Abstract
La nozione di autotutela amministrativa impegna la dogmatica giuridica sin dalle sue origini. Ad essa sono ricondotti diversi istituti (annullamento, revoca, convalida, sospensione, rettifica, ratifica, conferma, conversione, sanatoria) tipizzati solo parzialmente dal legislatore, peraltro in epoca piuttosto recente. Dato comune a tutte le fattispecie è il fatto che con esse l’amministrazione interviene su un potere già esercitato incidendo sullo stesso in senso eliminatorio – rimuovendo un precedente provvedimento o disponendone la cessazione dell’efficacia – o in senso conservativo.
Le criticità della categoria, riguardata nel suo insieme o con segnato riferimento alle sue differenti manifestazioni decisorie, sono ancora numerose. Il rapporto con i principi di proporzionalità, di stabilità e certezza dei rapporti tra cittadino e amministrazione, del legittimo affidamento, costituiscono soltanto alcune delle componenti con le quali l’ampia discrezionalità che connota il potere di autotutela deve confrontarsi. Anche sul piano definitorio si è ancora in bilico tra il riconoscimento dell’attualità della nozione e l’affermazione del suo superamento, specie alla luce degli interventi normativi più recenti.
L’autotutela, secondo la definizione tradizionale, consiste nella capacità di farsi giustizia da sé, prescindendo dall’intervento o dalla mediazione di un giudice o di un soggetto terzo neutrale.
Come si avrà modo di evidenziare, tuttavia, tale definizione non coglie appieno la polisemia del termine, derivante dalla circostanza che la nozione è propria di diversi settori del diritto ove conosce manifestazioni differenti e spesso contraddistinte da una controversa qualificazione giuridica.
Sul piano civilistico, la fattispecie viene espressamente collegata ad un comportamento reattivo rispetto ad un altrui fatto illecito, o anche semplicemente illegittimo, che si configuri come «idoneo a incidere negativamente sulla posizione dell’“avente diritto” e, al tempo stesso, non conforme ai principi generali (…) ovvero un fatto che, nel colpire la sfera giuridica di un soggetto, risulti oggettivamente pregiudizievole per altri» (Bigliazzi Geri, L., Autotutela: II- Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, IV, 1988, 1).
Dato caratterizzante la nozione è l’impossibilità per chi vi ricorre di adire il giudice o, comunque, il suo configurarsi come azione alternativa o sostitutiva rispetto all’intervento giurisdizionale per reagire all’altrui violenza o minaccia (Bianca, C.M., Autotutela, in Enc. dir., Agg., IV, 2000, 130 ss.). Di qui la definizione sintetica dell’autotutela come “capacità di farsi giustizia da sé” che estende la sua portata in diversi settori del diritto (penale, civile, amministrativo, tributario, internazionale).
Anche nel diritto amministrativo, si è osservata (e, in qualche misura, sofferta) la difficoltà di circoscrivere e definire una categoria sfuggente, eppure, se accostata alla pubblica amministrazione, data quasi per scontata per il fatto di essere considerata ad essa consustanziale. Tale potere è stato concepito, allorché in titolarità al soggetto pubblico, con una accezione marcatamente “anticonflittuale”, persino paragiurisdizionale e, dunque, indice e parametro della massima estensione della competenza attribuita all’amministrazione in quanto autorità (Benvenuti, F., Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., IV, 1959, 537 ss.).
La possibilità di “farsi giustizia da sé” di cui il soggetto pubblico dispone è stata condivisibilmente interpretata (Mattarella, B.G., Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 1223 ss.) rileggendo il rapporto tra amministrazione e legge: il giudice è una parte eventuale di questa relazione in quanto dispone del potere di sindacare gli atti di autotutela nella misura in cui, attraverso essi, non si osservino prescrizioni e limiti imposti dalla legge. In questo l’autotutela amministrativa si distingue dalle altre forme di autotutela nelle quali il potere di attingervi si giustifica per la necessità di anticipare o supplire all’intervento del giudice.
