Autoritarismo
Definiamo autoritari diversi sistemi politici non democratici e non totalitari, se sono: "sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su un'ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili" (v. Linz, 1964, p. 225).
Questa definizione, elaborata contrapponendo i sistemi autoritari alle democrazie competitive, da una parte, e al tipo ideale di sistema totalitario, dall'altra (v. Linz, 1964, Opposition..., 1973, The future..., 1973), opera una distinzione netta tra sistemi autoritari e sistemi democratici, mentre non distingue altrettanto nettamente i primi dai sistemi totalitari, in quanto può adattarsi anche alle situazioni e ai regimi pre- e post-totalitari. Un'ulteriore delimitazione consiste nell'esclusione dei regimi tradizionali legittimi, delle monarchie semicostituzionali del XIX secolo, liberali ma non democratiche, e delle democrazie censitarie, in cui il suffragio ristretto rappresentò un passo avanti nel processo evolutivo verso le moderne democrazie competitive basate sul suffragio universale maschile. Le democrazie oligarchiche, che, soprattutto in America Latina, hanno resistito alle spinte verso un'ulteriore democratizzazione conservando limitazioni al suffragio basate sull'analfabetismo, sul controllo o sulla manipolazione delle elezioni, sul frequente ricorso al potere moderatore dell'esercito, sull'esistenza di partiti non differenziati, si collocano in una posizione di confine, più vicine alla democrazia per quel che riguarda la concezione della costituzione e dell'ideologia, ma più simili da un punto di vista sociologico ad alcuni regimi autoritari.Il nostro concetto di autoritarismo è incentrato sul modo di esercitare e organizzare il potere, sui suoi legami con la società, sulla natura dei sistemi di credenze che lo sostengono e sul ruolo dei cittadini nel processo politico, mentre non considera il contenuto effettivo delle varie politiche, gli obiettivi perseguiti, la raison d'être dei regimi autoritari.
Esso non ci dice molto sulle istituzioni, sui gruppi e sugli strati sociali che fanno parte del pluralismo limitato, o su quelli che ne sono esclusi. Il fatto che sottolinei gli aspetti più strettamente politici espone questo concetto ad alcune di quelle stesse accuse di formalismo mosse al concetto generale di totalitarismo, e peraltro anche di democrazia. Noi caratterizziamo i regimi, indipendentemente dalle politiche che perseguono, in base al particolare modo in cui trattano problemi che tutti i sistemi politici si trovano ad affrontare, per esempio i rapporti tra politica e religione, o tra politica e intellettuali. Anche le condizioni in cui i regimi emergono, si stabilizzano, si trasformano ed eventualmente crollano sono piuttosto differenziate. Il carattere generale e astratto della definizione proposta rende necessario abbandonare il piano dell'astrazione per addentrarci nello studio dei vari sottotipi.La caratteristica fondamentale rimane l'elemento pluralistico, ma non si sottolineerà mai abbastanza che, al contrario di quanto avviene nelle democrazie, con il loro pluralismo politico quasi illimitato e istituzionalizzato, ci troviamo qui di fronte a un pluralismo limitato. È stato suggerito che avremmo potuto definire questi sistemi 'regimi a monismo limitato', termini che suggerirebbero la sfera entro cui questi regimi operano. La limitazione del pluralismo può essere de iure o de facto, attuata in modo più o meno efficace, circoscritta a gruppi strettamente politici o estesa a gruppi di interesse, purché si tratti di gruppi non creati né dipendenti dallo Stato, che influenzano il processo politico.
Alcuni regimi arrivano persino a istituzionalizzare la partecipazione politica di un numero limitato di gruppi o di istituzioni indipendenti e anche a incoraggiarne l'affermazione, senza comunque lasciare alcun dubbio sul fatto che, in ultima istanza, sono i governanti a determinare quali gruppi possano esistere e a quali condizioni. Il potere politico non è tenuto, né de iure né de facto, a rendere conto del proprio operato, attraverso tali gruppi, ai cittadini, in contrasto con quanto avviene nei governi democratici, dove le forze politiche dipendono formalmente dal sostegno dei collegi elettorali. Nei regimi autoritari gli uomini che salgono al potere come rappresentanti dei punti di vista di diversi gruppi e istituzioni non devono la loro posizione solo al sostegno di questi gruppi, ma anche alla fiducia riposta in loro dal leader o dal gruppo dirigente, che tengono conto del loro prestigio e della loro influenza. Grazie a un processo costante di cooptazione dei leaders, diversi settori o istituzioni entrano a far parte del sistema; questo meccanismo spiega le caratteristiche dell'élite: una certa eterogeneità sotto il profilo della formazione culturale e dei modelli di carriera e una prevalenza di burocrati, tecnici specializzati, militari di carriera, rappresentanti di gruppi d'interesse e, a volte, di gruppi religiosi rispetto ai politici di professione.
In alcuni di questi regimi un partito - ufficiale, unico o privilegiato - costituisce una componente più o meno importante del pluralismo limitato. Sulla carta partiti del genere spesso pretendono lo stesso potere monopolistico dei partiti totalitari e presumibilmente svolgono le stesse funzioni, ma in realtà vanno tenuti ben distinti. L'assenza, o la debolezza, di un partito politico spesso fa sì che organizzazioni laiche legate alla Chiesa o da essa patrocinate diventino un serbatoio di quadri dirigenti, con una funzione non molto diversa da quella che svolgono nel reclutamento delle élites dei partiti democratico-cristiani (v. Hermet, 1973). Il partito unico è basato il più delle volte sulla fusione di elementi diversi anziché su un corpo unico irreggimentato ed è più una creazione di coloro che sono al potere che un partito che ha conquistato il potere, come accade invece nei sistemi totalitari.
Useremo il termine 'mentalità' anziché 'ideologia', seguendo la distinzione fatta dal sociologo tedesco Theodor Geiger (v., 1932, pp. 77-79). Secondo Geiger, le ideologie sono sistemi di pensiero più o meno elaborati e strutturati, spesso in forma scritta, da intellettuali o pseudointellettuali, o con il loro aiuto; le mentalità sono modi di pensare e di sentire, più emotivi che razionali, che influenzano il comportamento senza codificarlo.I regimi autoritari burocratico-militari riflettono in misura maggiore la mentalità dei loro governanti. In altri regimi troviamo un consenso sul programma e in altri ancora un complesso di idee mutuate da varie fonti e messe insieme alla rinfusa per dare l'impressione che costituiscano un'ideologia nell'accezione valida per i sistemi totalitari. I regimi autoritari che si trovano alla periferia di centri ideologici si sentono costretti a imitare, incorporare e manipolare gli stili ideologici dominanti, e ciò può creare equivoci fra gli studiosi. La complessa coalizione di forze, interessi, tradizioni politiche e istituzioni - che fanno parte del pluralismo limitato - esige che i governanti usino come referente simbolico il minimo comune denominatore. Valori generici quali il patriottismo e il nazionalismo, lo sviluppo economico, la giustizia sociale e l'ordine, oltre all'assimilazione cauta e pragmatica di elementi ideologici mutuati dai centri politici dominanti, danno ai governanti privi del sostegno di una mobilitazione di massa la possibilità di neutralizzare gli oppositori, di cooptare una vasta gamma di sostenitori, di decidere in modo pragmatico quali politiche adottare. Le mentalità e le semi- o pseudoideologie diminuiscono la tensione utopistica in politica e in tal modo riducono i conflitti, che altrimenti richiederebbero o l'istituzionalizzazione o una maggiore repressione.
La mancanza di ideologia limita la capacità di mobilitare la popolazione, di creare l'identificazione psicologica ed emotiva delle masse. L'assenza di un valore supremo, di obiettivi di lungo respiro, di un modello di società ideale riduce l'attrattiva dei regimi autoritari agli occhi di coloro che danno alle idee e ai valori un'importanza centrale e può spiegare l'estraniazione degli intellettuali, degli studenti, dei giovani e delle persone profondamente religiose.
La scarsa e limitata mobilitazione politica è una caratteristica dei regimi autoritari. In alcuni la spoliticizzazione delle masse rientra nelle intenzioni dei governanti, in altri i governanti, all'inizio, intendevano indurre i loro sostenitori e la popolazione a un coinvolgimento attivo. La lotta per l'indipendenza da un potere coloniale, il desiderio di integrare nel processo politico settori della società trascurati da tutte le leaderships precedenti, o la sconfitta di un oppositore con grande seguito popolare in società in cui la democrazia aveva permesso e incoraggiato tale mobilitazione fanno emergere regimi autoritari di mobilitazione, nazionalisti, populisti o fascisti. La necessità di mantenere un equilibrio all'interno del pluralismo limitato riduce l'efficacia della mobilitazione di un partito unico e in ultima analisi conduce all'apatia i membri e gli attivisti.Il pluralismo limitato dei regimi autoritari genera modelli complessi di semiopposizione e di pseudoopposizione (v. Linz, Opposition..., 1973). La semiopposizione è propria di gruppi non dominanti né rappresentati nel gruppo di governo, parzialmente critici, ma disposti a partecipare al potere senza sfidare fino in fondo il regime. Essi distinguono tra il governo e alcuni aspetti dell'ordinamento istituzionale e il leader del regime, e accettano la legittimità storica o almeno la necessità della formula autoritaria. Non è raro che la semiopposizione diventi un'opposizione extralegale: essa ha perso la speranza di trasformare il regime dall'interno, ma non è ancora pronta a intraprendere attività illegali o sovversive e gode di una tolleranza intermittente, a volte basata su legami personali. Anche la debolezza dei tentativi di socializzazione politica spiega perché la terza generazione, una volta scoperta la politica, opti per un'opposizione extralegale.
L'autonomia di certe organizzazioni sociali, la tendenza a una relativa liberalizzazione, una maggiore partecipazione alle organizzazioni del regime e la parziale apertura verso altre società creano i presupposti per l'emergere di un'opposizione extralegale, che a volte serve da facciata per un'opposizione illegale, pronta a infiltrarsi nelle organizzazioni del regime. L'opposizione spesso è incanalata in organizzazioni formalmente apolitiche a carattere culturale, religioso o professionale. La posizione particolare della Chiesa cattolica sotto un governo autoritario le assicura una certa autonomia, che serve a convogliare l'opposizione di classi sociali, minoranze culturali, giovani ecc. e a far emergere nuovi leaders. Poiché si tratta di un'istituzione destinata a sopravvivere a qualsiasi regime, anche a quelli con cui si è identificata in un particolare momento storico, è probabile che riacquisti la sua autonomia quando compaiono segnali di crisi, allo stesso modo di altre istituzioni, che potrebbero avere conservato una notevole autonomia, come la magistratura, la categoria dei professionisti e quella dei funzionari statali.I regimi autoritari sono difficili da studiare, poiché non hanno mai, in nessun caso, acceso l'immaginazione di intellettuali e attivisti, né hanno ispirato un'internazionale fra i partiti sostenitori del loro modello, e i loro leaders si sono sentiti obbligati a scimmiottare i più attraenti modelli totalitari. Negli anni trenta, grazie alla capacità dell'ideologia del corporativismo di combinare una grande varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla dottrina sociale cattolica conservatrice, sembrò che i regimi autoritari offrissero un'alternativa, ma il loro evidente fallimento ha pregiudicato questo terzo modello politico.
