Abstract
Alla categoria dogmatica dell’autotutela amministrativa vengono ricondotti diversi istituti che sono manifestazione sia di poteri tipizzati dal legislatore che di poteri cd. atipici, la cui disciplina presenta ancora una matrice marcatamente giurisprudenziale. Dalla rassegna delle diverse caratteristiche di ciascuno di essi, alcune delle quali di recente conio normativo, è possibile, tuttavia, rintracciare un denominatore comune che è la centralità del ruolo dell’amministrazione quale garante dell’equilibrio tra gli interessi pubblici e privati.
La ricerca di un fondamento normativo per il potere di autotutela ha catalizzato l’attenzione della dottrina più risalente e condizionato la ricostruzione dogmatica degli istituti ricondotti alla categoria che dovevano essere resi compatibili con il principio di legalità. Per alcuni di essi, tuttavia, è intervenuta, in tempi relativamente recenti (l. 11.2.2005, n. 15), la tipizzazione nell’ambito delle disposizioni della legge sul procedimento amministrativo. La circostanza ha anche avvalorato l’idea di chi ha sostenuto il tramonto della nozione di autotutela e la nascita di “nuovi” poteri che, svincolati dall’appartenenza ad un genere unitario, hanno funzioni e caratteristiche proprie. In realtà, come anche si vedrà nel prosieguo, la cristallizzazione della disciplina di annullamento d’ufficio, revoca, convalida e sospensione, non è riuscita ad esaurire le dinamiche di una fattispecie ben più ampia e complessa che continua a connotare istituti di grande rilievo e ha piuttosto assolto ad una funzione di garanzia con riguardo a provvedimenti destinati ad incidere negativamente nella sfera giuridica dei destinatari.
Il potere di annullamento d’ufficio, disciplinato all’articolo 21-nonies della l. n. 241 del 1990, si risolve nella capacità dell’amministrazione di annullare, con efficacia retroattiva, un proprio precedente provvedimento che risulti affetto da un vizio di legittimità. Condizioni per il suo esercizio, oltre che l’illegittimità del provvedimento, sono la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale che va bilanciato con le situazioni giuridiche dei destinatari e dei controinteressati, nonché il decorso di un termine ragionevole tra l’adozione dell’atto e il successivo annullamento, termine che, nel caso dei provvedimenti autorizzatori o comunque attributivi di vantaggi economici, non può superare i 18 mesi.
Quanto all’illegittimità, il legislatore precisa che non è annullabile il provvedimento che sia affetto da violazioni formali ai sensi dell’articolo 21 octies, co. 2, tracciando così un evidente parallelismo con la disciplina dell’annullamento giurisdizionale. Si premura, al contempo, di specificare che restano ferme le responsabilità per l’adozione e il mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
La necessaria sussistenza dell’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento è requisito esaurientemente esaminato dalla giurisprudenza più recente che ne ha sintetizzato l’essenza valorizzando il momento valutativo della decisione e ribadendo come l’interesse pubblico concreto posto a base giustificativa dell’annullamento d’ufficio debba essere diverso dal mero ripristino della legalità violata (Cons. St., IV, 25.1.2017, n. 294; Cons. St., VI, 27.1.2017, n. 341). Da ultimo, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., A. P., 17.10.2017, n. 8) ha mostrato di condividere la necessità che il provvedimento di rimozione sia congruamente motivato in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico concreto ed attuale respingendo l’idea che si possa predicare la «sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa» alla rimozione degli atti amministrativi, anche in settori (nella specie quello edilizio) ove si registra una maggiore esigenza di garanzia della legittimità dell’azione amministrativa e di tutela dell’interesse pubblico. Si afferma, poi, con sempre maggiore chiarezza, sia in dottrina che in giurisprudenza, il principio della graduabilità degli effetti retroattivi dell’annullamento.
La disciplina del termine costituisce l’approdo normativo più recente. Rispondendo all’esigenza di dare certezza e stabilità ai rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione ed alla crescente attenzione prestata alla tutela del legittimo affidamento, il legislatore interviene con l’art. 6, l. n. 124 del 2015 sulla disciplina dettata dall’articolo 21-nonies citato al fine di quantificare il termine ragionevole dell’annullamento d’ufficio allorché si tratti di incidere su provvedimenti attributivi di vantaggi economici per il destinatario. Detto termine non può superare i 18 mesi, sempre che, come si precisa in chiusura della norma, i provvedimenti non siano stati conseguiti «sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato».
