Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il fenomeno delle avanguardie si è presentato all’inizio del Novecento in tutta Europa con una forza dirompente: futurismo, espressionismo, dadaismo e surrealismo hanno influenzato in maniera determinante la letteratura della prima metà del secolo aprendo a nuovi orizzonti creativi e stabilendo nuovi rapporti tra arte e pubblico. A partire dagli anni Cinquanta, le mutate condizioni economiche e sociali scatenano una nuova ondata di sperimentazione: in Germania si afferma il Gruppo 47, in Francia la scuola del nouveau roman e in Italia si assiste all’esperienza della neoavanguardia, movimenti destinati a incidere profondamente sulla cultura del secolo.
Guerra al passato
Filippo Tommaso Marinetti
Manifesto del Futurismo
1.
NOI VOGLIAMO CANTARE l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3.
La letteratura esaltò fino a oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
4.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.
7.
Non v’è bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere conseguita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8.
Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9.
Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo -, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
F.T. Marinetti, Manifesto del Futurismo, Paris, Le Figaro, 20 febbraio 1909
Il termine avanguardia, mutuato dal lessico militare, è utilizzato per la prima volta in ambito artistico da Baudelaire (1864) per indicare ironicamente la cerchia degli scrittori francesi di estrazione democratico-liberale. Nel Novecento l’espressione è servita per riferirsi a quei movimenti artistici e letterari originatisi in molte capitali europee tra il 1905 e il 1930, con l’intento di opporsi ai valori estetici di fin de siècle, sovvertendone forme, temi e convenzioni. Le avanguardie, e in particolare le cosiddette avanguardie storiche, così indicate dalla critica per distinguerle dall’esperienza della nuova avanguardia – sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e Sessanta – nascono dalla presa di coscienza delle mutate condizioni di lavoro intellettuale e artistico e dall’emergere di nuovi rapporti tra arte e mercato. L’avanguardia si oppone all’idea che l’opera d’arte possa essere ridotta a merce dal modello capitalistico borghese e a esso si contrappone come rottura e negazione. Ciò viene attuato attraverso la produzione di oggetti artistici che si collocano provocatoriamente contro i parametri imposti dal mercato e soprattutto al gusto del pubblico. Con l’intento pionieristico di contrapporre una critica violenta all’arte esistente, nel disprezzo dei canoni del passato e nella convinzione della forza dell’agire collettivo, i movimenti d’avanguardia si dedicano a uno sperimentalismo radicale di forme e linguaggi, convinti dell’autosufficienza dei testi e incuranti della comunicazione e della comprensione immediate.
La madre delle avanguardie storiche, con il suo manifesto inaugurale pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti sul giornale francese “Le Figaro”, il 20 febbraio 1909, è senza dubbio il futurismo. Il nome scelto per il movimento esplicita la sua avversione per il passato e la sua convinta modernolatria. L’antipassatismo si esplica nell’esaltazione della civiltà delle macchine, della velocità, del dinamismo e della simultaneità, che divengono i temi ispiratori della poetica e della poesia futurista. L’arte del passato deve essere distrutta, i musei bruciati, Venezia, città simbolo del decadentismo, bombardata: i poeti futuristi si affidano a una poetica pirica, “travolgente e incendiaria”, come nel caso del mondo rovesciato, dominato dal collasso del senso de L’incendiario di Aldo Palazzeschi. Tra i numerosi manifesti futuristi, che spaziano dalla pittura al cinema, dall’architettura alla danza, interessante risulta sul piano letterario Il manifesto tecnico della letteratura futurista (1912): le parole d’ordine sono la distruzione della sintassi, l’abolizione degli aggettivi e degli avverbi in favore degli aggregati di sostantivi, l’utilizzo del verbo all’infinito, la soppressione della metafora per un uso smodato dell’analogia, l’utilizzo massiccio dell’onomatopea, l’abolizione della punteggiatura e soprattutto l’introduzione di rumori, odori e pesi che rendano conto della moderna vita urbana. Marinetti propone anche l’adozione del verso libero, già teorizzato da Gian Pietro Lucini sulle pagine della rivista “Poesia”, diretta dallo stesso Marinetti, che conia però le espressioni parole in libertà e immaginazione senza fili per riferirsi alla nuova poetica del movimento.