Se la definizione astratta, sopra proposta, di regime autoritario è utile, dovrebbe permetterci di delineare alcuni sottotipi. Il pluralismo limitato, al contrario del monismo, produce tipologie che tengono conto di quali istituzioni e quali gruppi siano ammessi a partecipare alla vita politica, e in che modo, e quali ne siano esclusi. Se è il rifiuto della mobilitazione a distinguere tali regimi dal totalitarismo, le ragioni della mobilitazione limitata e la sua natura dovrebbero fornire un ulteriore parametro.Il pluralismo limitato assume una varietà di forme, a seconda della posizione più o meno preminente dei diversi gruppi o istituzioni. I regimi autoritari vanno da quelli dominati da un'élite burocratico-tecnocratico-militare, preesistente al regime, ad altri in cui la partecipazione politica viene mediata da un partito unico o dominante che emerge dalla società. In altri regimi diversi gruppi e istituzioni sociali vengono creati o ammessi a partecipare al processo politico nella forma del cosiddetto statalismo organico, spesso definito - in termini ideologici - 'corporativismo' o 'democrazia organica'.Se guardiamo invece all'aspetto della partecipazione limitata e/o controllata, dell'apatia politica della maggior parte dei cittadini, tollerata o incoraggiata che sia, troviamo che nei regimi burocratico-tecnocratico-militari sono pochi - seppure esistono - i canali che danno adito alla partecipazione e che i governanti non hanno neppure interesse a manipolarla. Troviamo anche regimi che tentano di mobilitare i cittadini attraverso canali monopolistici ben precisi, soprattutto un partito unico o dominante e le organizzazioni di massa e funzionali che ne dipendono. Nella misura in cui un tale partito non viene concepito per escludere altre organizzazioni e istituzioni da un pluralismo politico limitato e non le invade completamente, ci troviamo di fronte a regimi di mobilitazione, diversi sia da quelli burocratico-tecnocratico-militari, sia da quelli che abbiamo raggruppato sotto l'etichetta di statalismo organico.
A seconda delle circostanze in cui sono apparsi, questi regimi rientrano in due categorie: a) i regimi retti da un partito di mobilitazione, unico o dominante; b) le società post-democratiche. Il partito unico (o dominante) emerge dalla società nel corso della lotta per l'indipendenza, conquistandosi una posizione di dominio, che proteggerà sia abolendo quelle libertà politiche che porterebbero all'affermazione di altri partiti, sia cooptando o persino corrompendo i potenziali concorrenti. All'inizio questi regimi si basano su una notevole mobilitazione e potrebbero prendere una direzione totalitaria, ma poi divengono regimi in cui il partito, che in origine faceva affidamento sulla mobilitazione, costituisce una componente importante della struttura del potere. Nelle società post-democratiche un governo puramente burocratico-militare o uno basato sulla rappresentanza, propria dello statalismo organico, di un numero ben definito di gruppi sociali e di interessi istituzionali non sono realizzabili, perché gran parte della società conta su una qualche forma di partecipazione. Regimi del genere si affermano quando la lotta per l'esclusione di specifici settori della società ha richiesto una certa mobilitazione e la creazione di un partito, di organizzazioni di massa e persino di organizzazioni coercitive in aggiunta alle strutture burocratiche della polizia e dell'esercito. Se questi partiti e movimenti hanno mirato, senza ottenerlo, a un monopolio totalitario del potere, possiamo parlare di sistemi totalitari difettosi o bloccati. Dal momento che il processo di instaurazione di un sistema totalitario vero e proprio non si conclude il giorno stesso della presa del potere, possiamo includere tra le situazioni autoritarie anche le fasi pre-totalitarie di certi sistemi politici. Infine il modo in cui il pluralismo limitato si afferma dopo un governo totalitario ci induce a parlare di regimi post-totalitari.
Le varie forme di pluralismo limitato corrispondono, più o meno, a modi diversi di articolare le idee che legittimano il sistema. Nel caso di governi burocratico-militari, le idee non sono molto articolate in termini intellettuali; possiamo parlare più che altro di mentalità, prestando scarsa attenzione alle formule ideologiche, che tendono a essere semplicistiche e spesso di seconda mano.
È probabile invece che i regimi autoritari di mobilitazione, soprattutto quando assegnano un ruolo importante al partito unico o dominante e tentano di incoraggiare la partecipazione dei cittadini, si affidino a formule ideologiche. La relativa mancanza di articolazione e di complessità di queste formule e spesso il loro carattere secondario contribuiscono a deteriorare la componente di mobilitazione e quindi il partito e la partecipazione di massa. Ne risulta un avvicinamento di molti regimi autoritari di mobilitazione al tipo burocratico-militare o allo statalismo organico. Solo nel caso di regimi autoritari di mobilitazione post-democratici, dominati da un partito fascista che già prima di prendere il potere era una forza politica rilevante, l'ideologia rimane in effetti un importante fattore indipendente, non del tutto riducibile alla nostra nozione di mentalità.I regimi autoritari burocratico-militari, che non hanno elaborato né un'istituzionalizzazione più complessa del pluralismo limitato sotto forma di statalismo organico, né un partito unico, sono in qualche modo i regimi autoritari paradigmatici, lontani dai sistemi politici democratici, ma anche dal totalitarismo moderno.
Le occasioni di partecipazione alla vita politica e quindi di accesso al potere, proprie dei regimi autoritari di mobilitazione, avvicinano questi al tipo ideale di sistema democratico. Tuttavia questi regimi rappresentano un ostacolo alla sopravvivenza e all'influenza politica del pluralismo societario, e si contrappongono alla libertà di organizzazione caratteristica dei sistemi democratici. Lo statalismo organico, istituzionalizzando il pluralismo esistente e incorporandolo nel processo politico, senza accordare il monopolio a un'unica organizzazione politica, è più vicino al pluralismo che si sviluppa spontaneamente nel quadro di una società libera, ma sacrifica maggiori possibilità di partecipazione del cittadino medio agli interessi di varie élites. Lo statalismo organico è più distante dall'idea di partecipazione dei cittadini di quanto non lo siano i regimi di maggiore mobilitazione.Molti regimi si trovano a cavallo tra questi vari tipi ideali e molti combinano elementi più o meno importanti in diverse fasi della loro storia. Molti regimi si affermano come burocrazie militari, ma, dopo essersi consolidati al potere, esplorano le altre alternative e tentano di trasformarsi in statalismi organici e, senza successo, in regimi di mobilitazione.
Il sottotipo più frequente è costituito da quei regimi in cui una coalizione, controllata in modo prevalente ma non esclusivo da ufficiali dell'esercito, burocrati e tecnocrati, assume il controllo del governo ed esclude o include altri gruppi senza affidarsi a un'ideologia specifica, agisce in modo pragmatico nei limiti della mentalità burocratica e non crea un partito unico di massa, né gli consente di svolgere un ruolo dominante. Questi regimi possono operare senza partiti, ma spesso hanno creato un partito unico ufficiale sostenuto dal governo, il quale, più che mirare a una mobilitazione controllata della popolazione, tende a ridurne la partecipazione politica. In diversi casi questi regimi permettono l'esistenza di un sistema pluripartitico, assicurandosi però che le elezioni non offrano, neppure ai partiti autorizzati, alcuna possibilità di libera competizione per ottenere il sostegno popolare, e, ricorrendo a manipolazioni, che vanno dalla cooptazione e dalla corruzione alla repressione, tentano di assicurarsi la collaborazione o la sottomissione dei partiti stessi, o di neutralizzarne l'azione (v. Janos, 1970).La letteratura di stampo più polemico tende a tacciare di fascismo i regimi di questo genere, soprattutto perché - negli anni tra le due guerre mondiali - essi adottarono slogan, simboli e uno stile fascisti, nonché alcuni degli elementi più opportunistici dei movimenti fascisti.
Il ruolo dominante rivestito dall'esercito e il fatto che molti ufficiali svolsero una funzione importante, anche dove l'esercito - in quanto istituzione - non assunse il potere, hanno indotto a classificare questi regimi come dittature militari; ma anche quando essi nacquero come dittature militari, non si può ignorare la loro struttura politica assai più complessa e il ruolo importante dei leaders civili, soprattutto dei più alti funzionari statali, ma anche dei professionisti e degli esperti, oltre che degli esponenti politici dei partiti preesistenti al colpo di Stato (v. Janos, 1970 e 1982; v. Roberts, 1951; v. Tomasevich, 1955; v. Cohen, 1973; v. Macartney, 1962; v. Payne, 1987). In molti di questi regimi le istituzioni tradizionali, come la monarchia e, in misura minore, la Chiesa, o le classi sociali premoderne, come quella dei grandi proprietari terrieri, svolsero un ruolo importante, ma sarebbe errato definire tradizionali tali sistemi. Tanto per cominciare, la legittimazione tradizionale della monarchia nei paesi con regimi del genere era, salvo qualche eccezione, relativamente debole (v. Clogg e Yannopoulos, 1972).Nonostante un certo arbitrio nell'esercizio del potere, questi regimi fecero un notevole sforzo per operare in un quadro legalitario: promulgarono costituzioni modellate su quelle delle democrazie liberali occidentali, conservarono il più a lungo possibile forme parlamentari pseudocostituzionali, fecero uso delle procedure legali e dei tribunali e, soprattutto, pretesero dai funzionari e dagli ufficiali un'obbedienza basata non tanto sull'accettazione delle loro politiche, dei loro programmi o del loro carisma, quanto sull'autorità della legge.
Questo legalitarismo, inerente alla formazione di molti detentori del potere - funzionari statali e politici di un precedente sistema democratico più liberale -, porta spesso a curiose contraddizioni: esso assicura sorprendentemente un certo spazio alla libertà individuale, ma si rende responsabile di alcuni tra i più oltraggiosi abusi di potere, quali l'assassinio politico, l'esecuzione di oppositori "mentre cercavano di fuggire" (anziché dopo un processo o, come nei sistemi totalitari, dopo un processo farsa) e l'uso della violenza privata con la connivenza delle autorità. In questi regimi, invece di una 'legalità rivoluzionaria', si attua una distorsione o una perversione della legalità. In tempi più recenti il fenomeno dei desaparecidos in Argentina, in Cile e in altri paesi rappresenta una nuova forma di repressione messa in atto da questo tipo di regimi.
Alcuni degli uomini che assumono il controllo sono alti funzionari statali, spesso esperti in materia fiscale, incaricati di realizzare riforme fiscali, di promuovere un certo grado di intervento governativo nell'economia e di incoraggiare l'industrializzazione, senza, comunque, creare un settore pubblico su vasta scala (v. Janos, 1970, pp. 212-216). Le loro politiche sono pragmatiche, attente ai cicli economici e al sistema economico internazionale, e quindi tendono ad adottare una varietà di misure spesso non troppo dissimili da quelle in vigore nei paesi con altri sistemi politici.