Diversi sono i profili problematici che la disposizione, nel dettare un «nuovo paradigma nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione» (così, Cons. St., parere 15.3.2016, n. 839), ha posto e ancora pone: ambito di applicazione della fattispecie, dies a quo per la decorrenza del termine di 18 mesi, estensione del limite temporale alle vicende provvedimentali antecedenti all’entrata in vigore della novella, doverosità dell’esercizio del potere in considerazione della sua durata limitata nel tempo. Il dibattito su molte questioni è ancora aperto; ciò che, tuttavia, appare emergere con chiarezza è il tentativo di non depotenziare l’effetto stabilizzante della previsione limitandone la portata, propendendosi piuttosto per una lettura estensiva della nozione di provvedimento attributivo di vantaggi economici (Ramajoli, M., L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto d’equilibrio, in Riv. giur. urb., 100 ss., spec. 105 s., Trimarchi, M., Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, in Dir. amm., 2016, 321 ss.). Sul dies a quo e sul regime degli atti adottati prima dell’entrata in vigore della disposizione si è espressa l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 8 del 2017) affermando che il termine per il decorso dei 18 mesi deve computarsi dall’acquisita conoscenza del vizio di legittimità da parte dell’amministrazione e che la nuova disposizione non si applica alle decisioni antecedenti alla novella per le quali il termine di 18 mesi può fungere da mero canone ermeneutico per la valutazione della ragionevolezza dell’annullamento.
Sulla natura doverosa del potere di annullamento d’ufficio (ferme restando le considerazioni di taglio più generale per le quali si rinvia alla voce Autotutela amministrativa 1. Caratteri generali, § 4.1), va anticipato che si registra, accanto al tentativo di limitare le conseguenze patologiche per gli interessi privati di un intervento di rimozione sine die da parte dell’autorità (donde la previsione di un termine decadenziale anche piuttosto breve, Sandulli, M.A., Autotutela, in Libro dell’Anno del diritto 2016, Roma, 2017, 177 ss.), un investimento sempre maggiore sulle potenzialità degli strumenti di riesame come rimedio per le disfunzioni amministrative, come strumento di responsabilizzazione, come momento di deflazione del contenzioso (Tuccillo, S., Autotutela, potere doveroso?, in www.federalismi.it, n. 16/2016). Il richiamo al potere di annullamento, ovvero ai suoi parametri, è presente, infatti, in molte disposizioni sia di taglio generale (si vedano, ad esempio, gli artt. 14 quater, 19 e 20 della legge n. 241 del 1990), sia di carattere settoriale. Questo dato, ben lungi dal suggerire una lettura obbligata o vincolata di tale potere, rende però evidente che l’amministrazione debba mutare prospettiva considerando il potere di annullamento come un’opportunità e non come una scappatoia per rimediare agli errori commessi.
Sebbene ricompresa nell’ampia accezione benvenutiana di autotutela decisoria, la revoca viene da alcuni considerata abusivamente iscritta nella categoria (Mattarella, B.G., Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 1223 ss.) sia in quanto la capacità di revocare i propri atti sarebbe riconosciuta, anche nel diritto privato, a qualunque soggetto risulti titolare di una funzione (ad. esempio amministratore di società, tutore ecc.), sia perché il potere di revoca, legato inscindibilmente alle vicende dell’interesse pubblico, avrebbe poco a che fare con il ripristino della legalità.
