Abstract
Per autotutela nel diritto tributario s’intende il potere dell’amministrazione finanziaria di riesaminare e, se del caso, revocare o annullare propri atti ritenuti illegittimi e/o infondati, di tal guisa prevenendo o risolvendo – al di fuori del processo tributario – il relativo contrasto con gli amministrati. Il potere di autotutela dell’amministrazione finanziaria, di derivazione amministrativa, è stato introdotto nel settore tributario ad opera dell’art. 68, co.1, del d.P.R. 27.3.1992, n. 287, cui hanno fatto seguito l’art. 2 quater del d.l. 30.9.1994, n. 564, conv. con modificazioni nella l. 30.11.1994, n. 656, e il d.m. 11.2.1997, n. 37.
In termini generali, l’istituto dell’autotutela ha la funzione di assicurare al soggetto attivo, fra le cui prerogative esso rientra, il potere di “farsi giustizia da sé”, ovvero di “auto tutelarsi”. Nel diritto tributario, più specificatamente, l’autotutela consiste nel potere dell’amministrazione finanziaria di riesaminare e, se del caso, revocare o annullare (e quindi anche sospendere) i propri atti in quanto ritenuti illegittimi o infondati. Una tale capacità di riesame e correzione del proprio operato, non limitata al solo ambito tributario, è peraltro da tempo nota e disciplinata nel diritto amministrativo, ove essa ha il precipuo scopo di assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico cui ogni singola amministrazione è preposta. Difatti, proprio il riesame critico da parte della stessa amministrazione evita di dover ricorrere ad un qualche procedimento giurisdizionale volto a dirimere eventuali contrasti con l’amministrato e, per ciò stesso, risulta quanto mai funzionale ad una rapida correzione o rimozione dell’atto, beninteso ove questo sia riconosciuto viziato, indifferentemente sotto il profilo della legittimità ovvero del merito. Può quindi osservarsi che l’autotutela, nel consentire all’amministrazione pubblica di correggere direttamente il proprio operato, di per sé assicura una pressoché immediata rispondenza dell’agere pubblico ai principi, alle disposizioni e ai relativi modelli di riferimento, in quanto applicabili al caso concreto. Nei termini appena descritti può allora convenirsi che, certamente, l’autotutela nel diritto tributario deriva da quella c.d. “generale”, ben nota nel diritto amministrativo, alla quale la prima è accomunata anche per la rilevanza dei principi di legalità dell’azione amministrativa, imparzialità e buon andamento della stessa. In questo senso non si è mai dubitato, in passato, dell’applicabilità della disciplina dell’autotutela generale di diritto amministrativo anche al settore tributario. Senonché, l’azione amministrativa in campo tributario – specialmente quando animata dalla finalità impositiva – non è in toto assimilabile all’agere pubblico tipico del diritto amministrativo. Difatti, nell’azione amministrativa-tributaria di tipo impositivo, di regola, manca la figura del terzo controinteressato che, il più delle volte, è invece presente in ambito amministrativo tout court. Ma v’è di più: l’attività impositiva dell’amministrazione finanziaria – anche in quanto esplica effetti negativi in capo al contribuente – è attività tipicamente vincolata al rispetto del principio della riserva di legge; mentre l’azione amministrativa generale è attività tipicamente (o, comunque, prevalentemente) discrezionale, di talché lo stesso potere di autotutela amministrativa (in questo secondo caso) è ritenuto essere di tipo discrezionale, in quanto funzionale alla soddisfazione di un interesse pubblico nel singolo caso concreto, consistente in un quid pluris rispetto al mero ripristino della legalità violata. E ancora, specie per quanto attiene all’autotutela tributaria c.d. “negativa”, quella volta cioè alla rimozione dell’atto impositivo sfavorevole al contribuente, dunque con effetti positivi del provvedimento di riesame in favore del contribuente stesso, si ha che l’amministrazione finanziaria viene di fatto a rinunziare ad una posizione di sostanziale vantaggio nei confronti del contribuente, nel senso che il fisco rinunzia all’esercizio del potere di esigere o trattenere una prestazione