Questi regimi sono comparsi in società ancora poco industrializzate, con un'agricoltura scarsamente modernizzata e con una popolazione rurale numerosa, composta in genere di contadini poveri e/o di braccianti agricoli o di affittuari; società caratterizzate, nonostante lo scarso livello di sviluppo economico, da un processo di urbanizzazione piuttosto avanzato, da una diffusione dell'istruzione relativamente ampia e quindi dalla crescita di un ceto medio di professionisti alla ricerca di un impiego statale o parastatale. I sostenitori principali e i quadri di questi regimi provengono da quella classe che gli studiosi delle società dell'Est europeo hanno chiamato 'borghesia di Stato', anche se i maggiori beneficiari delle politiche governative potrebbero essere altri gruppi sociali: le classi rurali più ricche o gli appartenenti ai pochi settori commerciali ben ammanicati.Nelle società più avanzate, i disagi provocati dalla guerra e/o l'esempio di rivoluzioni straniere crearono sacche di protesta e, nei momenti di crisi, tentativi rivoluzionari condannati al fallimento, o ondate di terrorismo e di controterrorismo. L'esperienza di una minaccia rivoluzionaria diede a molti sistemi un forte carattere controrivoluzionario e reazionario.L'obiettivo di questi regimi è di impedire alle masse - soprattutto agli operai, ai braccianti agricoli, ai contadini non privilegiati e, a volte, alle minoranze religiose, etniche o culturali, che rivendicano una quota maggiore delle risorse della società - di organizzarsi e di partecipare al potere in modo indipendente e senza controlli. Questi regimi permettono un maggiore o minore pluralismo all'interno di altri settori della società e assicurano un ruolo importante ai militari e ai burocrati capaci di tenere a freno le masse. È difficile che essi introducano sostanziali cambiamenti strutturali nella società, ma spesso limitano anche il potere, la capacità organizzativa e l'autonomia delle élites privilegiate: i gruppi economici, le categorie di professionisti, i capitalisti stranieri, persino le organizzazioni religiose e, di rado, l'esercito.
Questi regimi si affermano in genere dopo che un periodo di democrazia liberale ha permesso la mobilitazione delle classi non privilegiate. Il grado di autonomia che essi sono disposti a concedere alle classi socioeconomicamente più privilegiate può variare in funzione della minaccia che il dominio di questi strati potrebbe rappresentare per coloro che si sono assunti il compito di proteggere il regime e se stessi dalle rivendicazioni radicali rivoluzionarie dei non privilegiati. A seconda della forza del regime, si concederà ai notabili tradizionali una parte del potere. Sarà lo sviluppo economico a determinare fino a che punto si concederà a coloro che controllano i mezzi di produzione di far parte della coalizione al potere o di esercitare un'influenza dominante. Sarà il livello di mobilitazione dei non privilegiati prima dell'avvento del regime autoritario a determinare in gran parte in quale misura i burocrati e i militari, impegnati a difendere il sistema, svolgeranno un ruolo dominante e in quale misura tenteranno di integrare nel sistema i non privilegiati attraverso organizzazioni controllate, quali i sindacati ufficiali, le organizzazioni corporative, o partiti di tipo populista o fascista.
Come ha dimostrato Schmitter (v., Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974), riprendendo il modello bonapartista sviluppato da Marx, questi regimi autoritari possono spingersi molto lontano nel rendere indipendente lo Stato e nel logorare di giorno in giorno il potere politico della borghesia, proprio mentre ne proteggono il potere materiale. Quando esiste una popolazione contadina non mobilitata politicamente, o sicura di sé e soddisfatta, tale classe sociale fornisce un sostegno al regime. I limiti imposti alle classi privilegiate e gli ostacoli alla libera attuazione degli interessi della classe media, in particolare di quelli dei suoi settori più sofisticati sul piano intellettuale, portano al paradosso per cui la stabilità di questi regimi è minacciata più dalle classi che li hanno portati al potere e che traggono i maggiori vantaggi dal loro governo, che non da quelle escluse dal pluralismo limitato.
Un problema che molti regimi non sono riusciti a risolvere è quello delle profonde divisioni etniche e nazionali, in particolare nell'Europa dell'Est, con le sue minoranze più o meno oppresse a volte leali a un paese confinante. Conflitti del genere hanno rafforzato il nazionalismo sciovinista e il ruolo politico dell'esercito. Janos (v., 1970) e Nagy-Talavera (v., 1970) hanno dimostrato come la posizione sociale degli ebrei nell'Europa orientale, in particolare la loro preponderanza tra i laureati in società caratterizzate da una disoccupazione intellettuale su larga scala, generò sentimenti antisemiti manipolati dai governanti.In società più complesse, con livelli di mobilitazione sociale più alti e una tradizione intellettuale cattolica, i regimi autoritari consolidati di tipo militare-burocratico hanno rafforzato la propria istituzionalizzazione, realizzando una rottura esplicita con le forme costituzionali liberal-democratiche. Alcuni hanno optato per forme di governo miste, ottenute combinando in varia misura lo 'statalismo organico' con sistemi basati su partiti unici di mobilitazione di ispirazione fascista (la Spagna nel 1926, il Portogallo nei primi anni trenta, l'Austria nel 1934, il Brasile di Vargas dal 1937 al 1945 e la Spagna di Franco). Il modello ottimistico secondo il quale lo sviluppo socioeconomico favorirebbe la pluralizzazione politica e quindi l'avvento della democrazia è stato smentito in due dei paesi più avanzati dell'America Latina. Guillermo O'Donnell (v., 1973) ha proposto un modello alternativo, che associa un grado più elevato di sviluppo economico e sociale all'emergere di un autoritarismo burocratico volto a escludere dalla vita politica settori popolari politicamente attivi, in particolare le classi lavoratrici urbane, tramite la coalizione fra un nuovo tipo di élite militare e i tecnocrati dei settori pubblico e privato, con il sostegno delle classi sociali minacciate dalla mobilitazione. Come ha dimostrato Stepan (v., 1973 e 1978), i tecnocrati dell'esercito, della burocrazia e delle imprese moderne condividono la stessa concezione dei requisiti necessari allo sviluppo, fra cui annoverano, in particolare, l'esclusione e la neutralizzazione delle classi popolari, e mantengono collegamenti internazionali con élites analoghe presenti in altre società industriali avanzate, che li hanno portati a credere fermamente nelle proprie capacità di risolvere i problemi sociali e di esercitare un maggiore controllo sui settori cruciali delle loro società. La loro coalizione golpista mirerà a rimodellare il contesto sociale in modo da favorire l'applicazione delle conoscenze tecnocratiche e da ampliare l'influenza dei settori sociali dove la loro presenza, a causa della modernizzazione, è più massiccia.
A metà degli anni sessanta il Brasile e l'Argentina cominciarono a escludere dall'arena politica la classe popolare urbana, già politicizzata, rifiutando di soddisfarne le richieste, ricorrendo alla coercizione diretta e/o bloccando i canali elettorali di accesso alla politica. Questi tentativi sono destinati a un grado maggiore o minore di successo. A un estremo si può ottenere la completa neutralizzazione politica di un settore escluso attraverso la distruzione delle sue risorse (soprattutto della sua base organizzativa); all'estremo opposto è possibile che questa neutralizzazione non si realizzi. Questi paesi sono passati da un sistema politico coinvolgente, che tentava esplicitamente di mobilitare la classe popolare e le permetteva di far sentire la sua voce in una fase di populismo e di industrializzazione orizzontale, all'esclusione. Si trattava di paesi in cui la crisi mondiale degli anni trenta e la seconda guerra mondiale avevano accelerato l'affermarsi dell'industria nazionale e di una classe operaia urbana, e dove esisteva un'ampia coalizione populista, capeggiata da leaders come Vargas e Perón, contro le vecchie oligarchie e le imprese straniere. Queste coalizioni favorirono l'industrializzazione; sul piano sociale ciò significò l'ampliarsi delle funzioni dello Stato e procurò un'occupazione a molti impiegati e tecnici della classe media. Nazionalismo e industrializzazione incontrarono il favore dell'esercito, portarono vantaggi ai lavoratori urbani, incoraggiarono l'inurbamento, fecero salire i livelli di consumo, incrementarono la sindacalizzazione e favorirono i settori agricoli i cui prodotti erano destinati al consumo interno. Il governo destinò una quota significativa delle sue entrate allo sviluppo e al consumo interni, a spese del tradizionale settore dell'esportazione. Tuttavia l'importanza economica delle esportazioni permise a questo settore di conservare un'influenza politica sproporzionata rispetto al suo contributo, decrescente, al prodotto nazionale lordo. Esaurita la fase più semplice dell'industrializzazione, la politica della sostituzione delle importazioni generò l'esigenza di nuove importazioni, in un periodo in cui l'instabilità dei prezzi delle esportazioni aggravava la scarsa produttività dei settori dediti all'esportazione, che stavano pagando il prezzo delle politiche populiste.
Tutto ciò provocò carenze di valute estere. Vargas e Perón avevano incoraggiato la sindacalizzazione dei lavoratori e concesso alla classe popolare urbana la prima opportunità di avere un peso politico effettivo. Emersero nuovi problemi, che portarono al crollo dell'alleanza populista. Nei sistemi politici democratici più aperti, come quelli che succedettero a Vargas, il peso elettorale, la possibilità di indire scioperi e manifestazioni e la più intensa attivazione politica vennero percepiti come una minaccia. In Argentina e Brasile la maggior parte delle classi dei possidenti fu d'accordo nel ritenere eccessive le richieste delle classi popolari, sia in termini di consumi che di partecipazione al potere, e impossibile l'accumulazione di capitale senza tenerle sotto controllo. La componente classista di questa polarizzazione portò all'adozione di una soluzione politica che avrebbe eliminato queste minacce, rese più gravi dallo spettro della rivoluzione cubana. Il cambiamento di mentalità del corpo ufficiali, in seguito all'addestramento antisovversivo ricevuto negli Stati Uniti, e l'impatto delle dottrine militari francesi in fatto di conflitto politico e di guerra civile generarono la teoria della sicurezza nazionale, che contemplava anche lo sviluppo socioeconomico come risposta alla sovversione interna. La diminuzione del reddito dell'ampia classe media salariata ne determinò una disaffezione nei confronti di un sistema formalmente democratico e una pronta risposta all'appello per la legge e l'ordine. Il divario tra richieste e relative soddisfazioni e tra differenziazione e integrazione portò a una situazione che è stata definita di 'pretorianesimo di massa' (v. Huntington, 1968).