La potestà di revoca è stata, per tale ragione, qualificata piuttosto come espressione del generale potere di revisione e legata alle vicende dell’efficacia del provvedimento (Immordino, M., Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999) presentandosi quale manifestazione del potere di amministrazione attiva (Contieri, A., Il riesame del provvedimento amministrativo. I Annullamento e revoca tra posizioni “favorevoli” e interessi sopravvenuti, Napoli, 1991). A prescindere dall’opzione teorica prescelta, la revoca costituisce la fattispecie nella quale è stata individuata con maggiore evidenza l’immanenza della funzione di tutela dell’interesse pubblico della quale l’amministrazione è legislativamente investita. Laddove, infatti, il provvedimento abbia efficacia durevole, la funzione di “attualizzazione” dell’atto al perseguimento dell’interesse pubblico concreto costituisce fondamento e giustificazione del potere dell’amministrazione di modificarlo nel tempo, ad esempio determinandone la cessazione dell’efficacia attraverso la revoca (Corso, G., Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2017, 324 ss.).
Anche la disciplina positiva di tale fattispecie è ascrivibile all’intervento riformatore del legislatore del 2005 che l’ha trasfusa nell’art. 21-quinquies della legge sul procedimento amministrativo. Destinata ad incidere su provvedimenti ad efficacia durevole determinandone la cessazione degli effetti ex nunc, la revoca può essere disposta «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse» ovvero «nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento» o, «salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario». Come può notarsi, anche nel caso della revoca i provvedimenti attributivi di vantaggi economici conoscono una disciplina per così dire “di favore”, esito delle scelte politiche più recenti (cfr., sul punto, i rilievi critici di La Rosa, G., Il nuovo volto dell’autotutela decisoria a seguito della l. 164/2014: il privato è davvero più tutelato dal pentimento dell’amministrazione?, in www.giustamm.it, n. 5/2015). Con la legge 11.11.2014, n. 164, il legislatore, infatti, sensibilizzato anche ad allinearsi alle posizioni garantiste della normativa europea, oltre ad attribuire specifica rilevanza alla prevedibilità dell’evento modificativo dello stato di fatto, ha limitato lo ius poenitendi, ovvero la possibilità per il soggetto pubblico di rivalutare l’interesse pubblico originario, alle sole ipotesi in cui l’atto non abbia carattere ampliativo della sfera giuridica del destinatario (la congruità della cd. revoca “ripensamento” è stata da più voci messa in discussione: cfr., in particolare, Sorace, D., Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2010, 101; per un quadro d’insieme delle diverse opzioni critiche, Villata, R.-Ramajoli, M., Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, 674 ss.).
La tutela del legittimo affidamento, avvertita come il vero limite al ripensamento dell’amministrazione, è attuata attraverso la previsione di un obbligo di indennizzo a favore dei soggetti che dimostrino di aver subito un pregiudizio a causa del ritiro dell’atto (sul tema si rinvia alle considerazioni di Manfredi, G., Le indennità di autotutela, in Dir. amm., 2008, 163 ss.).
L’obbligo di ristorare la lesione della situazione giuridica del destinatario del provvedimento di revoca ha conosciuto una mitigazione nella previsione di cui al co. 1-bis dell’articolo 21-quinquies (aggiunto alla disposizione in esame dall'art. 13, co. 8-duodeviecies del d.l. n. 7 del 2007, per effetto della conversione operata dalla legge n. 40 del 2007) a tenore del quale se l’atto eliminatorio incide su rapporti negoziali (es. nel caso di revoca della concessione: cfr. M. D’Alberti, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 318-319), nella quantificazione della somma a titolo di indennizzo deve tenersi conto del “solo” danno emergente. Ulteriori elementi di valutazione per la definizione del quantum dell’indennizzo sono costituiti sia «dall'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico», sia «dall'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico».
La distinzione tra l’annullamento d’ufficio e la revoca, tenuta oggi ben chiara dalla dottrina, è apparsa spesso sfumata in giurisprudenza dove non è raro riscontrare un utilizzo piuttosto ambivalente degli istituti, o quantomeno del rispettivo nomen iuris, finendo col generare non poca confusione (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Latina, I, 30.10.2017, n. 534) specie per quanto riguarda la definizione di presupposti e condizioni per il loro legittimo esercizio.