tributaria, sia pur illegittimamente richiesta. Conseguentemente, qualora il provvedimento in via di autotutela non fosse giustificato dalla sussistenza di un interesse ulteriore, concreto ed attuale alla rimozione dell’atto impositivo e, comunque, diverso dal mero ripristino della legalità violata, l’autotutela tributaria (quale strumento originariamente concepito a tutela della stessa amministrazione finanziaria) rischierebbe di trasformarsi in uno strumento di “eterotutela”, ovvero di tutela del contribuente ad opera dell’amministrazione finanziaria, anche a prescindere, o addirittura in aggiunta, rispetto agli ordinari mezzi di tutela. Nel contesto ora sinteticamente descritto è stato quindi introdotto nel nostro ordinamento l’art. 68, co. 1, d.P.R. 27.3.1992, n. 287, cui hanno fatto seguito l’art. 2 quater del d.l. 30.9.1994, n. 564, convertito con modificazioni dalla l. 30.11.1994, n. 656, e il d.m. 11.2.1997, n. 37. Con le suddette previsioni – fondamentalmente dirette ai funzionari degli uffici del Ministero delle Finanze, onde evitare loro di esporsi ad una qualche responsabilità per danno erariale si è dunque codificato il potere dell’amministrazione finanziaria di procedere all’annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati. Un tale potere è stato poi previsto non solo a vantaggio del fisco, cioè nel caso in cui il vizio che affligge l’atto possa ridondare negativamente in capo all’amministrazione finanziaria, ma anche a vantaggio del contribuente, ovvero nel caso in cui il vizio che affligge l’atto si rifletta negativamente solo in capo al privato. In altre parole. Nel primo caso, è certamente ammessa la sostituzione dell’atto viziato (beninteso da effettuarsi entro i normali termini di decadenza dell’azione accertatrice) con un atto immune da censure che abbia l’effetto di sottrarre l’atto viziato stesso al rischio di annullamento ad opera del giudice, con conseguente caducazione dei relativi effetti (autotutela c.d. “positiva” o sostitutiva). Nel secondo caso, è ammessa la rimozione dell’atto sfavorevole al contribuente, nonostante il fatto che l’atto viziato esplichi un qualche vantaggio per il fisco in danno del contribuente medesimo, di talché con la rimozione di tale atto l’amministrazione finanziaria finisce per rinunziare alla pretesa precedentemente fatta valere, ancorché tale pretesa si sia poi rivelata illegittima o infondata o, se si preferisce, non giustificata sulla base del principio della c.d. “giusta imposta” (autotutela c.d. “negativa”). Ad ogni modo, per effetto delle disposizioni sopra richiamate (ancorché, si noti, l’art. 68 sopra menzionato sia stato in seguito abrogato ad opera dell’art. 23, lett. m), n. 7, d.P.R. 26.3.2001, n. 107), un simile potere di riesame ed amministrazione attiva è stato inquadrato e disciplinato attraverso ben definiti presupposti e limiti, propri del settore tributario. Al riguardo va tuttavia fin da ora osservato che, a tutt’oggi, non risulta ancora chiarito se il potere di autotutela negativa costituisca una mera facoltà per l’ufficio, ovvero un ben preciso obbligo dell’amministrazione finanziaria chiamata a riesaminare il proprio operato, al limite anche solo al fine di sottrarsi ad una sempre possibile azione volta al risarcimento del danno eventualmente patito dal contribuente per effetto del comportamento (illegittimo) dell’amministrazione finanziaria che, dal canto suo, non abbia dato seguito all’eventuale richiesta del contribuente in via di autotutela. Nel primo caso, si ritiene che il potere di autotutela non sia anche “dovere di eterotutela”, ritenendosi cioè che esso possa essere esercitato solo all’esito di una ponderata valutazione dei vari interessi in gioco, posto che la rimozione o meno dell’atto viziato porta con sé il venir meno di una situazione di vantaggio per il fisco. Diversamente, nel secondo caso, si ritiene che l’esercizio di tale potere di autotutela sia comunque doveroso giacché una somma di danaro – che si assume essere dovuta a titolo di tributo – non può essere richiesta o trattenuta se non dietro la giustificazione della sua piena legittimità e, in primis, compatibilità