Le istituzioni politiche e i parlamenti furono ulteriormente indeboliti e l'esecutivo si trovò al centro di un'ondata di richieste. I governi furono ingannati e collaborarono con il 'pretorianesimo'. La situazione arrivò a un punto morto, con elevati livelli di conflitto incontrollato; la debolezza del governo, che impediva l'attuazione di qualsiasi politica, e l'ansia di conservare il potere portarono a una serie di politiche volte a placare i personaggi politici più minacciosi, con scarso interesse per la reale soluzione dei problemi. La competizione si avvicinava sempre più a una situazione di stallo e i progressi erano precari. Si arrivò così alla soglia di una crisi definitiva, quando la maggior parte dei protagonisti politici si impegnò a cambiare completamente le regole del gioco politico.La modernizzazione aveva fatto emergere una classe di tecnocrati, che auspicavano la formazione di governi disposti a garantire loro un potere decisionale. Queste élites si trovarono a operare in un ambiente nuovo; nacquero nuove scuole aziendali, accademie militari avanzate e nuove iniziative editoriali capaci di orientare l'opinione pubblica. Come ha dimostrato Stepan (v., 1973), apparve una nuova mentalità. Data la loro formazione, queste élites privilegiavano la soluzione tecnica dei problemi, respingevano gli aspetti emotivi, erano consapevoli delle ambiguità insite nelle contrattazioni, consideravano la politica un ostacolo alle soluzioni razionali e il conflitto una disfunzione.In contesti altamente modernizzati, il tentativo di escludere e neutralizzare il settore popolare, senza offrirgli contropartite psicologiche o economiche, richiese misure coercitive decise e sistematiche.
La risposta fu l'autoritarismo burocratico, che soppresse i partiti politici e le elezioni, addomesticò i sindacati attraverso la cooptazione, se non la coercizione, e tentò di incapsulare con la burocrazia la maggior parte dei settori sociali per massimizzarne il controllo. O'Donnell collega il suo modello a quello presentato da Barrington Moore (v., 1966), parlando però di una terza via storica all'industrializzazione, accanto alla rivoluzione borghese e a quella comunista. Questa terza via comporta la coalizione fra la burocrazia statale e le classi dei possidenti (compresa una borghesia industriale subalterna) contro i contadini e un proletariato emergente. Questo modello non è rimasto esente da critiche (v. Collier, 1979). Crisi politiche più specifiche, i fallimenti della leadership, l'impatto del terrorismo, i conflitti istituzionali fra presidenti e Congresso, l'alienazione dell'esercito in seguito a iniziative presidenziali mal consigliate sono stati tra i fattori che portarono al crollo della democrazia.
Dopo solo due decenni in America Latina gli autoritarismi burocratico-militari entrarono in crisi e in Uruguay, in Argentina e in Brasile ebbe luogo una transizione verso la democrazia. Questi regimi, in un contesto culturale che identificava la legittimità con i valori democratici, in un mondo largamente ostile alla loro politica repressiva, resisi responsabili di una politica economica fallimentare, sconfitti nella guerra delle Falkland-Malvinas, delegittimati (soprattutto in Argentina) in quanto autori di una repressione illegale, imprevedibile e crudele, incontrarono una resistenza sempre maggiore. La rinascita della società civile attraverso il ripristino delle associazioni, della stampa, dei sindacati, la posizione critica della Chiesa (in Brasile), gli errori di valutazione riguardo all'appoggio che potevano incontrare i loro schemi costituzionali (in Uruguay), indussero alcuni leaders a cercare forme di liberalizzazione - la distencão - e un processo di transizione controllata - l'apertura - (in Brasile), un'uscita di scena negoziata o un'abdicazione al potere. La transizione non è ancora completa ed è minacciata di tanto in tanto dai retaggi del passato, in particolare dalle violazioni dei diritti umani (in Argentina) e dalla difficoltà di ridurre le prerogative dell'esercito (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986; v. Stepan, 1988).
Alcuni regimi autoritari, che perseguono politiche molto diverse in termini di interessi di classe e di organizzazione dell'economia, hanno tentato di andare oltre il governo autoritario di tipo burocratico-tecnocratico-militare controllando la partecipazione e la mobilitazione della società mediante 'strutture organiche'. Il rifiuto dei presupposti individualistici della democrazia liberale, unito al desiderio di fornire un canale istituzionale attraverso cui gli interessi eterogenei delle società moderne o in via di modernizzazione potessero essere rappresentati evitando il modello del conflitto di classe, ha prodotto una vasta gamma di formulazioni teoriche e ideologiche e svariati tentativi di renderle operanti attraverso istituzioni politiche.Il retaggio ideologico del conservatorismo controrivoluzionario ottocentesco, che respingeva sia il liberalismo individualista che l'assolutismo statale, e le reazioni di settori pre-industriali - quali gli artigiani, i contadini e, a volte, persino i professionisti - all'avanzata del capitalismo industriale e finanziario hanno dato origine a un insieme di ideologie corporative (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974). La risposta antiliberale, anticapitalistica e antistatalista fornita dalla Chiesa cattolica in encicliche come la Rerum Novarum ha contribuito alla fortuna di queste ideologie. La tradizione sindacalista del movimento operaio, che rifiutava l'autoritarismo marxista, il persistere dello Stato come strumento di oppressione e la cooptazione del movimento operaio socialdemocratico dei lavoratori, tramite la sua partecipazione alle elezioni e alla politica parlamentare, hanno contribuito alla ricerca di forme di partecipazione da attuarsi tramite l'istituzione di consigli indipendenti dei produttori a livello di fabbrica e di comunità, destinati a creare di comune accordo organizzazioni più estese. Persino alcuni liberali democratici, temendo l'accrescersi del potere dello Stato e l'anomia di individui isolati, imputabile alla divisione del lavoro e alla crisi delle istituzioni tradizionali, si sono resi conto che le organizzazioni professionali corporative sarebbero potute servire al controllo sociale (v. Durkheim, 1902).
La disponibilità delle forze conservatrici antirivoluzionarie, cattoliche, sindacaliste e liberalsolidariste ha dato i suoi frutti sotto forma di formulazioni teoriche, leggi e commentari giuridici.
Perché il corporativismo si è andato identificando con i regimi autoritari ed è diventato, come puntualmente lo caratterizza Stepan, statalismo organico? Le ragioni sembrano tre: le difficoltà logiche e pratiche di organizzare la vita politica come espressione esclusiva di interessi 'corporativi'; l'obiettivo sociopolitico perseguito nel determinato contesto storico-sociale in cui tali soluzioni sono state messe in pratica; la natura della comunità politica e dello Stato nonché le tradizioni intellettuali e giuridiche su cui si basa l'idea di Stato.I teorici della democrazia organica sottolineano che le persone fanno parte di numerosi gruppi naturali, basati su relazioni sociali primarie - relazioni che si instaurano sul luogo di lavoro, nelle associazioni professionali, nelle università, nei quartieri, ecc. -, in contrasto con gruppi più estesi creati artificialmente, come i partiti politici. La teoria propone quindi elezioni su più livelli, cioè indirette, all'interno di una serie di collegi elettorali basati sul raggruppamento di tali unità primarie, fino ad arrivare a una camera nazionale di corporazioni (v. Aquarone, 1965) o ad una serie di camere specializzate, allo scopo di organizzare, sulla base di questa democrazia indiretta, una politica democratica nazionale, anche quando sembrerebbe difficile ottenere di rendere responsabile la leadership nazionale nei confronti dei singoli cittadini.
Questo modello è inficiato da alcuni assunti falsi: il presupposto che tali unità primarie rappresentino interessi comuni anziché essere divise da conflitti interni; il presupposto che, a livello nazionale, non esistano interessi più importanti di quelli rappresentati dalle unità primarie e che tali interessi, di portata più generale, non dividano la società e non meritino di essere rappresentati. Se esistono interessi del genere, è lecito supporre che i partiti, basati sull'aggregazione di un gran numero di interessi generali, si affermerebbero comunque su scala nazionale, mentre i rappresentanti eletti secondo il sistema corporativo non disporrebbero di alcuna base su cui prendere decisioni circa tali interessi e non sarebbero scelti per le loro opinioni in merito.Il problema di delimitare i collegi elettorali è più serio. Limitarsi a riconoscere le organizzazioni preesistenti, formatesi spontaneamente, rivelerebbe quanto sia diseguale la mobilitazione organizzativa di vari interessi; pertanto lo Stato si assume inevitabilmente il compito di stabilire delle categorie non competitive in modo funzionale, legalizzandole o autorizzandole e concedendo loro un monopolio della rappresentanza. Risulta più difficile scegliere quale peso assegnare, nel processo decisionale, agli interessi organizzati e quale criterio adottare per conferire una rappresentanza a interessi non economici e non professionali. Le scelte sarebbero soggette a continue revisioni, con conseguenti modifiche della struttura economica e sociale, al cui confronto i conflitti concernenti la distribuzione dei collegi elettorali nelle democrazie 'inorganiche' apparirebbero come un gioco da ragazzi. Le decisioni autoritarie dei burocrati e/o dei gruppi politici al governo predeterminerebbero la natura e la composizione dei corpi decisionali, che quindi sarebbero tutt'altro che un prodotto organico della società.
Da un punto di vista sociologico, come ha notato Max Weber, la funzione latente di ogni sistema di questo tipo è di privare del diritto di voto determinati strati sociali. Può trattarsi di un sistema estremamente conservatore (quando concede mandati politici alle categorie professionali, privando così, di fatto, del diritto di voto le masse più numerose) o radicalmente rivoluzionario (quando limita in modo formale e aperto il suffragio al proletariato, privandone così quelle classi il cui potere si fonda sulla posizione economica). È questo che ha indotto i regimi autoritari a preferire la rappresentanza corporativa, soprattutto nelle società in cui le masse di operai, braccianti e contadini potrebbero conferire la maggioranza ai partiti classisti di massa. Tutto ciò, oltre alla possibilità di manipolare i responsi elettorali facendo ricorso a elezioni indirette e su più livelli, spiega l'esistenza di sistemi politici basati su principî del genere.
Su molte questioni i rappresentanti di interessi finirebbero col non avere un'opinione e sarebbero disposti a dare il loro voto in cambio di misure che favorissero i loro interessi particolari. Il potere finisce in mano a un gruppo dominante che organizza il sistema, assegna le quote di rappresentanza, arbitra i conflitti tra interessi e prende decisioni su tutte le questioni che esulano dagli interessi dei rappresentanti. Anche a proposito di sistemi basati sulla democrazia organica sarebbe meglio parlare di 'statalismo organico': in tali sistemi le élites burocratico-tecnocratico-militari e/o i leaders di un partito unico detengono la quota maggiore del potere.
Le strutture corporative costituiscono uno dei tanti elementi di questi sistemi, ma, anche se deboli, rappresentano, soprattutto a livello di base, un limite alle ambizioni monistiche dell'élite politica, che tenta di mobilitare una società per i propri scopi utopistici.In nessun sistema politico è previsto che il governo debba rendere conto a un'assemblea legislativa di tipo corporativo. Anche se da un punto di vista puramente teorico la partecipazione politica potrebbe essere organizzata attraverso collegi elettorali corporativi ed elezioni corporative, non è mai esistita una democrazia senza partiti politici.Lo statalismo organico rappresenta una tentazione soprattutto per le élites burocratiche, militari e tecnocratiche, che respingono l'idea di un conflitto aperto e credono in soluzioni razionali, in ultima analisi amministrative, dei conflitti d'interesse, e non sono guidate da una visione utopistica della società, ma piuttosto da considerazioni pragmatiche. Lo statalismo organico si addiceva a un sistema economico che respingeva il capitalismo basato sul libero mercato e sull'impresa, ma anche la proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata. La disillusione nei confronti della democrazia liberale e di un sistema economico puramente capitalistico ha costituito un terreno fertile per l'accettazione di soluzioni corporative.