Ipotesi diversa dalla revoca, seppur nominalmente ad essa assimilata, è quella in cui il provvedimento ad efficacia durevole venga ritirato a causa del venir meno di un presupposto legale per il suo rilascio, ovvero a causa della violazione di un obbligo specifico da parte del beneficiario del provvedimento. In tali casi si preferisce denominare l’atto eliminatorio decadenza, o revoca sanzionatoria, per stigmatizzare l’assenza di qualsivoglia valutazione discrezionale da parte dell’organo emanante che la dispone, in via automatica, una volta verificata la condotta inadempiente o la mancanza dei requisiti legislativamente richiesti.
Uno dei principali strumenti di riesame ad esito conservativo è la convalida (Santaniello, G., Convalida (dir. amm.), in Enc. dir., X, Milano, 1962). Di recente tipizzazione normativa nell’ambito dell’articolo 21-nonies della l. n. 241 del 1990 (per effetto sempre della l. n. 15 del 2005), il potere di convalida occupa oggi un ruolo molto significativo anche alla luce della coeva disciplina sulla non annullabilità giurisdizionale del provvedimento affetto da violazioni formali e delle più recenti teorie elaborate, in dottrina e giurisprudenza, in ordine alla praticabilità di una convalida in corso di giudizio.
Come noto, in diritto amministrativo la convalida si atteggia in maniera differente dal suo corrispondente civilistico ove, ai sensi dell’articolo 1444 c.c., può essere fatta valere dal soggetto che potrebbe dedurre l’annullabilità del contratto. In ambito amministrativo, infatti, essa è strumento a disposizione del medesimo soggetto che ha dato luogo all’invalidità, cioè dell’amministrazione medesima, e consiste nella rimozione del vizio che inficia il provvedimento attraverso il riconoscimento espresso della sua esistenza da parte della dell’autorità emanante (Villata, R.-Ramajoli, M., op. cit.). Tale “ravvedimento operoso” risponde, evidentemente, a ragioni di buon andamento nonché al principio della conservazione dei valori giuridici (Santaniello, G., op. cit.): in dottrina si è sostenuto che la p.a. – di fronte ad un atto affetto da un vizio di legittimità – nel valutare l’interesse pubblico debba privilegiare, ove possibile, la soluzione conservativa, piuttosto che quella annullatoria. L’amministrazione, al momento in cui decide di riesaminare un proprio precedente provvedimento, avvia in realtà un procedimento che non ha un esito predefinito laddove la conclusione può essere tanto quella eliminatoria quanto quella conservativa (Chieppa, R., Provvedimenti di secondo grado (dir. amm.), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 915 ss.). La decisione riassume, in sostanza, l’esito del bilanciamento posto in essere tra interesse alla rimozione dell’atto illegittimo e interesse al mantenimento dello status quo ante. Quest’ultimo tuttavia, non si risolve nella mera decisione di non annullare, bensì in quella, retta dall’animus convalidandi, di sanare l’atto viziato.
La legge Madia non ha investito con il suo interevento di modifica il potere di convalida che rimane cristallizzato nella formulazione originaria dell’art. 21-nonies. Infatti, la limitazione temporale prevista per l’esercizio dell’annullamento con riguardo ai provvedimenti ampliativi non opera con riguardo al riesame ad effetto sanante, fermo restando il riferimento alla ragionevolezza del termine per darvi corso. Da questo primo dato può evincersi la conferma di un favor per questa diversa manifestazione di “autotutela decisoria” che, d’altronde, non costituisce un vulnus per le situazioni giuridiche consolidate.
Si ritiene che, attraverso la convalida, possano essere emendati soltanto vizi formali e non anche vizi sostanziali. Ma sul punto la giurisprudenza ha offerto spunti per una interpretazione estensiva delle fattispecie sanabili (TAR Lazio, Latina, sez. I, 4.12.2014, n. 1036). Anche le previsioni di cui all’articolo 21-octies in ordine all’irrilevanza processuale delle violazioni formali hanno destato perplessità in merito alla tipologia di vizi convalidabili (Villata, R.-Ramajoli, M., op. cit., 696 ss.). Il presupposto dell’annullabilità dell’atto, richiesto dall’articolo 21-nonies anche per procedere alla convalida, secondo alcune letture dovrebbe reputarsi non sussistente con riguardo agli atti affetti da vizi non invalidanti. Epperò, la natura processuale delle disposizioni dettate dall’articolo 21-octies consente di evidenziare come la non annullabilità del provvedimento sia «elemento che non è nella disponibilità dell'amministrazione, ma del giudice, e che quindi l'amministrazione, non potendo confidare nel riconoscimento da parte del giudice della portata non invalidante del vizio, può ben procedere a rimuoverlo» (Chieppa, R., op. cit.). È, altresì, opinione condivisa che anche l’atto convalidante abbia efficacia retroattiva (affermata sin dalle letture di Ravà, P., La convalida degli atti amministrativi, Padova, 1937, spec. 227; Bodda, P., La conversione degli atti amministrativi illegittimi, Milano, 1935, spec. 64 e 93), pur incontrando un ostacolo nelle situazioni giuridiche soggettive dei suoi destinatari, specie se è in corso un giudizio in ordine alla legittimità dell’atto da convalidare.