con il principio della capacità contributiva. Dunque, se la prestazione tributaria è illegittima (o infondata), il provvedimento di rimozione dell’atto con cui la relativa somma di danaro è richiesta o trattenuta non può che essere doveroso, altrimenti non si tratterebbe di ingiustamente richiedere o trattenere un tributo, ma solo una somma di danaro che, invero, “tributo” non è. Una siffatta ricostruzione del potere in discorso, peraltro, sarebbe posta a tutela (non solo del contribuente ma) anche della stessa amministrazione finanziaria giacché, almeno fin quando la relativa questione non sia coperta da giudicato, eviterebbe all’ente di inutilmente impiegare energie in occasione di un procedimento giudiziario, all’esito del quale – ove il tributo fosse riconosciuto illegittimo o infondato – esso finirebbe per soccombere con tutte le conseguenze del caso (peraltro la stessa amministrazione finanziaria con la Circ. 195/S del 5.8.1998 ha precisato che l’atto sbagliato è annullabile senza limiti di tempo).
Quanto ai soggetti cui compete provvedere in sede di autotutela, a mente dell’art. 1 del regolamento approvato con d.m. n. 37/1997, si ha che l’esercizio del potere di annullamento, revoca o sospensione, ovvero di rinuncia all’imposizione, spetta direttamente allo stesso ufficio dell’amministrazione finanziaria che ha emanato l’atto viziato, ovvero all’ufficio che è competente per gli accertamenti d’ufficio. In caso di grave inerzia, l’esercizio del potere de quo spetta – in via sostitutiva – alla Direzione regionale o compartimentale dalla quale l’ufficio stesso dipende. Naturalmente, nel caso in cui l’atto abbia ad oggetto tributi di competenza degli enti territoriali o locali, a questi spetta l’esercizio del potere. Più in particolare, come anche previsto dallo stesso art. 1, co. 1-ter, del d.m. n. 37/1997, quanto all’esatta individuazione dei singoli organismi competenti al riguardo, è a ciascun ente, territoriale o locale che sia, che spetta – anche in attuazione delle varie disposizioni che ne tutelano l’autonomia regolamentare ed auto-organizzativa – determinare il singolo ufficio titolare del potere di autotutela. Quanto all’individuazione, in concreto, del soggetto attivo del potere in discorso nel caso in cui il tributo che abbia dato luogo alla controversia non sia facilmente attribuibile (solo) alla competenza di un dato livello di governo – si pensi, tanto per fare un esempio, al caso di tributi, regionali o locali, la cui disciplina (sostanziale e/o procedimentale) faccia capo a più livelli di governo – pare a chi scrive che l’analisi possa alternativamente esperirsi avendo riguardo alla titolarità del potere normativo d’imposizione, ovvero alla titolarità della potestà di attuazione amministrativa del tributo. Difatti, nel primo caso, la titolarità giuridica – da parte di un dato livello di governo – del potere normativo di disciplinare gli elementi essenziali del tributo sembrerebbe anche tale da radicare la competenza di un dato ente ai sensi del co. 1 ter dell’art. 1 in discorso. Alternativamente, nel secondo caso, pure la titolarità giuridica della potestà di attuazione amministrativa di un dato tributo varrebbe a radicare la competenza di un dato livello di governo ai fini che qui interessano. Tuttavia, poiché i due criteri suddetti ben possono portare ad esiti divergenti e, come tali, incompatibili fra loro (non sembrando economicamente conveniente che l’azione amministrativa volta all’esercizio del potere di autotutela spetti a due o più livelli di governo che, appunto, potrebbero anche dare soluzioni diverse fra loro quantunque l’atto sottoposto al riesame sia lo stesso), sembra opportuno procedere alla selezione di una sola delle soluzioni alternative ora prefigurate. A tal fine, pare più adeguato prendere a riferimento il criterio fondato sull’esercizio dell’azione amministrativa. Difatti, se il potere di autotutela altro non è che un potere di riesame relativo ad una data attività amministrativa, già svolta, sembra maggiormente coerente al fine dell’individuazione del soggetto attivo competente all’esercizio del potere de quo in relazione ad un dato