Nelle prime elaborazioni teoriche della nozione di autotutela si centra l’attenzione sul potere dell’amministrazione di incidere sui propri provvedimenti ritirandoli o modificandoli o, ancora, portandoli ad esecuzione. Si fanno così strada, definendosi in epoche storiche più recenti, due (contrapposte) interpretazioni del concetto: una, che potremmo definire più ampia se non onnicomprensiva, riconducibile al pensiero di Benvenuti (Benvenuti, F., Autotutela, cit.). L’altra più ristretta, ascrivibile al pensiero di Giannini, secondo il quale l’unica espressione di tale potere sarebbe la capacità dell’amministrazione di portare coattivamente ad esecuzione le proprie decisioni, garantendo, dunque, concreta attuazione al fine pubblico con esse perseguito (Giannini, M.S., Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 828 ss.). Tra i due opposti si collocano una serie di posizioni intermedie, tutte comunque impegnate ad individuare il fondamento normativo di un potere atipico che, malgrado ciò, costituisce – almeno nella communis opinio – espressione e giustificazione di quelle manifestazioni provvedimentali meglio note con l’espressione di provvedimenti o procedimenti di “secondo grado” (nel pensiero di M.S. Giannini, tuttavia, i procedimenti di secondo grado costituiscono manifestazione dell’imperatività piuttosto che dell’autotutela). In particolare, Benvenuti definiva l’autotutela come la generale capacità riconosciuta all’amministrazione di risolvere i conflitti attuali e/o potenziali nascenti tra i propri atti e i soggetti destinatari del potere: in tale ambito veniva ulteriormente differenziata una autotutela necessaria (identificabile con il potere di controllo), una autotutela contenziosa (ricorsi amministrativi) ed una autotutela spontanea, alla quale ultima sarebbe riconducibile il potere di riesame. Annullamento e revoca sarebbero, appunto, entrambi strumenti idonei a risolvere i conflitti potenziali tra l’atto e gli interessi che quest’ultimo mira a disciplinare, con la sola differenza insita nell’incidere l’uno su vizi di legittimità, con effetti ex tunc, l’altra su vizi di merito, con effetti ex nunc. Secondo tale impostazione l’autotutela – e con essa il potere di riesame – rientrerebbe tra quegli istituti che, nel loro insieme, si inseriscono e formano il quadro di una p.a. che agisce in posizione di preminenza, esercitando poteri di imperio direttamente discendenti dalla sovranità dello Stato.
È così che nell’alveo dell’autotutela vengono ricompresi i cd. poteri di riesame: ad esito eliminatorio (annullamento, revoca, abrogazione), ad esito conservativo (convalida, conferma, ratifica, sanatoria, rettifica). Ancora all’autotutela vengono ricondotti i poteri di esecuzione coattiva e, seppur non unanimemente, i poteri di controllo e sanzionatori.
L’isolamento della nozione non convince quella parte della dottrina secondo cui non è necessario individuare un fondamento autonomo per il potere dell’amministrazione di ripensare unilateralmente i propri atti, ben potendo quest’ultima agire in forza di quello stesso potere primario già esercitato, tuttavia in direzione opposta o confermativa (Corso, G., L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969; Id., Autotutela (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 609 ss.). Si afferma, così, più a livello teorico che nel linguaggio giurisprudenziale, una preferenza per la nozione di riesame in luogo di quella di autotutela che, invece, rinvia marcatamente ad una attività di soddisfazione di interessi “propri” che non si confà alla natura per definizione “aliena” degli interessi tutelati dalla p.a. (per una netta scissione tra potere di riesame e autotutela amministrativa, si veda Ligugnana, G., Profili evolutivi dell’autotutela amministrativa, Padova, 2004, che approda ad una definizione di autotutela amministrativa limitata alla sola esecuzione coattiva).
Fornita così una risposta alle istanze della legalità/legittimazione, restano da soddisfare, nel silenzio del legislatore, le ragioni della legalità/garanzia: queste ultime trovano riscontro immediato nel principio giurisprudenziale del cd. contrarius actus in forza del quale anche l’attività volta al riesame del potere deve essere procedimentalizzata e naturalmente sindacabile da parte del giudice amministrativo.
Nel 2005 il legislatore risolve parzialmente le questioni interpretative più spinose e tipizza alcuni degli istituti più controversi ascritti al genus dell’autotutela decisoria: annullamento d’ufficio, revoca, convalida e sospensione (v. Autotutela amministrativa 2. Gli istituti) trovano disciplina espressa nelle disposizioni della l. 7.8.1990, n. 241 ove compare il capo IV bis dedicato ad Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso.