Al riguardo, la giurisprudenza si è generalmente mostrata contraria ad ammettere la convalida degli atti in corso di giudizio ad eccezione di quelli viziati da incompetenza, per i quali opera quanto disposto dalla l. n. 249 del 1968, all’art. 6 (Cons. St., IV, 29.12.2014, n. 6384). Dopo la positivizzazione del particolare regime delle violazioni formali nell’articolo 21-octies della legge n. 241 del 1990, tuttavia, aperture in ordine alla sanatoria in corso di giudizio si sono riscontrate specie con riguardo al vizio di motivazione, nell’ipotesi in cui la motivazione non sia viziata in modo tale da palesare un vizio della funzione bensì si rilevi semplicemente carente perché inidonea a chiarire la portata dispositiva del provvedimento (Ramajoli, M., Il declino della decisione motivata , in Dir. proc. amm., 2017, 894 ss.). In particolare, la giurisprudenza ha rimarcato la linea di confine tra ciò che può essere oggetto di una integrazione in corso di giudizio e quanto, invece, deve necessariamente formare oggetto di un procedimento di convalida (Cons. St., V, 27.1.2016, n. 279).
Altri aspetti problematici sono stati determinati dalla corretta interpretazione da attribuirsi ai presupposti della convalida ovvero la sussistenza dell’interesse pubblico e la previsione di un termine ragionevole. Le perplessità manifestate sono invero condivisibili nella misura in cui si parte dal presupposto, pure esplicitato, secondo cui l’interesse fondamentale che ispira l’intervento dell’autorità è quello di rimuovere le conseguenze negative scaturenti dalla perdurante efficacia dell’atto illegittimo. Quanto alla delimitazione temporale, benché attenuata dal filtro della ragionevolezza, si dubita della configurabilità di un affidamento da tutelare allorché l’atto sia divenuto inoppugnabile e dunque l’eventuale effetto sfavorevole scaturente dal provvedimento illegittimo si sia già consolidato nei confronti dei destinatari diretti.
La sospensione continua a contraddistinguersi per ruolo e contorni poco definiti e per un percorso che, allo stato, presenta più coni d’ombra che punti di luce. Va anzitutto chiarito che, originariamente accostato al generale potere di autotutela (e in particolare alla revoca), quello di sospensione (cautelare) è stato a sua volta tipizzato dalla legge n. 15 del 2005 che ne ha dettato la disciplina nell’articolo 21-quater della legge n. 241 del 1990 (Villamena, S., Il potere di sospensione amministrativa, Torino, 2012). La sospensione è, come noto, legata alle vicende dell’efficacia del provvedimento e consiste nella possibilità per l’amministrazione di evitare che, dal perdurare di quest’ultima, possa scaturire un pregiudizio per l’interesse pubblico. Tradizionalmente a tale potere è stata riconosciuta «funzionalità polivalente» e carattere «servente» rispetto agli altri provvedimenti di secondo grado di cui finiva col condividere le sorti (Cavallo, B., Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 1993, 386-387; D’Alberti, M., op. cit., 319). La disposizione su menzionata, su cui ha inciso direttamente anche la legge Madia, postula che «l'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze». In linea con le modifiche che hanno interessato l’autotutela decisoria, si è altresì previsto che «la sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di annullamento di cui all'articolo 21-nonies».