tributo, pure rientrante nella competenza di un dato livello di governo, far riferimento al titolare della potestà di emanare un atto impositivo. D’altronde, privilegiare il criterio fondato sulla titolarità giuridica del potere normativo in ambito tributario non pone al riparo dagli esiti contraddittori sopra accennati, specie nel caso in cui tale potere normativo possa dirsi suddiviso fra più livelli di governo (ipotesi, questa, tutt’altro che infrequente nel quadro di un federalismo fiscale – come quello italiano – in cui le prerogative della legge statale sono tutt’altro che insignificanti). Ora, è pur vero che anche la potestà amministrativa d’imposizione (relativamente ad uno stesso tributo) è a volte articolata fra più livelli di governo diversi fra loro, ma è anche vero che – nonostante la duplicazione dei livelli di governo titolari di prerogative rilevanti sul punto – il contribuente destinatario della relativa attività è sempre e soltanto uno, come pure uno solo è il livello di governo titolare della potestà di emanare l’atto di accertamento, pur potendo – con finalità istruttorie ovvero anche endoprocedimentali – esercitare potestà lato sensu impositive anche altri livelli di governo diversi da quello titolare (in esclusiva) del ridetto potere d’imposizione stricto sensu inteso. Dunque, quanto al soggetto attivo titolare del potere di autotutela in relazione a tributi genericamente rientranti nella “competenza” di più e diversi livelli di governo, tale soggetto sembra potersi individuare nell’ufficio, a ciò preposto, appartenente al livello di governo titolare della potestà amministrativa d’imposizione per il singolo tributo prevista. Per completezza quanto all’individuazione del soggetto competente ad esercitare il potere di autotutela, l’art. 5 del d.m. n. 37/1997 – ancorché ciò fosse desumibile in ragione di una regola generale che impone alla p.a. di comportarsi secondo correttezza e buona fede nei confronti del singolo amministrato – prevede che, qualora la richiesta di riesame sia stata eventualmente indirizzata ad ufficio incompetente, questo è tenuto a trasmetterla all’ufficio competente dandone comunicazione al contribuente.
Quanto all’ambito oggettivo del potere di autotutela, esso risulta assai vasto. Difatti, può costituire oggetto dell’esercizio del potere di autotutela tributaria qualsiasi atto amministrativo emanato dall’amministrazione finanziaria: dunque sia gli atti di accertamento e quelli a questi equiparati (es. atti di rigetto di una domanda di agevolazione o di condono), sia gli atti della riscossione, sia gli atti con i quali si irrogano sanzioni, sia gli atti processuali, sia, infine, gli atti istruttori o d’indagine. In altri termini, sono certamente suscettibili di formare oggetto di riesame da parte dell’amministrazione finanziaria tutti quegli atti che – a prescindere dalla loro espressa impugnabilità a mente dell’art. 19 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 – si prestano comunque a determinare una lesione in capo al soggetto passivo del relativo potere, sia esso il contribuente ovvero un soggetto terzo rispetto a quest’ultimo, in ogni caso tenuto ad un pati rispetto all’attività dell’amministrazione finanziaria (si pensi agli atti istruttori posti in essere a carico di un soggetto diverso dal contribuente ma, non per questo, meno lesivi di diritti anche costituzionalmente tutelati, al pari del diritto all’inviolabilità del domicilio, ovvero alla segretezza delle comunicazioni e della corrispondenza). Con riferimento agli atti c.d. “endoprocedimentali” oggetto di autotutela, diversi dagli atti impugnabili, può senz’altro menzionarsi il processo verbale di constatazione che peraltro, oltre ad essere suscettibile di definizione in via breve con il pagamento dell’imposta e delle sanzioni in misura ridotta alla metà di quelle irrogate (cfr. art. 5 bis d.lgs. 19.6.1997, n. 218), è idoneo ad esprimere comunque una pretesa che, qualora estrinsecata attraverso i successivi provvedimenti di fermo amministrativo, iscrizione di ipoteca, o sequestro sui beni del contribuente, può in ogni caso essere anch’essa oggetto di autotutela attiva.