Con riguardo, invece, al potere di esecuzione coattiva, anch’esso viene regolato nel capo IV bis della legge novellata, all’articolo 21-ter, ma ne viene confermato il collegamento con una previa statuizione normativa che ne autorizzi e ne disciplini l’utilizzo da parte del soggetto pubblico (D’Alberti, M., Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 301; Corso, G., op.cit.; Renna, M., L’efficacia e l’esecuzione dei provvedimenti amministrativi tra garanzie procedimentali ed esigenze di risultato, in Dir. amm., 2007, spec. 835 ss.), circostanza che ha indotto alcuni ad escluderne la riconducibilità alle vicende dell’autotutela e a sancirne il collegamento con l’esecutorietà (Costantino, F., Esecutorietà, in Romano, A., a cura di, L’azione amministrativa, Torino, 2016, 717 ss.).
Dapprima con la l. 11.11.2014 n. 164 e, successivamente, con la l. 7.8.2015 n. 124, il legislatore è tornato ad incidere sulla disciplina dei poteri di autotutela, con l’intento di limitarne la portata, nei termini di cui si dirà (v. Autotutela amministrativa 2. Gli istituti), e di temperarne gli effetti a vantaggio delle situazioni giuridiche soggettive consolidate dei destinatari di provvedimenti favorevoli con riguardo ai quali si valorizza l’esigenza di tutela del principio del legittimo affidamento. In particolare, con la legge n. 124 del 2015, si introducono significative modifiche al potere di annullamento d’ufficio che, attraverso un articolato rubricato «autotutela amministrativa», viene sottoposto – limitatamente alle ipotesi in cui incida su atti autorizzatori o comunque attributivi di vantaggi economici – ad un termine di decadenza di 18 mesi. A prescindere dalle considerazioni di sistema che l’intervento normativo suggerisce (v. infra), la scelta nominalistica conferma che il riferimento all’autotutela è ancora attuale e che la nozione non può dirsi superata dalla tipizzazione degli istituti ad essa tradizionalmente ricondotti, ma ricompare in primo piano quantomeno con riferimento alle vicende dell’atto illegittimo.
Dalla presente trattazione verrà, invece, esclusa la cd. autotutela esecutiva in quanto si ritiene, da un lato, che la stessa sia più correttamente ascrivibile, come si è detto, alle vicende dell’esecutorietà, dall’altro, che le questioni di maggior interesse nell’ambito dell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, riguardino la disciplina e l’inquadramento teorico della cd. autotutela decisoria. Il dato normativo, d’altronde, ha riferito espressamente la nozione di autotutela amministrativa ai soli istituti dell’annullamento d’ufficio, della convalida e della sospensione laddove la possibilità di dare luogo all’esecuzione coattiva è rimasta oggetto della disciplina relativa all’esecutorietà.
Per distinguere tra le diverse manifestazioni del potere di autotutela è stata tracciata (Cerulli Irelli, V., Principii del diritto amministrativo, Torino, 2005, 217) una linea di demarcazione tra procedimenti di revisione (sospensione, revoca e proroga) che attengono alle vicende dell’efficacia durevole e procedimenti “intesi al riesame” di precedenti atti amministrativi. I primi fondano la loro ragion d’essere sulla permanenza nel tempo di un rapporto tra titolare del potere e beneficiario del provvedimento che giustifica la possibilità dell’amministrazione di intervenire in corso di esecuzione a sospendere, far cessare definitivamente o prolungare gli effetti del provvedimento. I procedimenti espressione della cd. autotutela decisoria, invece, (convalida, conferma, annullamento d’ufficio) sono “assimilabili” a quelli di revisione quanto a struttura, “ma diversi nell’efficacia”: essi consentono al soggetto pubblico di riesaminare la validità dei propri atti «successivamente al loro perfezionamento e alla produzione degli effetti». Di contrario avviso si è mostrato chi (Cavallo, B., Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 1993, 352), allo scopo di evitare “architetture” complesse che gravano una «fenomenologia già troppo carica di “nominalismi”», ha preferito distinguere le diverse manifestazioni dell’autotutela in base a tre fondamentali opzioni: «a termine del riesame, l’autotutela può esprimersi con un provvedimento che conferma la validità e l’efficacia dell’atto sottoposto al riesame; ovvero, pur avendone accertata l’invalidità, si provvede a sanare il vizio con un nuovo provvedimento, adottato al fine di conservare, in toto o in parte, gli effetti del primo. Diversamente (…) l’amministrazione, in presenza dell’atto ritenuto invalido, ne dispone spontaneamente il ritiro, eliminando con un provvedimento demolitorio il precedente atto viziato».