Come si è anticipato, il potere di sospensione assolve allo scopo di evitare che il perdurare dell’efficacia dell’atto illegittimo o inopportuno possa arrecare danno agli interessi su cui esso è destinato a incidere. All’istituto l’amministrazione doverosamente attinge quando paventi un pregiudizio grave dall’esecuzione di un proprio atto e doverosamente se ne vale per un periodo di tempo limitato ad appurare quali siano le sorti che detto atto deve seguire. Ne discende in maniera abbastanza evidente che le potenzialità applicative della sospensione sono particolarmente significative in caso di provvedimenti ad efficacia durevole e dunque essa si pone quale naturale antecedente della revoca. Un uso accorto di tale potere può consentire, infatti, al soggetto pubblico di valutare in maniera più congrua come risolvere l’eventuale contrasto tra il provvedimento originario e la sopravvenienza, di fatto o di diritto, che ne determina l’inopportunità; tanto sia al fine di ridurre (incidendo sull’esecuzione) il pregiudizio per il privato, sia al fine di disporre di un periodo di quiescenza per rinegoziare, ove possibile, l’assetto degli interessi. In tale ottica, si ritiene, la sospensione dovrebbe precedere il recesso dagli accordi ex art. 11, l. n. 241 del 1990. Analogamente la sospensione degli effetti del provvedimento illegittimo dovrebbe essere disposta tutte le volte in cui sia necessario evitare che possano scaturire pregiudizi dal tempo impiegato dall’amministrazione a valutare se lo stesso sia da rimuovere o convalidare, potendosi così arginare i potenziali danni per i destinatari del provvedimento di autotutela e per il soggetto pubblico che di quei danni dovrà rispondere.
Quanto alle criticità, va detto che da sempre l’aspetto più problematico della disciplina, prima giurisprudenziale, poi normativa, è stato considerato la durata della sospensione (Trimarchi, M., La sospensione del provvedimento amministrativo dopo la legge 7 agosto 2015, n. 124, in www.federalismi.it, n. 16/2016). Tuttavia, quando il legislatore è di recente intervenuto sul testo dell’articolo 21-quater ha provveduto a stabilire un termine di decadenza per il suo esercizio (18 mesi dall’adozione dell’atto), ma non a quantificare la durata massima della sospensione (Sandulli, M.A., Poteri di autotutela della pubblica amministrazione e illeciti edilizi, in www.federalismi.it, 14-2015). La circostanza costituisce sicuramente un punto di debolezza dell’attuale disciplina. Come si è osservato (Trimarchi, M., op. ult. cit.) se è evidente l’obiettivo di conferire maggiore stabilità e certezza ai destinatari di provvedimenti favorevoli, in sintonia con la disposizione volta a precluderne l’annullabilità sine die, un’indubbia riduzione di garanzia si apprezza per i destinatari di provvedimenti sfavorevoli illegittimi, così come per tutti gli interessi coinvolti dall’esercizio del potere di revoca, con riguardo ai quali il potere di sospensione avrebbe potuto assolvere ad una funzione cautelare di portata generale anche e prioritariamente in considerazione del fatto che sia il potere di annullamento dei provvedimenti restrittivi che il potere di revoca non conoscono limitazioni temporali (se non attraverso il filtro dei principi di proporzionalità e ragionevolezza).
Altre fattispecie che vengono tradizionalmente annoverate tra quelle espressione del potere di autotutela non hanno disciplina normativa espressa e, al più richiamate in disposizioni settoriali, trovano la propria definizione nelle elaborazioni di dottrina e giurisprudenza.
Si tratta principalmente di provvedimenti di secondo grado cd. ad esito conservativo che assolvono ad una generica funzione sanante di provvedimenti amministrativi affetti da violazioni di carattere formale.
La ratifica si caratterizza per esplicare un effetto sanante su provvedimenti emanati da un organo dotato di una legittimazione straordinaria per far fronte a situazioni di urgenza. I suddetti provvedimenti hanno, tuttavia, efficacia provvisoria necessitando di un atto di adesione dell’organo avente competenza generale (Villata, R.-Ramajoli, M., op.cit., 703). Esempio tipico è, in tal senso, la ratifica di organi deliberativi collegiali, quale il consiglio comunale, in merito alle deliberazioni d'urgenza prese dalla giunta comunale (Santaniello, G., Ratifica (dir. amm.), in Enc. dir., XXXVIII, 1987).