Quanto ai vizi, l’art. 2 del d.m. n. 37/1997 afferma che l’amministrazione può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione, senza necessità d’istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione, quali, tra l’altro:
errore di persona;
evidente errore logico o di calcolo;
errore sul presupposto dell’imposta;
doppia imposizione;
mancata considerazione di pagamenti d’imposta, regolarmente eseguiti;
mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza;
sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati;
errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’amministrazione.
Si osservi ora che il regolamento citato, nel fare un’elencazione meramente esemplificativa dei principali e più comuni vizi tali da giustificare l’esercizio del potere di autotutela, non distingue i difetti a tal fine rilevanti, limitandosi ad alludere all’ampia (e generica) categoria della illegittimità. Volendo ora svolgere qualche considerazione sul punto, tenuto conto dell’elencazione sopra richiamata, sembra possibile annotare che le ipotesi d’illegittimità positivamente individuate sono tutte accomunate dalla evidente non debenza del tributo, senz’altro rilevante sotto il profilo sostanziale. Tuttavia, a ben vedere, anche i vizi solo formali – purché capaci di determinare l’illegittimità dell’atto o dell’imposizione – sono da ritenersi certamente idonei a giustificare l’esercizio del potere di autotutela, financo consistente nell’annullamento dell’atto stesso ovvero nella rinuncia all’imposizione. Difatti, non avrebbe alcun senso escludere dai presupposti per l’esercizio del potere di autotutela – che può essere pacificamente fatto valere anche in pendenza del relativo giudizio tributario, come pure in pendenza dei termini per ricorrere avanti le Commissioni Tributarie – tutti quei vizi formali che espressamente consentono l’impugnazione dell’atto impositivo, come pure quelli che, in quanto tali da determinare comunque l’illegittimità insanabile dell’atto stesso, darebbero egualmente luogo ad un annullamento del medesimo atto per via giudiziale. In quest’ultima ipotesi – qualora cioè i vizi formali, quali patologie invalidanti dell’atto, non costituissero valido presupposto per agire in via di autotutela – evidenti sarebbero i rischi per il fisco sotto il profilo dello svolgimento di un’inutile quanto dispendiosa attività difensiva, per non dire della probabile condanna al pagamento delle spese di lite, appunto quale conseguenza della soccombenza dell’ufficio in giudizio. Ciò, a sua volta, provocherebbe un danno per le finanze pubbliche che, invece, si sarebbe potuto evitare proprio per effetto dell’esercizio del potere di auto-tutela (inteso in favore) della stessa amministrazione finanziaria, anche a fronte di vizi soltanto formali. In altre parole, l’esercizio del potere di autotutela, che pure può declinarsi nell’auto-annullamento del singolo atto, si giustifica sulla base dell’illegittimità dell’atto stesso, da intendersi questa alla stregua di una qualsivoglia patologia invalidante, a prescindere dal fatto che essa affligga il profilo sostanziale dell’imposizione (anche in termini di infondatezza della pretesa), ovvero quello formale dell’atto o, ancora, quello attinente il procedimento amministrativo seguito.
