passivamente; l'autorità come la forza portatrice e trasmettitrice di tale tradizione. Di contro, la ragione fu concepita come un potere naturale d'acquisizione immediata del vero e del buono da parte di ogni individuo e la libertà come l'arbitrio posseduto da ciascuno in dote naturale per sé perfetta.
Iniziatosi col nostro Vico il processo di revisione del concetto di tradizione e restaurato il suo valore di fronte alla nuda ragione naturale, si pervenne man mano a quel concetto giobertiano dell'autorità, per il quale "l'uomo a rigore crea a sé stesso la sua Chiesa, il suo Dio, il suo Culto, il suo dogma. E ciò fa in tutti i casi, anche quando si sforza di fare il contrario; perché è metafisicamente impossibile che un atto di volontà non sia radicalmente autonomo" (Nuova Protologia, II, p. 163). "Non vi ha in religione autorità senza libertà e viceversa, nè più nè meno che in moralità e politica" (ivi).
Questo concetto ulteriormente chiarito dallo Spaventa e dal Gentile condusse la pedagogia contemporanea alla conciliazione dei concetti di autorità e libertà. La libertà non è l'arbitrio di volere e disvolere, ma è l'atto concreto per cui si vuole realizzando, e cioè si vuole conforme a una legge, si vuole ciò che deve essere voluto nel momento in cui noi vogliamo.
Ora a ciò fare è necessario che la volontà sia potenziata di quella tradizione la quale è essa sola in grado di farci valutare il vero fine e fornirci i mezzi dell'esecuzione. Questa tradizione è l'autorità alla quale la mente s'inchina, ma quest'atto dell'inchinarsi è propriamente l'instaurazione che il soggetto liberamente fa di quella autorità, consacrandone il valore.
Ciò non sarebbe possibile se questo "farsi valere" e questo "riconoscere" non avessero il loro fondamento in un principio comune che è la legge che fa, di un volere, il volere.
Nell'ambito giuridico e politico la parola "autorità" indica la posizione di chi sia investito di uno ius imperii ossia di poteri e funzioni di comandi: una preminenza, una superiorità in senso politico o giuridico. Così, concepito lo stato come ente politico e giuridico, si parla dello stato come autorità e di autorità dello stato; così ancora sono chiamati autorità gl'individui preposti a cariche pubbliche implicanti funzioni e poteri di comando. Sotto quest'ultimo profilo al concetto di autorità si ricollega quello di "gerarchia" quasi come misura, possiamo dire, dell'autorità.
La determinazione del fondamento razionale dell'autorità costituisce il problema più importante della filosofia della politica, soprattutto quando al concetto di autorità si ricolleghi e si contrapponga il concetto di libertà; si tratta in vero, non di due problemi e di due concetti, ma di unico problema e unico concetto.
Ciò non appare certamente finché si rimanga in quella posizione ingenuamente realistica che è tipica delle scienze (stricto sensu: anche di quelle che si dicono morali, come, per es., la scienza del diritto e la cosiddetta scienza empirica della politica), ma risulta evidente quando si pensi che l'autorità non esiste all'infuori del riconoscimento e della partecipazione dell'attività spirituale di coloro su cui si esercita. La sintesi di autorità e libertà costituisce, appunto, la immanente sostanza spirituale del cosiddetto stato etico, ossia di ogni stato e di ogni forma di comunione d'individui che, prima di esistere inter homines, si faccia viva in interiore homine.
Per il diritto romano, v. auctoritas.