Il dato che emerge dai diversi tentativi di sistemazione dogmatica delle molteplici fattispecie è che esse, benché caratterizzate talora da natura e funzioni profondamente distanti, al punto che la revoca è stata ritenuta “abusivamente” ascritta nella categoria dell’autotutela (Mattarella, B.G., op. cit.) assumono tutte funzione centrale nella modulazione (ed attualizzazione) dell’equilibrio tra gli interessi presi in considerazione dalla decisione amministrativa, potendo assumere tanto la finalità di travolgere il precedente provvedimento, quanto quella, probabilmente prioritaria, di sanarlo per stabilizzarne definitivamente gli effetti.
Rinviando alla sezione relativa ai singoli istituti la disamina delle diverse manifestazioni che l’autotutela amministrativa può assumere come categoria generale, diverse sono le notazioni che l’attuale conformazione normativa di alcuni dei poteri ad essa ricondotti suggerisce.
Di particolare attualità è la questione della doverosità o meno dell’esercizio del potere di autotutela, specie in considerazione della recente individuazione – limitatamente alle ipotesi dell’annullamento d’ufficio e della sospensione - di un termine massimo per il suo esercizio. Il nuovo contenimento temporale del potere potrebbe condurre, per certi versi, a ripensarne la portata, soprattutto a fronte di una giurisprudenza che continua a negare la sussistenza di un obbligo di provvedere dell’amministrazione con riguardo all’istanza di annullamento avanzata da parte del privato (C. cost., 13.7.2017, n. 181, chiamata ad esprimersi sulla sussistenza di un obbligo di pronuncia esplicita su una istanza di riesame di un atto di imposizione tributaria, ha esteso il proprio ragionamento anche all’autotutela amministrativa, affermando la legittimità della mancata previsione di tale obbligo proprio in ossequio al principio di buon andamento e negando che da ciò possa scaturire un «vuoto di tutela»).
Ma vanno, anzitutto, fugati alcuni equivoci di fondo. Affermare la doverosità dell’autotutela non significa negarne il carattere discrezionale. L’apprezzamento della doverosità di un riesercizio del potere da parte del soggetto pubblico si fonda su diverse circostanze che naturalmente prescindono dal fatto che vi sia stato un sollecito in tal senso da parte del soggetto privato: va, infatti, considerata la necessità di evitare un pregiudizio per l’interesse pubblico concreto, va, quindi, valutata l’incidenza della condotta omissiva rispetto ad un danno per le situazioni giuridiche soggettive dei privati cui può conseguire un’eventuale ipotesi di responsabilità e, all’esito, va bilanciato l’intervento del soggetto pubblico col principio del legittimo affidamento.
L’autotutela, d’altronde, non si risolve nell’annullamento d’ufficio che, come si è visto, costituisce soltanto una delle sue possibili manifestazioni. Comprensibilmente il potere di rimuovere il provvedimento è considerato particolarmente afflittivo, e anche per questa ragione il legislatore è intervenuto a temperarne la portata limitandone temporalmente l’esercizio quando sia indirizzato a travolgere effetti ampliativi già prodotti nella sfera giuridica del destinatario. Ma appiattire il dibattito circa la doverosità dell’autotutela sulla questione se sia o meno doveroso il potere di annullamento d’ufficio rischia di svilire l’importanza di una riflessione che può condurre ad esiti di ben più ampio raggio, specie in un momento storico in cui l’amministrazione sembra vivere in perenne stato d’accusa. D’altronde, la nozione di autotutela è stata sempre condizionata, nelle sue molteplici declinazioni, dalle diverse fasi storiche e dai differenti contesti giuridici (Mattarella, B.G., op. cit.).
La fase storica attuale si caratterizza, da un lato, per una crescente richiesta da parte del privato e del mercato di certezza normativa e di stabilità nei rapporti con l’amministrazione, dall’altro, per una tendenziale crisi dell’amministrazione e della sua autorità, crisi che si innesta in un contesto giuridico nel quale conta più la disciplina del cattivo uso del potere che quella del suo corretto uso.