Come già accennato, l’esercizio del potere di autotutela – in concreto consistente nella facoltà di annullamento, revoca, o sospensione degli effetti dell’atto, ovvero rinuncia all’imposizione – presuppone la sussistenza di un qualche vizio invalidante che affligge l’atto, ovvero il procedimento d’imposizione sino ad allora seguito. Peraltro, la stessa articolazione del potere di autotutela tributaria nelle due principali categorie dell’annullamento e della revoca dell’atto viziato sembra lasciar desumere l’utilità di distinguere i vizi secondo le categorie della “illegittimità” e della “infondatezza”. Nel senso che per la prima può intendersi la violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere (es. vizi formali o procedimentali) cui dovrebbe conseguire l’annullamento dell’atto; mentre per la seconda può intendersi la non conformità dell’atto alla corretta percezione e rappresentazione della realtà giuridica (es. vizio di contenuto, ovvero infondatezza dell’atto) cui dovrebbe conseguire la revoca dell’atto stesso. Per completezza quanto all’illegittimità, questa dovrebbe poter rilevare quale causa di giustificazione dell’annullamento in tutti quei casi in cui la violazione non possa dirsi “meramente formale”, e ciò a prescindere dal fatto che la norma violata qualifichi o meno come “illegittimo” l’atto viziato posto in essere in spregio di una determinata “regola”. In altre parole, in tutti quei casi in cui la patologia che affligge l’atto non possa qualificarsi alla stregua di una mera irregolarità formale dovrebbe ritenersi sussistente un’illegittimità tale da giustificare l’adozione di un provvedimento volto all’annullamento dell’atto stesso. E ancora, quanto alla più concreta individuazione della sussistenza di un vizio “rilevante” ai fini che qui interessano, può intendersi per tale quel vizio la cui rimozione è giustificata da un interesse pubblico (rectius: generale) che, in materia tributaria, ben può essere rappresentato, oltre che dalla netta deviazione da un modello comportamentale tipico prefissato, anche (solo) dalla mancata realizzazione della funzione propria del tributo, cui la stessa amministrazione finanziaria è obbligata a dare attuazione, ovvero la distribuzione dei carichi pubblici fra i consociati sulla base di un parametro dato e giuridicamente rilevante (id est: in conformità ad un comando legislativamente previsto) ed apprezzabile in termini di giusta imposizione. Con il che, presupposto per l’esercizio del potere di riesame in via di autotutela altro non sembra che la sussistenza di un vizio (come detto non insignificante) tale da affliggere l’atto sino a renderlo inadeguato al perseguimento degli interessi generali cui lo stesso è preordinato, ciò anche in considerazione del fatto che – se così non fosse – risulterebbe altresì violato il canone che prescrive come pure la stessa amministrazione finanziaria debba comportarsi secondo correttezza e buona fede.