Parecchi regimi autoritari hanno attinto alle idee della democrazia organica per legittimare il proprio governo e per organizzare una partecipazione limitata. L'Estado Novo portoghese costituito da Salazar rappresenta, da un punto di vista teorico, il caso più puro (v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974; v. Lucena, 1976). Come avvenne in Austria tra il 1934 e il 1938 con Dollfuss e in Spagna con Franco, dopo un periodo fascista pre-totalitario, i governanti, combinando un'eredità ideologica cattolica con l'esperienza fascista italiana, crearono sistemi con una componente di democrazia organica. Mussolini, collegandosi all'inizio con la tradizione sindacalista, rafforzata dall'eredità intellettuale del nazionalismo di destra, e cercando l'approvazione dei cattolici, costruì una sovrastruttura corporativa, che serviva gli interessi conservatori privando del diritto di rappresentanza una classe operaia altamente mobilitata e fornendo un canale di espressione ai molteplici interessi in gioco in una società relativamente sviluppata.
Le forti tendenze pre-totalitarie di molti leaders fascisti e il concetto di 'Stato etico', al di sopra degli interessi, mutuato dalla tradizione idealistica, crearono, tuttavia, un equilibrio instabile tra le due componenti del regime: quella corporativa e quella di mobilitazione, propria del partito unico. In Perù l'esercito tentò un esperimento analogo, creando il SINAMOS (Sistema Nacional de Apoyo a la Mobilizacion Social) in campi diversi, quali i pueblos jovenes, le periferie urbane più diseredate e le organizzazioni rurali, giovanili, operaie, culturali, professionali ed economiche. In una fase iniziale l'idea dei soviet (consigli di operai, o di operai, contadini e soldati) esercitò un fascino notevole sui rivoluzionari avversi al partito socialdemocratico marxista (disposto a far parte di regimi democratici parlamentari), in quanto essi vedevano nei soviet un mezzo per espropriare del diritto di rappresentanza altri settori della società e per fornire un efficace terreno di scontro agli attivisti rivoluzionari, pronti a soppiantare la leadership degli altri partiti di sinistra. Tuttavia il partito d'avanguardia fece a meno di questa forma di partecipazione. Anche la Jugoslavia, con la gestione operaia e l'autogoverno locale, creò un sistema di camere a carattere corporativo, complementari alla struttura politica basata sul partito, sulle sue organizzazioni funzionali e sull'oligarchia rivoluzionaria.
La rivoluzione democratica dell'Europa occidentale si propagò in società molto diverse fra loro sotto il profilo dello sviluppo economico, culturale e istituzionale. In molte di esse la successione delle crisi di sviluppo - costruzione dello Stato, legittimazione, partecipazione, incorporazione di nuove forze sociali, rappresentanza negli organi legislativi e infine partecipazione al potere esecutivo - si concentrò in un breve periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi lo sviluppo economico non procedette di pari passo con il mutamento politico. Si diffusero ideologie di protesta elaborate in società più avanzate e sorsero nuovi movimenti, che, oltre ad avanzare richieste di ridistribuzione della ricchezza e di partecipazione, si fecero portavoce dell'ostilità nei confronti dei mutamenti dovuti all'industrializzazione incipiente e alla disgregazione dei modelli economici e sociali tradizionali. L'accavallarsi di queste crisi durante il periodo di democratizzazione politica, mentre le istituzioni e le élites tradizionalmente legittime erano assenti o troppo deboli, impedì l'istituzionalizzazione graduale e coronata da successo di processi democratici capaci di assimilare le richieste di nuovi gruppi sociali da poco consapevoli della propria identità culturale o di classe. La crisi della democrazia avrebbe portato a nuove formule politiche, compresa la componente plebiscitaria pseudodemocratica: il partito unico di massa.
Quelle società, tuttavia, avevano raggiunto un livello di sviluppo e di complessità tali da rendere difficile alla leadership del partito unico spingersi in direzione totalitaria, tranne che nella Germania nazista. Non è un caso che, essendo la Francia il paese in cui il mutamento rivoluzionario aveva determinato la rottura maggiore con l'autorità tradizionale, il primo manifestarsi di una soluzione plebiscitaria, non liberale e autoritaria della crisi della democrazia sia stato il bonapartismo. Non è sorprendente che alcuni marxisti, come Thalheimer (v., 1930), si siano valsi dell'analisi di Marx sul diciotto brumaio per comprendere i recenti regimi autoritari creati dal fascismo.
Alla fine della prima guerra mondiale, la crisi delle società europee fece emergere due movimenti politici che ruppero con i sistemi liberaldemocratici: il leninismo e il fascismo. Erano entrambi basati sul dominio di una minoranza, un'élite autoelettasi a rappresentare la 'maggioranza', il proletariato o la nazione, al servizio di una missione storica; un'élite definita non da caratteristiche ascrittive né da successi professionali, ma dalla volontà di conquistare il potere e utilizzarlo per rovesciare condizioni storiche e sociali costrittive, ricorrendo all'appoggio delle masse, ma senza alcuna intenzione di farle interferire nel raggiungimento dei propri obiettivi. Il fascismo, in quanto risposta nazionalista all'internazionalismo ideologico del marxismo, collegandosi ad altre tradizioni ideologiche del XIX secolo - l'irrazionalismo romantico, il darwinismo sociale, l'esaltazione hegeliana dello Stato, le idee di Nietzsche, le concezioni soreliane del ruolo del mito, l'immagine del grande uomo e del genio - diventò esplicitamente antidemocratico (v. Gregor, 1969; v. Nolte, 1966, 1967 e 1968). In contrasto con altre concezioni dell'autoritarismo, esso cercò una nuova e diversa forma di legittimazione democratica, basata sull'identificazione emotiva dei seguaci con il leader, cioè su quella forma di consenso plebiscitario che si era manifestata per la prima volta nel cesarismo napoleonico.
Le circostanze eccezionali in cui si trovava la società italiana dopo la prima guerra mondiale generarono un nuovo tipo di movimento, non tradizionalista, popolare e antidemocratico, portato avanti all'inizio da un numero ristretto di attivisti reclutati tra i nazionalisti interventisti, i veterani di guerra, un certo tipo di intelligencija, ebbra di nazionalismo, di futurismo e di ostilità per il trasformismo giolittiano e per l'egoismo della borghesia, e i sindacalisti rivoluzionari, che avevano scoperto la loro identità nazionale (v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Gentile, 1985). Tuttavia ciò che creò le condizioni favorevoli al successo del movimento fu la mobilitazione della classe operaia italiana, promossa da un movimento operaio socialista massimalista, incapace di attuare una presa del potere rivoluzionaria e restio a seguire una via riformista. Il predominio delle sinistre nelle campagne settentrionali e l'occupazione delle fabbriche spinsero una borghesia impaurita a sostenere il movimento nascente.
L'atteggiamento ambivalente dello Stato verso le azioni terroristiche dello squadrismo, il mancato appoggio dei riformisti allo Stato liberale democratico e le tensioni tra i vecchi partiti liberali, da una parte, e i socialisti e il nuovo Partito popolare dall'altra, insieme alla mancanza di scrupoli e all'opportunismo di Mussolini, portarono il nuovo movimento al potere. Erano nati così un'ideologia nuova e sfaccettata, una nuova forma di azione politica e un nuovo stile, che avrebbero trovato eco in gran parte dell'Europa (v. Nolte, 1966 e 1968; v. Laqueur, 1978; v. Rogger e Weber, 1966; v. Payne, 1980; v. Larsen e altri, 1980) e persino in America Latina e in Asia. In un primo momento si poteva pensare che il fascismo fosse una conseguenza peculiare della crisi italiana (v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Nolte, 1968), più tardi che fosse una risposta a uno sviluppo economico e a una modernizzazione tardivi e mal riusciti (v. Borkenau, 1933); ma in seguito al successo di Hitler divenne necessario spiegarlo in termini di alcune caratteristiche fondamentali della società occidentale.
Come ideologia e come movimento il fascismo può essere caratterizzato in base a ciò che rifiuta, al suo nazionalismo esasperato e alle nuove forme di azione e di stile politici che introduce. Ciò a cui il fascismo si oppone è essenziale per comprenderne la natura e il fascino, ma non basta a spiegarne il successo. Il fascismo è antiliberale, antiparlamentare, antimarxista, e soprattutto anticomunista, anticlericale, o perlomeno non clericale, e, in un certo senso, antiborghese e anticapitalista. Pur riallacciandosi alla tradizione storica nazionale, reale o presunta, non propugna una continuità conservatrice col passato recente o un ritorno ad esso puro e semplice, ma è proiettato verso il futuro.
Quelle posizioni antagonistiche sono la conseguenza logica del suo approdo tardivo sulla scena politica e del suo tentativo di prendere il posto dei partiti di ispirazione liberale, marxista, socialista e clericale. Esse sono anche il frutto del nazionalismo esasperato, che rifiuta la solidarietà di classe al di là dei confini nazionali e la sostituisce con la solidarietà tra tutti i produttori di una nazione contro le altre, ricorrendo al concetto di nazione proletaria: i paesi poveri contro le ricche plutocrazie, che si dà il caso fossero anche potenti democrazie.
Queste posizioni negative avevano una specie di distorto complemento positivo. L'antimarxismo è compensato da un'esaltazione del lavoro, che fa appello alla crescente classe media impiegatizia, la quale rifiuta di identificarsi con il proletariato secondo la richiesta marxista. Il suo populismo induce il fascismo a sostenere politiche da Stato assistenziale e a parlare di socialismo nazionale, di socializzazione delle banche, ecc., giustificando così l'interventismo economico e lo sviluppo di un importante settore pubblico.
L'anticapitalismo, che fa presa sugli strati precapitalistici e piccolo borghesi, è ridefinito come ostilità nei confronti della borsa valori finanziaria internazionale e del capitalismo ebraico e come esaltazione della borghesia imprenditoriale nazionale. L'enfasi posta sul bene comune della nazione si combina facilmente con l'ostilità per il libero gioco degli interessi del liberalismo economico e trova espressione in scelte politiche protezionistiche e autarchiche, che incontrano il favore degli industriali minacciati dalla concorrenza internazionale. L'ostilità nei confronti delle politiche clericali nutrita da un'intelligencija laica composta da nazionalisti accaniti e la competizione tra forze laiche e partiti democraticocristiani per la conquista della stessa base sociale sono all'origine dell'anticlericalismo, che va di pari passo con la tesi secondo cui la tradizione religiosa fa parte della tradizione storico-culturale nazionale. La Guardia di Ferro, l'unico movimento fascista che abbia avuto successo in un paese greco-ortodosso, dovendo fronteggiare una borghesia laica non animata da sentimenti nazionalisti e un'influente comunità ebraica, fece più direttamente ricorso al simbolismo religioso.