Designata anche come il provvedimento attraverso il quale si sana il difetto di competenza, essa in realtà – a differenza della convalida – non incide su un provvedimento viziato, ma colma un difetto di legittimazione che incide sull’efficacia definitiva di un atto. La ratifica esplica efficacia retroattiva e postula la necessità che l’organo ratificante condivida la gestione dell’interesse pubblico tenuta dall’organo a legittimazione straordinaria. Per tale ragione è stata esclusa la possibilità di impugnare il provvedimento di ratifica decorso il termine per l’impugnazione del provvedimento originario (TAR Sicilia, Catania, III, 31.7.2017, n. 1981). L'intervenuta ratifica di un atto amministrativo viziato per incompetenza, infatti, proprio per il suo carattere retroattivo, non riapre i termini per l'impugnazione dell'atto convalidato.
Invero, la giurisprudenza tende ancora a sovrapporre al potere di ratifica quello di convalida, utilizzando le due denominazioni in maniera piuttosto ambigua (cfr. Cons. St., V, 2.8.2016, n. 3482 e anche TAR Sardegna, Cagliari, II, 22.11.2016, n. 905).
Saldamente ancorata al principio di conservazione degli atti giuridici, la rettifica consiste nell’attività con la quale l’amministrazione corregge un proprio provvedimento affetto da irregolarità contenutistiche non invalidanti. La regolarizzazione effettuata attraverso la rettifica opera retroattivamente sanando un mero errore materiale in cui è incorsa l’autorità decidente e non richiede l’applicazione del principio del contrarius actus, non configurandosi ulteriore attività valutativa. L’assenza di esercizio di potere decisionale ulteriore legittima l’utilizzo dell’istituto anche in corso di giudizio, per sanare, ad esempio, un errore presente nell’intestazione, nell’indicazione di alcuni elementi del provvedimento o nella motivazione. A tale proposito, tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che può qualificarsi rettifica in senso proprio solo la correzione di dati del provvedimento affetti da un difetto di esternazione laddove «non si è in presenza di errore materiale quando la relativa correzione implica nuove operazioni che esulano dal campo della mera rettifica, come nel caso di modifica in senso peggiorativo della motivazione degli atti a suo tempo compilati, con l'intento di giustificare in via postuma l'operato» (v. TAR Emilia-Romagna, Bologna, II, 14.6.2017, n. 446).
Col termine conferma si qualifica il provvedimento attraverso il quale l’amministrazione, riscontrando un’istanza di riesame di un proprio precedente provvedimento, all’esito di un nuovo procedimento, ne conferma la validità. In giurisprudenza, si è sempre distinto il provvedimento di conferma dall’atto meramente confermativo, definito come l’atto con il quale l’amministrazione, senza ripetere l’iter procedimentale, ribadisce la correttezza della propria precedente valutazione ritenendo insussistenti i presupposti per dare avvio ad una revisione del proprio operato. L’attenzione degli interpreti si è concentrata, in particolare, sulla distinzione fra le due tipologie di atti per ragioni processuali: la qualificazione in termini di sussistenza di un’attività ponderativa può ascriversi esclusivamente alla conferma propria che, sostituendosi integralmente al precedente provvedimento, risulta autonomamente impugnabile da parte dell'interessato a differenza dell'atto meramente confermativo che non si ritiene impugnabile in quanto privo di efficacia lesiva propria (Cons. St., VI, 30.6.2017, n. 3207; Cons. St., VI, 17.7.2017, n. 3513). La linea di demarcazione tra le due ipotesi, e soprattutto le ragioni poste a fondamento della stessa, è stata messa in discussione dalla dottrina che ha prestato maggior attenzione al dato sostanziale (Falcon, G., Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm., 2003, 1ss.). Secondo tale lettura, la sussistenza di ragioni per una rivalutazione del provvedimento originario rappresentate dal privato rende inammissibile un comportamento inerte dell’amministrazione che non può limitarsi a liquidare la richiesta di riesame con un atto di non luogo a procedere, così come inaccettabile è l’affermazione dell’inoppugnabilità del medesimo.