Quanto ai limiti all’esercizio del potere di riesame in via di autotutela, è possibile osservare che – come peraltro esplicitamente riconosciuto dagli artt. 2 quater del d.l. n. 564/1994 e 2 del d.m. n. 37/1997 – non costituisce limite all’esercizio del potere di riesame in via di autotutela il fatto che sia pendente un giudizio avente ad oggetto l’atto viziato. Le stesse disposizioni ora richiamate, peraltro, espressamente ammettono la possibilità di esercitare il potere in parola anche nel caso di non impugnabilità (id est: definitività) dell’atto per mancata impugnazione di questo nei termini previsti a pena di decadenza. Ancora, sul punto specifico, deve osservarsi che le previsioni anzidette sono riferibili sia all’autotutela positiva (cioè sostitutiva dell’atto, dunque favorevole al fisco), sia all’autotutela negativa (cioè quella volta alla rimozione dell’atto impositivo, dunque favorevole al contribuente). Di talché il potere di autotutela positiva in nessun modo può dirsi limitato dalla mancata impugnazione nei termini dell’atto viziato mentre, diversamente, il potere di autotutela negativa (in quanto favorevole del contribuente) potrà ammettersi – in caso di atto definitivo – solo ove avente ad oggetto vizi sostanziali, attinenti cioè all’esistenza e all’ammontare del credito tributario fatto valere e non anche in relazione a vizi solo formali, attinenti cioè alla violazione di prescrizioni organizzative o procedimentali per le quali è onere del contribuente proporre impugnazione nei termini di legge, come detto previsti a pena di decadenza. In altre parole, essendo la pretesa tributaria nella sua sostanza fondata, la mancata impugnazione del relativo atto nei termini di legge indurrebbe a ritenere questo sanato proprio per effetto del mancato esercizio del diritto d’impugnazione da parte del contribuente. E difatti, a ben vedere, opinare diversamente significherebbe rimettere in termini il contribuente che – come noto – ha l’onere di far valere il suo diritto d’impugnazione entro ben precisi termini, il mancato rispetto dei quali può certo giustificare una limitazione all’esercizio del potere di autotutela che, in quanto tale, è stato originariamente introdotto in favore della realizzazione di un interesse pubblico (e non del solo contribuente). Vero e proprio limite all’esercizio del potere di riesame è certamente dato dal giudicato sostanziale (dunque in punto di merito e non anche di rito), ovvero dalla sentenza resa sulle quaestiones inerenti i vizi che hanno costituito oggetto dell’impugnazione, avanti al giudice tributario, dell’atto suppostone afflitto, beninteso ove il relativo giudizio sulle singole questioni si sia risolto in senso favorevole al fisco; diversamente, qualora la vertenza si fosse risolta in favore del contribuente, e nel caso in cui fossero stati sollevati vizi (solo) formali, l’amministrazione finanziaria, astrattamente, potrebbe provvedere in autotutela (dunque riemettendo un nuovo provvedimento impositivo), sempreché gli originari termini per l’esercizio della potestà di accertamento non siano già spirati. Al riguardo, lo stesso art. 2 del d.m. n. 37/1997 afferma che non si procede ad annullamento in via di autotutela, ovvero alla rinuncia all’imposizione, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria. In effetti, nella contraria ipotesi, si avrebbe il risultato di eludere quelle disposizioni e quei principi che affermano l’efficacia e la stabilità delle disposizioni contenute nelle decisioni giurisdizionali definitive, in ogni caso vincolanti in quanto rese in riferimento ai soli motivi fatti valere con l’impugnazione (e dunque con effetti non vincolanti in relazione a vizi eventualmente non sollevati in sede d’impugnazione dell’atto d’imposizione).
Quanto al procedimento di riesame finalizzato all’esercizio del relativo potere, come accennato, questo può essere avviato d’ufficio. Lo stesso può essere avviato anche ad istanza del contribuente. In tal caso l’ufficio destinatario dell’istanza ha l’obbligo di aprire il relativo procedimento onde valutare quanto rappresentato e di comunicare al contribuente l’esito dell’attività svolta, con l’illustrazione delle relative motivazioni a corredo della decisione, di accoglimento ovvero di rigetto, assunta. Infine, anche il Garante dei diritti del contribuente di cui all’art. 13 della l. 27.7.2000, n. 212, ha il potere, a mente del co. 6 dell’art. 13 predetto, di attivare le procedure di autotutela nei confronti di atti di accertamento o di riscossione notificati al contribuente. Anche in questo caso, dunque, pur a fronte dell’iniziativa del Garante, l’ufficio rimane l’esclusivo titolare del potere di riesame, avendo solamente l’obbligo di riscontrare e motivare in ordine alle conclusioni del procedimento di riesame di tal guisa attivato, ancorché con funzione lato sensu tutoria degli interessi del contribuente, ma senza alcuna garanzia di risultato.
Art. 2 quater del d.l. 30.9.1994, n. 564, conv. con mod. in l. 30.11.1994, n. 656, e artt. 1-8 del d.m. 11.2.1997, n. 37
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