In Germania le confuse dichiarazioni programmatiche a proposito del cristianesimo positivo e l'appoggio dato da molti protestanti a una religione di Stato conservatrice furono utilizzati dai nazisti, ma alla fine l'ideologia razzista divenne incompatibile con qualsiasi forma di impegno cristiano. Le prese di posizione antireligiose del marxismo e del comunismo permisero ai fascisti di trarre vantaggio dal rapporto ambivalente con l'eredità religiosa. Il loro anticlericalismo fece presa sulle classi medie laiche, per nulla intenzionate ad appoggiare i partiti clericali e democraticocristiani, mentre le loro prese di posizione antiliberali, antimassoniche e persino antisemite, insieme al loro anticomunismo, facilitarono la collaborazione con le chiese, quando giunsero al potere. L'atteggiamento antiborghese e l'esaltazione romantica del contadino, dell'artigiano e del soldato si contrapponevano al capitalismo impersonale e alla borghesia egoista, richiamandosi alla critica della moderna società industriale e urbana. Il rifiuto dell''egoismo di classe' del proletariato e dell'egoismo individuale borghese e l'affermazione dei comuni interessi nazionali al di sopra e al di là delle divisioni di classe fecero leva sul desiderio di solidarietà interclassista sviluppatosi tra i veterani di guerra.
Tutti questi appelli deliberatamente ambigui e in larga parte contraddittori sarebbero rimasti, e rimasero, inascoltati in quelle società in cui la guerra e la sconfitta non avevano provocato una crisi seria. Nelle nazioni sconfitte o in quelle che, come l'Italia, pur vittoriose, si sentivano private dei frutti della vittoria, l'ondata nazionalista venne incanalata dai nuovi partiti.L'ideologia fascista dovette respingere i presupposti della politica liberaldemocratica basata sulla partecipazione pluralistica, sulla libera espressione e sulla mediazione degli interessi, anziché sull'affermazione degli interessi collettivi al di sopra degli individui, delle classi e delle comunità culturali e religiose. L'evidente deformazione dell'idea di democrazia nei primi anni del XX secolo e l'incapacità della leadership democratica di istituzionalizzare meccanismi di risoluzione dei conflitti crearono un terreno favorevole alla fortuna del fascismo. Gli interessi minacciati da un potente movimento operaio imbevuto di retorica rivoluzionaria, soprattutto dopo alcuni tentativi rivoluzionari falliti, sostennero le squadre fasciste in quanto paladine dell'ordine sociale. L'ideologia fascista offrì una nuova alternativa, che prometteva l'integrazione della classe operaia nella comunità nazionale e l'affermazione dei suoi interessi contro le altre nazioni, se necessario mediante una mobilitazione e persino un'aggressione militare (v. Neumann, 1942).
Né i suoi richiami ideologici, né gli interessi che servì bastano a spiegare il successo del fascismo. Il fascismo sviluppò nuove forme di organizzazione politica, diverse tanto dai partiti basati sul sostegno elettorale e da quelli socialisti di massa a base sindacale, quanto dai partiti religiosi a guida clericale. Come la controparte comunista, il fascismo offrì un'occasione di partecipazione, che interrompeva la monotonia della vita quotidiana. A una generazione che aveva vissuto azioni di guerra eroiche e avventurose e - ancor più - a una che, data la giovane età, aveva vissuto quell'esperienza indirettamente, lo squadrismo e le camicie nere offrirono un buon surrogato. Molti di quelli le cui carriere e i cui studi erano stati irrimediabilmente interrotti dalla guerra e dalla crisi economica e alcuni disoccupati divennero attivisti del partito; l'intervento diretto degli attivisti a sostegno di specifiche rimostranze - come quelle dei contadini destinati a essere sfrattati, degli agricoltori cui i sindacati stavano imponendo l'impiego di manodopera, degli industriali minacciati dagli scioperanti - procurò loro un appoggio che nessuna propaganda elettorale avrebbe potuto ottenere. Questo nuovo stile politico soddisfaceva, come nessun altro, alcuni bisogni psicologici ed emotivi.Infine il fascismo era caratterizzato da uno stile peculiare, che si rifletteva nelle uniformi - le camicie -, simbolo della rottura con le convenzioni borghesi e con l'individualismo dell'abbigliamento borghese, nelle dimostrazioni e nelle cerimonie di massa, che permettevano agli individui di immergersi nel collettivo e di sfuggire alla privatizzazione della società moderna.
Le ambiguità e le contraddizioni dell'utopia fascista, insieme agli inevitabili compromessi raggiunti, sul piano pragmatico, con molte delle forze dapprima criticate, spiegano il fallimento del modello, tranne che in Italia (fino a un certo punto) e in Germania. Il nucleo iniziale avrebbe dovuto conquistarsi un sostegno in tutti gli strati sociali, e in particolare nella classe operaia, oltre che tra i contadini, ma la penetrazione organizzativa dei movimenti operai socialista, comunista e anarcosindacalista condannò tali speranze al fallimento. In alcuni paesi i contadini cattolici, le classi medie e persino molti operai avevano aderito ai partiti democratici clericali e/o cristiani, impegnati nella difesa della religione, e avevano trovato nella dottrina sociale della Chiesa una risposta a molti dei problemi che il fascismo presumeva di poter risolvere. Le classi medie e medio-alte, a meno che non fossero state terrorizzate dai tentativi rivoluzionari abortiti, o rovinate dalle continue crisi economiche o sradicate dalla guerra, rimasero fedeli ai vecchi partiti.L'eterogeneità della base e l'incapacità di conquistare gli strati sociali a cui si rivolgevano, che si spiegano con il loro ingresso tardivo sulla scena politica, indussero i fascisti a un'incessante lotta per conquistare il potere e a una politica di alleanze opportunistiche con una serie di gruppi di potere e con forze conservatrici non democratiche o antidemocratiche, che a loro volta speravano di poter manipolare la loro popolarità e il loro seguito di attivisti.
Tali gruppi, ben radicati nell'establishment e nello Stato, potevano fornire uomini più capaci di governare. Il risultato fu l'instaurazione di regimi autoritari - a pluralismo notevolmente limitato - guidati da un partito unico, che, a seconda dei casi, occupava una posizione abbastanza preminente e attiva o svolgeva un ruolo minore all'interno della coalizione di forze. Solo in Germania il partito unico sarebbe diventato dominante fino a fondare un regime totalitario. Il fascismo introdusse una componente populista di mobilitazione, un canale per un certo livello e un certo tipo di partecipazione politica volontaria, una fonte di malcontento ideologico verso lo status quo e di giustificazione del mutamento sociale, che contraddistingue i regimi autoritari di mobilitazione. Anche dove, come in Spagna (v. Linz, 1970), questa mobilitazione fu alla fine annullata di proposito, il regime autoritario, per metà statalismo organico e per metà sistema burocratico-tecnocratico-militare, che si affermò dopo gli anni quaranta, non sarebbe mai stato identico, per esempio, al regime di Salazar, dove il fascismo non aveva mai messo radici.
I regimi autoritari fascisti di mobilitazione furono meno pluralistici, più ideologici e a maggior partecipazione dei regimi burocratico-militari o degli statalismi organici guidati da un partito unico debole. Furono più vicini alla 'democrazia' che al 'liberalismo', più disposti a offrire ai cittadini la possibilità di partecipare che la libertà individuale, più orientati al mutamento che alla conservazione. La maggior legittimazione ideologica e la maggior mobilitazione a loro sostegno li rese meno vulnerabili di altri tipi di governo autoritario all'opposizione interna e al rischio di esserne rovesciati, e solo la sconfitta esterna riuscì a distruggerli.
Regimi autoritari di mobilitazione apparvero in alcuni Stati in lotta per l'indipendenza dal dominio coloniale o in via di emancipazione dalla dipendenza da una potenza straniera. Non molti di questi regimi si sono dimostrati stabili: in alcuni casi colpi di Stato militari hanno escluso i civili dal governo (v. Jackson e Rosberg, 1982; v. Bienen, 1968 e 1974; v. Lee, 1969; v. Welch, 1970); in altri si è avviato un processo di decadenza, che spesso ha dato origine a uno Stato senza partiti (v. Wallerstein, 1966; v. Potholm, 1970; v. Bretton, 1973).
Regimi autoritari di mobilitazione a partito unico non creati dall'alto da chi deteneva il potere, ma da leaders emersi dalla base e capaci di mobilitarla, furono possibili in società a basso sviluppo economico, con una struttura sociale contadina relativamente egualitaria, in cui la moderna élite economica era ristretta e spesso costituita da stranieri o da membri di un gruppo etnico esterno e in cui le autorità coloniali non avevano permesso né incoraggiato la crescita di una classe media di professionisti, di funzionari statali dotati di un rango e di una dignità specifici e di un esercito professionale. Il dominio coloniale aveva distrutto o screditato le autorità tradizionali pre-coloniali, perlomeno agli occhi dei settori urbani emergenti, istruiti e più modernizzati. In questo contesto, tra coloro che si erano formati all'estero o nelle poche scuole create dal potere coloniale, si affermò una nuova leadership nazionalista, i cui membri venivano a volte incoraggiati a diventare leaders sindacali o rappresentanti delle nuove istituzioni di autogoverno dai partiti della sinistra e da qualche intellettuale nazionalista (v. Wallerstein, 1961; v. Hodgkin, 1961; v. Carter, 1962; v. Coleman e Rosberg, 1964).
Questi leaders si fecero portavoce delle rivendicazioni della popolazione indigena, degli operai e dei contadini, colpiti dallo sconvolgimento dell'ordine tradizionale, dovuto al mutamento economico e all'introduzione di istituzioni giuridiche occidentali. Le autorità coloniali alternavano la repressione alla cooptazione, politiche che, soprattutto se applicate in modo incoerente, contribuirono a rafforzare questa leadership emergente. In un primo momento il desiderio d'indipendenza occultò l'importanza di altri problemi; il sottosviluppo e il carattere straniero del settore economico moderno limitarono l'importanza delle politiche classiste. Nelle assemblee elette poco prima o subito dopo l'indipendenza, i rappresentanti dei movimenti nazionalisti ottennero la maggioranza relativa o assoluta, che spesso estesero cooptando i rappresentanti di gruppi più particolaristici, quali i gruppi tribali, religiosi o tradizionali. Si sperava che l'adozione degli ordinamenti costituzionali inglesi o francesi avrebbe dato vita a nuove democrazie, ma ben presto le azioni dell'opposizione, o la percezione che ne ebbero i leaders del partito al governo, l'idea di questi ultimi che una nazione andasse costruita ignorando le richieste della periferia, di settori specifici, di particolari gruppi etnici e tribali, i problemi economici e quelli creati da nuove aspettative indussero i leaders a ostacolare, limitare o eliminare la libera competizione politica ed elettorale.
In molti paesi l'indipendenza e l'assetto statuale vennero a identificarsi simbolicamente con un leader, che spesso vantava un'autorità carismatica. Il carattere artificiale dei confini, le differenze etniche, linguistiche e religiose, il divario tra lo sviluppo sociale dei pochi centri urbani e delle zone costiere e quello della periferia rurale e la debolezza delle istituzioni amministrative convinsero i leaders che il loro partito potesse servire da strumento per la costruzione della nazione. Nel contesto di una cultura politica che non aveva istituzionalizzato i valori liberaldemocratici, il partito dominante, dovendo affrontare i problemi dell'integrazione nazionale, un'opposizione non sempre leale e la paura delle influenze straniere, divenne presto un partito unico.