Alla richiesta di certezza, come si è visto, si è cercato di rispondere, almeno per quanto concerne i rapporti tra amministrazione e cittadino, con l’individuazione di termini ben definiti per l’esercizio del potere in settori nei quali l’interesse del mercato sembrerebbe prevalere su quello alla tutela dell’interesse pubblico generale (Trimarchi, M., Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, in Dir. amm., 2016, 321 ss.). È il caso della definizione dei poteri di intervento inibitorio della p.a. nella disciplina della s.c.i.a. di cui all’articolo 19 della l. n. 241 del 1990 (Liguori, F., La lunga strada storta: dalle autorizzazioni amministrative alla nuova s.c.i.a., in N.A., 2016, 185 ss.); della resistenza rafforzata dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici rispetto all’esercizio dei poteri di ritiro; della previsione di meccanismi sostitutivi in caso di inerzie burocratiche in settori nevralgici quali quello della realizzazione delle infrastrutture (Police, A., Dai silenzi significativi ai poteri sostitutivi. Una nuova dimensione per il dovere di provvedere della P.A., in Rallo, A.-Scognamiglio, A., a cura di, I rimedi contro la cattiva amministrazione. Procedimento amministrativo ed attività produttive ed imprenditoriali, Napoli, 2016, 31 ss.); della individuazione di strumenti di semplificazione e accelerazione nell’ambito delle decisioni pluristrutturate (Mari, G., "Primarietà" degli interessi sensibili e relativa garanzia nel silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni e nella conferenza di servizi, in www.diritto-amministrativo.org).
Per frenare il, più o meno lento, declino dell’amministrazione, invece, è un dato più che acquisito che il legislatore abbia scelto, sul piano normativo, di investire sulla responsabilità piuttosto che sulla responsabilizzazione dell’amministratore (Battini, S., Responsabilità e responsabilizzazione dei funzionari e dipendenti pubblici, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 53 ss.), andando, conseguentemente, ad ampliare i limiti del sindacato giurisdizionale che dall’atto si estende al rapporto e si spinge, eventualmente o contestualmente, a valutare la condotta dell’agente. In sostanza si è preferita la strada della deterrenza rispetto a quella dell’incentivazione.
In questo contesto, l’affermazione della doverosità dell’esercizio del potere, finchè possibile, non costituisce un fattore di incertezza, ma un modo concreto di rispondere anche all’esigenza di garanzia (che pare quasi essere stata posta in secondo piano) che si accompagna alla stabilizzazione degli effetti del provvedimento.
Alla luce di quanto prospettato, l’attenzione al potere di autotutela dovrebbe essere estesa andando a sondare le potenzialità insite nelle sue diverse manifestazioni. D’altronde, il legislatore, nell’art. 21-nonies, ha fatto espressamente «salva» la possibilità di convalida e, anche negli interventi successivi, ne ha mantenuta ferma la disciplina. La conseguenza è che tale istituto, a fronte della decadenza del potere di annullamento di ufficio, risulta essere l’unico strumento residuo per intervenire sull’atto attributivo di vantaggi economici illegittimo, fermo restando il rispetto del termine ragionevole. È allora lecito chiedersi se, per ragioni di sistema, essa, e in generale, le diverse manifestazioni del potere di riesame ad esito conservativo, possano addirittura considerarsi un prius nell’ambito dei diversi strumenti di autotutela amministrativa (Ramajoli, M., L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto d’equilibrio, in Riv. giur. urb., 2016, 100 ss., spec. 122; Tuccillo, S., Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, spec. 255 ss.).
La funzione di ripristino della legalità violata si collega all’interesse primario di scongiurare il protrarsi delle conseguenze sfavorevoli in punto di responsabilità, in linea con la previsione (art. 21-nonies, co. 1) che afferma la permanenza delle responsabilità per l’adozione e il mancato annullamento del provvedimento illegittimo, ma anche nell’interesse a restituire affidabilità al soggetto pubblico considerato sempre meno accountable.