Questa ricostruzione ha anche suffragato l’idea di chi ha ritenuto contestabile in sede giurisdizionale l’inerzia dell’amministrazione rispetto all’istanza di riesame, con la precisazione che attraverso la tutela giurisdizionale è possibile esclusivamente contestare la mancata valutazione degli elementi per una revisione del provvedimento (o la decisione di non procedere) e non quest’ultimo che resta in ogni caso intangibile una volta decorso il termine di decadenza (Falcon, G., op. cit.; Bercelli, J., La teoria degli atti confermativi tra interesse legittimo del richiedente e interesse legittimo del controinteressato, Napoli, 2012).
Altra fattispecie ricompresa nell’alveo delle ipotesi atipiche di autotutela conservativa è la sanatoria. In realtà, il termine viene utilizzato anche per definire genericamente l’attività dell’amministrazione volta a sanare un proprio atto intervenendo attraverso poteri diversi (convalida, ratifica, rettifica ecc.) divenendo, così, un contenitore di ipotesi accomunate dalla finalità conservativa. La dottrina, tuttavia, ha ritagliato per la sanatoria una nozione specifica idonea a definire il provvedimento con il quale l’amministrazione acquisisce ex post un atto procedimentale omesso dall’iter decisionale. È spesso utilizzato dalla manualistica con grande efficacia descrittiva l’esempio del provvedimento emesso in assenza del nulla osta prescritto dalla legge ovvero dell’atto di assenso da richiedersi in fase istruttoria ad altra amministrazione titolare dell’interesse correlato o comunque connesso a quello principale. In tale caso, l’acquisizione dell’atto di assenso previo, benché successiva all’adozione del provvedimento finale, consente di sanare il vizio procedimentale. Maggiori dubbi ha, invece, sollevato in dottrina e giurisprudenza l’ipotesi della sanabilità di un provvedimento adottato in carenza del parere legislativamente richiesto. Ci si è chiesti, cioè, se l’acquisizione postuma di un atto espressione di attività consultiva, e dunque, in quanto tale, finalizzato ad orientare la determinazione della p.a. procedente in una fase antecedente rispetto a quella decisoria, possa utilmente intervenire quando ormai la volontà amministrativa si è già formata. La giurisprudenza ha, ad esempio, negato che il parere dell'Aifa, richiesto nel procedimento per la determinazione della messa in commercio dei farmaci, possa essere reso con effetto sanante ex post, costituendo un passaggio prodromico determinante in quanto indirizzato ad accertare «le diversità o le equipollenze terapeutiche tra i principi attivi che saranno la base dei medicinali da immettere sul mercato» (Cons. St., V, 13.2.2017, n. 616). Se, tuttavia, il parere successivamente acquisito concordasse con il provvedimento adottato in sua assenza, sarebbe illogico travolgere l’efficacia dell’atto che risulterebbe, in sostanza, idoneo a perseguire adeguatamente l’interesse pubblico prevalente (Villata, R.-Ramajoli, M., op. cit., 708).
Istituto di matrice essenzialmente privatistica, la conversione trova posto tra le manifestazioni dell’autotutela amministrativa con la precipua finalità di “salvare” un provvedimento che risulta inidoneo – per difetto dei requisiti – al perseguimento della sua funzione tipica, ma che presenta tutti gli elementi di un altro provvedimento. Attraverso la conversione di un provvedimento invalido in altro di tipo diverso, l’amministrazione può dunque evitare di ripetere l’attività procedimentale già svolta per l’adozione del provvedimento invalido trasformandolo in altro di contenuto minore che comunque sia idoneo a conseguire un risultato utile per l’interesse pubblico (Capozzi, S., Conversione dell’atto amministrativo, in Enc. Giur. Treccani, 1988).
L, 7.8.1990 n. 241, artt. 21 quater, 21 quinquies, 21 nonies; l. 11.11.2014, n. 164, art. 25, co. 1, lett. b-ter e lett. b-quater; l. 7.8.2015, n. 124, art. 6, co. 1.
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