Alcuni leaders respinsero l'idea di un partito unico monolitico. Così si espresse ad esempio Senghor: "siamo contrari al partito unico (parti unique); siamo favorevoli a un partito unificato (parti unifié)" (v. Foltz, 1965, p. 141). Molti leaders di partiti dominanti incoraggiarono l'ingresso nei propri partiti di leaders con un forte seguito regionale, comunale, tribale o settoriale, che all'inizio avevano sostenuto i partiti d'opposizione sconfitti.I regimi a partito unico non riuscirono a reperire risorse sufficienti a sostenere la propria prospettiva di trasformare in modo radicale la società mediante metodi organizzativi. I pochi leaders politicamente consapevoli e istruiti servivano come personale di governo e dei numerosi enti governativi, a detrimento dell'organizzazione del partito. Rapporti clientelari primari e personali distolsero l'organizzazione periferica del partito dai compiti che il centro voleva assegnarle. Le discrepanze tra la retorica ideologica (v. Friedland e Rosberg, 1964) e la realtà politica e il malcontento delle nuove generazioni, che rientravano dall'estero e non trovavano posizioni di potere adeguate alle loro ambizioni, crearono tensioni con le organizzazioni giovanili, i sindacati, ecc., evitabili ponendo meno l'accento sul partito. Le formulazioni ideologiche erano in gran parte di seconda mano, ambigue e in contraddizione con le politiche pragmatiche a cui la leadership si sentiva vincolata dalla realtà sociale ed economica, e quindi non offrivano agli iscritti obiettivi chiari e immediati.
Di conseguenza il partito unico, invece di diventare uno strumento totalitario di mobilitazione, il centro monistico, divenne una componente in più nella struttura del potere. Paradossalmente, è stato sostenuto che i partiti unici avevano maggiori possibilità di sopravvivenza nelle società meno mobilitate e più arretrate che nei paesi con più risorse, dove, proprio per questo, tendeva a svilupparsi un processo inflazionistico di formazione della domanda (v. Zolberg, 1966) e dove i piani rivoluzionari contro il settore moderno dell'economia non riuscivano a provocare un vero danno.In alternativa il partito unico si trasformò da movimento di massa disciplinato e ideologico in un meccanismo flessibile, che manteneva viva la solidarietà tra i suoi membri facendo leva sui loro interessi personali, tollerando l'esistenza di fazioni e confidando più nell'attrattiva di ricompense materiali, ottenute anche tramite la corruzione, che nell'entusiasmo per principî politici. La coercizione avrebbe assunto la forma di una macchina politica (v. Zolberg, 1966 e 1969; v. Bretton, 1973).
Solo pochi partiti unici di mobilitazione sono riusciti a conservare una qualche funzione per alcuni anni dopo l'indipendenza. Quelli che non sono stati scalzati da colpi di Stato militari hanno conosciuto una notevole trasformazione. Le tipologie elaborate all'inizio sono risultate fuorvianti, perché spesso basate sull'immagine che di sé i partiti africani volevano trasmettere. La variabilità delle politiche di consolidamento dello Stato e di conquista, legittimazione e gestione del potere ha generato regimi difficili da concettualizzare se non in termini di dominio personale.
A prescindere dai camuffamenti euromorfici (forme costituzionali, partito unico, organizzazione burocratica) e dai tentativi simbolici di collegarsi alla tradizione, i nuovi Stati africani possono essere caratterizzati nel modo migliore come regimi di dominio personale. Dal punto di vista organizzativo essi hanno alcune caratteristiche in comune con il patrimonialismo descritto da Weber, benché il contesto storico-culturale sia del tutto diverso da quello delle monarchie assolute europee post-feudali, a capo di società complesse, con una Chiesa potente, una tradizione di diritto romano, governi municipali autonomi, gilde, ecc. Il concetto di neopatrimonialismo - utilizzato dagli africanisti - andrebbe quindi adoperato con cautela. Nei casi che Jackson e Rosberg (v., 1982) definiscono 'tirannie' (Amin, Macias, Bokassa, Mobutu) il patrimonialismo assume la forma definita da Weber 'sultanismo'. Anziché descrivere i diversi casi di dominio personale in termini di orientamenti ideologici e di politiche, distinguendo quelli ispirati al pensiero marxista (Sekou Ture) da quelli più concilianti nei confronti degli interessi occidentali (Houphouet-Boigny), studiosi come Jackson e Rosberg hanno tentato di descriverne le differenze in base ai rapporti tra i governanti e i loro collaboratori, da una parte, e la società, dall'altra.
A loro avviso, nell'Africa subsahariana, la politica si occupa più della gestione del potere che dell'attuazione di un qualche indirizzo politico; Machiavelli e persino Hobbes ci offrono paradigmi più efficaci, per comprenderla, di quanto non facciano Marx e molte teorie contemporanee. Essi sottolineano la scarsa differenza tra i governanti con una preparazione militare e i civili, tra coloro che si sono serviti di un partito politico per conquistare il potere e coloro che lo hanno creato una volta al potere.Il dominio personale è un sistema di relazioni che non collega (perlomeno non direttamente) i governanti al 'pubblico', né ai sudditi, ma piuttosto ai notabili, agli alleati, ai clienti, ai sostenitori e ai rivali che costituiscono il 'sistema'. Non sono le istituzioni, ma gli stessi politici a strutturare il sistema; e questa dipendenza dalle persone spiega la sua sostanziale vulnerabilità. Esso è drasticamente restrittivo nei confronti delle libertà politiche, mentre è in genere tollerante (salvo che nei regimi tirannici) verso i diritti non politici.
I governanti dispongono di una competenza giuridica pressoché illimitata. Utilizzano, combinandoli in vari modi: 1) la cooptazione e la consultazione; 2) il clientelismo; 3) il patto e l'accordo; 4) l'intimidazione e la coercizione. Dalla sorte del leader dipende quella della classe politica che lo sostiene e spesso la solidità dell'ordinamento politico. Se aggiungiamo le restrizioni e le incertezze determinate da fattori politici ed economici esterni e la povertà di cui soffrono i paesi dove vige questo tipo di regime, paesi che dipendono da poche esportazioni di prodotti primari, soggette a fluttuazioni dei raccolti dovute al clima, possiamo comprendere l'instabilità del dominio personale.
Un altro fattore da considerare è l'assistenza militare ed economica fornita dall'estero, anche da paesi confinanti, ai governanti o agli esuli e ai ribelli. Il dominio personale è quindi caratterizzato dal paradosso di un potere relativamente autonomo, e persino arbitrario, ma soggetto a vincoli e incapace di realizzare politiche per la mancanza di risorse e di funzionari esperti.
Jackson e Rosberg distinguono quattro tipi ideali di dominio personale: il principesco, l'autocratico, il profetico e il tirannico. Il tipo profetico caratterizza in misura maggiore alcuni dei capi fondatori, come Nkruhma e Nyerere, e si avvicina agli ideali, se non alla realtà, dei regimi di mobilitazione a partito unico. La distinzione tra principi e autocrati getta luce su questo tipo di regime autoritario. Il principe è un osservatore astuto e un manipolatore di luogotenenti e di clienti; egli tende a governare insieme con altri oligarchi e a coltivarne la lealtà, tenendo sotto controllo la loro tendenza a sopraffarsi a vicenda. Alcuni principi, come Kenyatta o Kaunda, sono stati artefici dell'indipendenza del proprio paese; il loro più eminente rappresentante è stato Leopold Senghor, il dotto presidente del Senegal. L'autocrate si distingue per la maggior libertà di azione e per l'ostilità verso la politica dei politici e verso il potere e l'autorità altrui; egli costringe alla cospirazione o all'esilio coloro che rifiutano di diventare suoi dipendenti. Il potere dell'autocrate è basato sulla sua abilità e sulla sua esperienza personali, difficilmente trasferibili a un altro leader. Questo fatto, unito alla minore probabilità che siano disponibili politici capaci ed esperti, in grado di assicurare una successione pacifica, fa nascere una condizione di instabilità, finché qualcun altro non si impadronisce saldamente del potere e non impara a esercitare un dominio personale.
Né il dominio personale di tipo principesco, né quello autocratico trasformano la struttura sociale (come quello profetico tenta di fare e quello tirannico fa tramite la coercizione e la corruzione), ma la manipolano, la controllano e la subordinano a sé. Il pluralismo sociale è ancora vivo, ma, dato il retaggio delle società africane e del colonialismo, è fondamentalmente debole. D'altra parte è pur vero che nei centri più moderni la stampa, i professionisti, svariate associazioni, ecc. tentano di affermare la propria autonomia, mentre in altre zone i governanti tradizionali, o i loro discendenti, i capi di clan locali o di tribù e i notabili religiosi non possono essere ignorati, persino quando, sotto il dominio di un autocrate, non partecipano al potere. Strutture moderne, quali l'esercito e la burocrazia, non vanno confuse con i rispettivi modelli europei, perché prima del colonialismo in pratica non esistevano, i loro vertici se ne andarono alla fine del dominio coloniale e l'africanizzazione le ha del tutto trasformate. Il dominio personale dunque è più imprevedibile, più paternalistico o arbitrario, in potenza persino più oppressivo, tirannico e corruttore, ma tutto sommato più debole e più instabile, degli altri regimi autoritari più 'strutturati'.
Questo carattere informe (v. Sartori, 1976) ostacola gli sforzi diretti a costruire istituzioni democratiche, in quanto i politici eletti democraticamente non erediteranno strutture istituzionalizzate operanti secondo procedure giuridiche formali. Il fallimento, in situazioni di crisi, dei funzionari eletti democraticamente, la loro inefficienza e la loro corruzione legittimeranno i leaders militari a rovesciarli e a ricominciare il ciclo del dominio personale illegale e, dopo breve tempo, illegittimo. Nelle società più moderne, come la Nigeria o il Ghana, le richieste di ritorno alla democrazia si riproporranno e il ciclo potrebbe ricominciare da capo (v. Diamond, Linz e Lipset, 1988-1989). Sebbene coloro che esercitano un dominio personale vantino, e a volte abbiano, un certo carisma che li circonda di un'aura pseudoreligiosa, la loro legittimazione non è basata su quella che è stata definita una 'religione politica', un'ideologia politica sacralizzata, come nei sistemi totalitari, né può essere confusa con la tradizionale autorità sacralizzata premoderna del dispotismo orientale, incarnata dall'imperatore cinese, dai sultani turchi, o persino dal cesaropapismo bizantino o russo. Con la parziale eccezione di un autocrate tradizionale come Hailè Selassiè in Etiopia e di alcuni governanti arabi, la religione non serve da fonte di legittimazione del dominio personale.
Nell'autoritarismo africano non è facile separare gli elementi derivati dall'Occidente, in particolare il partito unico di mobilitazione ispirato al modello comunista, gli elementi di patrimonialismo propri del governante e della sua famiglia, degli amici e dei clienti, collegati alla corruzione in società dove il controllo del potere statale e del settore pubblico è quasi l'unica fonte di ricchezza e di status, gli elementi derivati dai tentativi di richiamarsi a una cultura o a una tradizione indigene, spesso inventate per dare un senso al potere, e infine la repressione e il sospetto ai danni di nemici effettivi o potenziali, atteggiamenti che allignano in Stati la cui integrazione attraverso fratture etniche, tribali, cultural-religiose risulta incerta.