Il decorso del tempo stabilizza l’atto che diventa inoppugnabile, ma non può sanare effettivamente il vizio andando a incidere sul piano della responsabilità. L’opportunità di fare ricorso all’istituto della convalida resta nella sola disponibilità dell’amministrazione la quale, valendosene, in ossequio al principio di doverosità, può restituire al contempo l’idea di voler adempiere responsabilmente alla funzione assunta nei confronti dell’ordinamento.
Senza contare che le resistenze tradizionalmente connesse all’utilizzo dell’istituto della convalida (Mannucci, G., Della convalida del provvedimento amministrativo, in Dir. pubbl., 2011, 201 ss.) possono essere in parte attutite dalla considerazione che il relativo procedimento passa necessariamente per l’instaurazione del contraddittorio e che ormai, come si è detto anche con riguardo all’annullamento d’ufficio, la tesi della non necessaria retroattività degli effetti è sempre più accreditata (Falcon, G., Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm., 2003, 1 ss.). La lettura proposta – che, giova ricordare, guarda alla valutazione amministrativa disgiunta dal piano della eventuale vicenda giurisdizionale – suggerisce una ricostruzione che tenga conto della contrapposizione possibile nel bilanciamento doveroso tra interesse alla convalida e interesse al travolgimento dell’atto e, dunque, tra la posizione di chi trae vantaggio dalla stabilità del provvedimento e chi invece aspirerebbe alla sua rimozione. Ma occorre guardare anche all’interesse dell’amministrazione a rimuovere l’illegittimità fonte di responsabilità per il funzionario. Se, infatti, si può concordare sulla opportunità di graduare la retroattività della convalida in modo da evitare di sottrarre al danneggiato dall’atto il legittimo il presupposto per avviare l’azione risarcitoria, non potrà negarsi che la condotta del funzionario che si adopera per rimuovere le cause d’invalidità sia da apprezzarsi e valutarsi adeguatamente in punto di giudizio di responsabilità di “apparato”. Perché i continui richiami alla responsabilità devono avere come obbiettivo non la monetizzazione dell’errore (o quantomeno non solo), ma la responsabilizzazione del soggetto pubblico, che trova nella piena attingibilità del potere conservativo un fondamentale strumento di adempimento del dovere di ben amministrare.
Alla previsione di un termine massimo per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (e di sospensione) si è accompagnata in ambito dottrinale l’affermazione della opinabilità del carattere inesauribile del potere (cfr. per una sintesi del dibattito in essere, Trimarchi, M., L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018).
Come noto, è assai risalente l’idea che il potere amministrativo, in quanto attribuito per la cura concreta dell’interesse pubblico, non possa estinguersi con il singolo atto, ma debba comunque restare sine die nella disponibilità del soggetto che lo detiene per poter “soccorrere” all’eventuale modifica dell’assetto degli interessi (e dunque provvedere al ritiro o alla modifica delle proprie decisioni). Da tale considerazione si era anche tratta la conclusione che il potere di autotutela non necessitasse di un fondamento normativo autonomo, trattandosi in realtà in una delle possibili manifestazioni (ed estensioni) del (pur inesauribile) potere di amministrazione attiva.
La crisi del concetto di inesauribilità nasce dalla scelta legislativa di individuare un termine di decadenza per alcune ipotesi di esercizio del potere di intervento successivo da parte della p.a.
Non è questa la sede per prendere posizione su un dibattito di ben più ampia portata (Francario, F., Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in www.federalismi.it, 2017 e Trimarchi, M., op. ult. cit.). Va, tuttavia, evidenziato che le nuove disposizioni di cui all’articolo 21-nonies non appaiono da sole idonee a supportare una ricostruzione di taglio generale ed estensivo sul punto. Il regime disegnato dalla norma citata, infatti, è indirizzato a stabilire poteri certi e sì definiti per l’esercizio del potere di annullamento in ipotesi ben individuate e cioè quelle in cui il provvedimento sia idoneo ad attribuire un vantaggio economico al destinatario. Tali casi, per quanto di difficile delimitazione (Ramajoli, M., op. cit.; Trimarchi, M., Stabilità, cit.), costituiscono, allo stato attuale, un regime eccezionale rispetto alle ordinarie vicende del potere che, per espressa volontà normativa, continua ad essere esercitabile in tutte le altre ipotesi in cui si renda necessaria la modificazione del regime decisorio precedentemente adottato.
La scelta di attribuire una maggior resistenza all’atto ampliativo trova giustificazione in un bilanciamento di interessi che il legislatore ha posto in essere a monte privilegiando la stabilità di atti che hanno un ruolo diverso nella definizione del rapporto autorità-libertà e che anzi hanno, in alcuni casi, limitata ragion d’essere nella forma autoritativa (Liguori, F., Liberalizzazione diritto comune responsabilità. Tre saggi del cambiamento amministrativo, Napoli, 2017).
Se di autotutela come categoria autonoma può, dunque, ancora parlarsi, non può farsi discendere dalla limitazione temporale introdotta dalla novella del 2015 la conclusione che il potere di autotutela sia divenuto “a termine”, tanto meno che lo sia il potere in generale.
Quello dell’autotutela è rimasto, piuttosto, un contenitore nel quale ricondurre a sistema quegli istituti che assolvono tutti, in qualche misura, ad una logica di correzione della funzione, che investono sulla capacità dell’amministrazione di correggersi da sé, piuttosto che di farsi giustizia da sé. Nelle diverse disposizioni nelle quali il legislatore prevede la possibilità di “sollecitare” l’esercizio del potere di autotutela (quale, ad esempio, l’art. 14-quater della l. n. 241 del 1990), egli sceglie evidentemente di investire sugli istituti ad essa ricondotti (nella specie l’art. 21-nonies) in una logica di composizione di interessi che anticipa e prescinde dalla sede giurisdizionale.
L’autotutela venne storicamente concepita nella titolarità della p.a. in funzione di garanzia dell’interesse pubblico e cioè dell’equilibrio costante tra interesse del singolo ed interesse della collettività. La necessità di operare un bilanciamento tra contrapposte esigenze ne evidenzia la natura discrezionale, mentre dalla non finalizzazione all’attuazione di una pretesa viene fatto discendere il carattere non doveroso. Nella connotazione dell’istituto può leggersi un atteggiamento di fiducia nella p.a. quale soggetto posto a presidio di interessi la cui tutela presuppone un’attività di ponderazione tra posizioni giuridiche equilibrata e proporzionata al fine da perseguire. La progressiva erosione del potere di autotutela pare, invece, scaturire dall’esigenza di tutelare le posizioni consolidate dei destinatari di provvedimenti vantaggiosi (legittimo affidamento nella revoca, e affidamento nella legittimità dell’azione amministrativa nell’annullamento), ma tradisce al contempo una crescente sfiducia nell’amministrazione e nella sua capacità di risolvere conflitti, scegliendo il meglio per la collettività. Questa sfiducia è confermata dal moltiplicarsi delle ipotesi di responsabilità previste nei confronti dell’amministrazione e corrobora la persuasione che soltanto la sanzione possa essere un efficace deterrente per la condotta illegittima.
Può allora cogliersi nell’autotutela una nuova ed ulteriore funzione, che si affianca a quella di garantire il miglior perseguimento dell’interesse pubblico concreto e che sembra oggi essere diventata la ragione di fondo per il suo esercizio: scongiurare la responsabilità dell’amministrazione rimediando agli errori commessi nella precedente manifestazione autoritativa ovvero sanando una eventuale omissione del potere. Da tale opzione pare potersi desumere la doverosità della verifica dell’antecedente causale per l’attivazione del procedimento di riesame, che si risolve nell’accertamento della sussistenza dei presupposti per l’esercizio legittimo del potere. La decisione di procedere o meno sarà il frutto di una valutazione comparativa tra interessi che deve tenere in debito conto, per scongiurare la configurazione di ipotesi di responsabilità, tutte le possibili soluzioni: l’autotutela conservativa, la sospensione, l’annullamento e la relativa graduazione degli effetti.
Alla luce dello scenario delineato, l’immagine benvenutiana dell’autotutela come risposta ad un conflitto attuale e potenziale tra interessi, anche svincolata dalle premesse ideologiche originarie, si conferma di una significativa utilità (e attualità) descrittiva.
Fonti normative
L. 7.8.1990, n. 241, artt. 21 ter, 21 quater, 21 quinquies, 21 nonies; l. 11.11.2014, n. 164; art. 25, co. 1, lett. b-ter e lett. b-quater; l. 7.8.2015, n. 124, art. 6, co. 1.
Bibliografia essenziale
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