Pochi problemi fanno discutere di più del modo di concettualizzare i mutamenti verificatisi in Unione Sovietica e in alcuni paesi comunisti dell'Est nella fase che precede l'era Gorbačëv: il periodo successivo, caratterizzato dal passaggio alla democrazia competitiva dei paesi dell'Europa centrale e dai contestuali rivolgimenti in URSS, cade ovviamente fuori di questo articolo. Dopo alcuni tentativi teorici risalenti al primo periodo post-staliniano, si sono prodotti studi (v. Hough, 1977; v. Bialer, 1980), per lo più descrittivi, che evitano i dibattiti sul totalitarismo, benché respingano in modo esplicito o implicito l'applicabilità di quel tipo ideale alle realtà presenti.
I regimi in questione si avvicinano o potrebbero avvicinarsi al modello autoritario, ma, dato che se ne differenziano per alcuni aspetti significativi, li definiamo 'post-totalitari'. Il fatto che questi regimi siano sorti dopo la trasformazione della società da parte del totalitarismo, il fatto che le istituzioni e le organizzazioni che hanno sostenuto tale trasformazione, soprattutto il partito unico, non siano state smantellate (eccettuati l'imponente apparato del terrore e i gulag), il linguaggio rigido dell''ideologia fredda' tuttora usato e il ricordo del recente passato sono tutti fattori che rendono i sistemi post-totalitari diversi dai sistemi autoritari propri di società che non hanno subito gli stessi mutamenti. Si può affermare che il totalitarismo abbia fallito nelle sue più ambiziose aspirazioni di cambiare l'uomo dando uno scopo e un significato alla sua vita; ma è riuscito a cambiare la società e a distruggere ampiamente le basi del pluralismo socioculturale della società civile, l'autonomia e l'autorevolezza delle chiese, l'etica specifica delle varie professioni e delle loro associazioni e, nelle società socialiste, l'indipendenza degli operatori economici, proprietari e managers, trasformando tutti (tranne alcuni agricoltori e gli imprenditori dell'economia sommersa) in dipendenti statali e impedendo qualsiasi forma di organizzazione autonoma. Gli accademici, gli intellettuali e forse gli artisti sfuggono in qualche modo a questa Gleichschaltung, ma come individui, non come gruppi organizzati. Il risultato è che il pluralismo sociale, che avrebbe potuto dare origine a un pluralismo latente e forse, in condizioni di crisi, politicamente rilevante, non è mai esistito. Inoltre, come accade nella maggior parte dei regimi autoritari, la relativa chiusura di queste società e il controllo esercitato su tutti i mass media impedirono alla stragrande maggioranza della popolazione di pensare a modelli politici alternativi.
Nei regimi post-totalitari si lascia spazio alla privatizzazione e alla dissidenza su una scala intollerabile per il totalitarismo, ma non all'ampia gamma di opposizioni extralegali (come nella maggior parte dei regimi autoritari). D'altronde i potenziali oppositori non trovano, se non lungo i confini occidentali dell'Unione Sovietica, il sostegno protettivo e incoraggiante di una società civile. La Polonia, anche prima dell'affermarsi di Solidarność come movimento politico extralegale ma potente, era un regime autoritario, grazie alla posizione particolare mantenuta dalla Chiesa cattolica (v. Staniszkis, 1984). Perché considerare questi sistemi regimi autoritari post-totalitari, anziché varianti del totalitarismo? Si potrebbe sostenere che i cambiamenti, avvenuti all'interno di un sistema totalitario, sono più quantitativi che qualitativi e non rappresentano pertanto una 'vera' rottura con il passato; inoltre il ritorno del totalitarismo è sempre possibile. Un'analisi del genere può essere valida per alcuni paesi o alcune fasi di sviluppo dei sistemi sovietici (trascurando quelli in cui la spinta totalitaria non si è ancora esaurita, come nel Sudest asiatico e nella Corea del Nord).
Tuttavia i seguenti mutamenti giustificano la nozione di post-totalitarismo.
1. L'ossificazione dell'ideologia, l'idéologie froide, ripetuta meccanicamente e utilizzata più per ostacolare il cambiamento delle strutture sociali che per promuoverlo, la crescente accettazione, nell'attività politica, di criteri pragmatici o razionali non derivanti dai dogmi ideologici e addirittura incompatibili con essi, la ritualizzazione dell'indottrinamento, il sempre più raro ricorso al sostegno degli intellettuali e la tolleranza per espressioni artistiche non soggette a dettami ideologici. Solo la formulazione e la diffusione di idee pericolose viene ancora limitata. L'ideologia, accettata in modo universale e acritico, può servire da 'mentalità' all'apparatchikis, ma non occupa più la posizione centrale di un tempo.
2. Il partito unico e il suo gruppo dirigente continuano a essere la struttura decisionale centrale, tuttavia i cambiamenti nelle attività delle organizzazioni di partito, nei criteri di reclutamento e di promozione attraverso la nomenklatura e nella composizione del gruppo dirigente non possono essere ignorati. La burocratizzazione e un ininterrotto cursus honorum, uniti a tendenze gerontocratiche, hanno caratterizzato il partito, sebbene Gorbačëv abbia dimostrato che il gruppo dirigente può invertire questi processi. Il partito è ancora un'élite, l'accesso alla quale viene filtrato con attenzione, ma, anziché l'attivismo puro e semplice, il fervore ideologico, le attività di propaganda o di controllo coercitivo, diventano importanti e vengono premiate la competenza e le prestazioni tecnico-professionali, nonché le reti clientelari. La spiegazione dello stalinismo in termini di 'culto della personalità' e il desiderio di sicurezza dell'élite hanno portato a una parvenza di leadership collettiva e all'uso di qualche meccanismo formale, come le votazioni e le elezioni negli organi di vertice del sistema.All'interno del partito e del governo possono affermarsi interessi funzionali e persino un certo pluralismo burocratico, ma nessun pluralismo sociale si articola attraverso organizzazioni indipendenti quali i sindacati, e i disaccordi politici, pur tollerati, vengono dibattuti soprattutto dall'élite, anziché da fazioni organizzate e coesive operanti sotto gli occhi di un pubblico più vasto.
3. Fra i cambiamenti più significativi in direzione dell'autoritarismo vi sono la diminuzione degli sforzi di mobilitazione totale e di partecipazione all'attività politica e una tolleranza crescente nei confronti della privatizzazione e degli incentivi non ideali, inclusi gli interessi economici personali. L'apatia e l'indifferenza politica sono tollerate. Le attività parallele - compresa la corruzione - tese al conseguimento di fini personali sono aumentate e sono diventate un problema serio. Si sta sperimentando (Ungheria, Cina) o prendendo in considerazione la possibilità di sfruttare le motivazioni più grette dell'interesse personale e dell'avidità per ottenere migliori prestazioni economiche, consentendo, in deroga al modello ideale della società, qualche attività imprenditoriale, l'autonomia delle imprese e la creazione di un'economia di mercato.
Questi mutamenti derivano dal riesame, compiuto dall'élite, di quanto sia costato, anche alla stessa classe dirigente, il modello totalitario, specie in termini di instabilità (le purghe, la rivoluzione culturale, ecc.), e da valutazioni delle proprie capacità economiche, tecnologiche e militari in un sistema mondiale competitivo. Non c'è dubbio che la destalinizzazione, la liquidazione del terrore massiccio e indiscriminato, l'introduzione della legalità socialista (anche se per i dissidenti si tratta di una legalità repressiva) abbiano contribuito a far accettare e persino a legittimare il sistema.Qual è l'obiettivo, la raison d'^étre ultima, del sistema che controlla e soffoca la società? Secondo alcuni è il mantenimento dello status quo, e quindi dei privilegi acquisiti dalla 'nuova classe', la prevedibilità di una società burocratica e la difesa dell'ordine esistente, soprattutto contro il pericolo di insurrezioni indipendentiste, promosse da nazionalismi non assimilati o emergenti, che si sta profilando alla periferia del sistema, nel Baltico e nella fascia sudasiatica dell'Unione Sovietica.
Per Castoriades (v., 1982) lo 'stato di difesa' diventa il fine ultimo, cui altri obiettivi, come una migliore qualità della vita, sono subordinati, e conferisce uno status privilegiato ai militari, ai tecnici e agli scienziati che operano nel settore militare dell'economia. Questo nuovo tipo ideale è suggestivo, ma discutibile. Poteva forse essere valido all'epoca di Breznev, ma non oggi alla luce degli sviluppi più recenti.
È difficile avanzare ipotesi sul futuro. La riaffermazione della società e, in particolare, della classe operaia, che in Polonia ha dimostrato le sue potenzialità, la maggiore o minore sopravvivenza di una classe contadina non integrata in un sistema di kolchozy e il ruolo dei conflitti di nazionalità sono alcuni dei fattori che potrebbero permettere alla leadership di seguire percorsi alternativi in situazioni di crisi. Gli sviluppi saranno diversi in Romania (dopo il governo personalizzato di Ceauçsescu), nei paesi cattolici e in quelli greco-ortodossi, come la Bulgaria. I sistemi post-totalitari - salvo quello polacco - dovranno subire molti mutamenti prima che il loro autoritarismo (perlomeno a livello politico) diventi paragonabile a quello della maggior parte dei regimi autoritari capitalistici occidentali. L'assenza di alternative realistiche, specialmente in Unione Sovietica, l'isolamento dei dissidenti e il retaggio della repressione diminuiscono le probabilità che quei regimi incontrino un'opposizione attiva, militare e violenta, e quindi essi tendono a essere meno repressivi dei regimi autoritari più 'liberali'.
Il nostro excursus attraverso il mondo dei regimi autoritari può concludersi all'insegna di un moderato ottimismo. L'utopia di un'élite autodesignata, intenzionata a riformare in modo totalitario l'uomo e la società, che sembrava la tendenza del futuro negli anni trenta con il fascismo e, in modo più specifico, con il nazismo, è stata sconfitta e la versione stalinista del leninismo è stata screditata e si trova ad affrontare una crisi profonda. Molte formule politiche autoritarie hanno perso il loro puntello ideologico e non esiste alcun paese importante che possa fungere da modello. Negli anni settanta è tornata la democrazia in Grecia, in Portogallo e in Spagna, e negli anni ottanta abbiamo assistito alla restaurazione della democrazia in paesi latino-americani, nelle Filippine, nella Corea del Sud e in Pakistan.
Tutto questo ha fatto nascere un'ampia e crescente letteratura sulle transizioni dall'autoritarismo alla democrazia (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986), complementare agli studi precedenti volti a comprendere il crollo delle democrazie (v. Linz e Stepan, 1978). Le difficoltà che alcune di queste democrazie si trovano ancora ad affrontare sollevano la questione delle condizioni migliori per il loro pieno consolidamento. Come dimostrano la transizione dal governo dello Scià a quello di Khomeini, le crisi a Haiti e in Nicaragua e i travagli delle democrazie in Sudamerica, questi sviluppi promettenti non sono però universali.
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