Scopo del futurismo è quello di disintegrare ogni uso codificato della lingua, manifestando l’avversione profonda per l’io e le relative componenti psicologiche. Se la critica è spesso superficialmente unanime nell’archiviare la produzione letteraria futurista più radicale come fosse una mera documentazione storica, spesso sulla base della compromissione del movimento con il regime fascista, non pochi di questi documenti presentano tratti di straordinaria originalità. Alcune tavole parolibere, progenitrici dei successivi esperimenti di poesia visiva e concreta, restano ancor oggi splendidi esempi di inventiva e ricerca, come nel caso di Rarefazioni e parole in libertà (1914) di Corrado Govoni, in transito dal futurismo verso liberty e crepuscolarismo (secondo la lettura di Sanguineti) o le raccolte di Ardengo Soffici BIF e ZF + 18 Simultaneità (1915), forse il capolavoro del paroliberismo futurista. Di straordinario interesse per gli sviluppi successivi della poesia italiana è anche la poetica del grottesco e della provocazione di Aldo Palazzeschi, saltimbanco dell’anima, prontamente arruolato da Marinetti, a cui donerà forse il più bello dei manifesti futuristi, Il controdolore (1914), paradossale e cinica apologia del riso. Tra le opere più originali, non solo del periodo futurista ma della letteratura europea del Novecento, resta poi il suo “anti-romanzo”, Il codice di Perelà (1911), esempio di trasgressione programmatica da ogni principio di verosimiglianza e causalità, dove anche la voce del narratore si fa di fumo, come il personaggio del titolo, per lasciare spazio a un coro di voci sovrapposte.
Distruggere per rinascere
Il futurismo ha particolare risonanza anche fuori dall’Italia; nel 1913 Guillaume Apollinaire, pubblica il manifesto L’antitradition futuriste, fungendo da tramite tra l’esperienza del cubismo pittorico e del futurismo. Nei suoi Calligrammi (Calligrammes, 1918), Apollinaire adotta punti di vista multipli e pulviscolari, sgretolando parole e sintassi nel tentativo di liberare la componente istintiva della scrittura. Anche poeti come Blaise Cendrars e Giuseppe Ungaretti, all’epoca residente a Parigi, subiscono il fascino del futurismo, il primo attraverso la mediazione di Ricciotto Canudo, importante figura di raccordo tra le avanguardie francesi e italiane. Esponente dei movimenti poetici dell’imagismo e del verticismo, anche Ezra Pound intrattiene importanti relazioni con il futurismo, nonostante la dura polemica contro l’eloquenza dispersiva di Marinetti. Persino Fernando Pessoa, con l’eteronimo di Álvaro de Campos, partecipa al movimento futurista portoghese, facente capo alla rivista “Portugal futurista”. Testi come Ode marziale od Ode trionfale risalenti agli anni tra il 1915 e il 1920, sono adattamenti ai dettami delle parole in libertà, nati alla “dolorosa luce delle grandi lampade elettriche dell’industria” con l’intento di cantare la bellezza delle macchine. Il Paese che raccoglie maggiormente lo slancio del movimento fu però la Russia, in particolare grazie a poeti come Velimir Chlebnikov e Vladimir Majakovskij, autori di numerose raccolte poetiche sperimentali, e all’opera dei pittori del cubofuturismo e dell’egofuturismo. Tuttavia, il futurismo russo, pur nell’affinità dei procedimenti formali, si distingue da quello italiano per l’ispirazione rivoluzionaria, antimilitarista e antiimperialista, e per lo stretto rapporto instaurato, prima dell’avvento di Stalin, tra arte d’avanguardia e nuova società proletaria.
In Germania nasce nel 1905 il movimento d’avanguardia espressionista sviluppatosi inizialmente in campo pittorico, con la fondazione di Die Brücke, ispirato all’estetica dei pittori fauves francesi, nata come reazione primitivista al naturalismo e all’impressionismo allora dominanti sulla scena. Gli espressionisti si oppongono fermamente al materialismo borghese, proponendo il ritorno a una condizione originaria dell’uomo, l’Urmensch, dominata dall’irrazionale e dall’istinto. Ciò che differenzia l’espressionismo dalle altre avanguardie è soprattutto il cupo pessimismo, la visione apocalittica del mondo. Come ha scritto uno dei suoi esponenti, Hermann Bahr, “tutta la nostra generazione non è che un grido d’angoscia. E grida anche l’arte, verso le tenebre profonde, invoca aiuto, invoca lo spirito”. Proprio nell’urlo, ossessivamente rappresentato anche da pittori come Munch ed Ensor, si trova la cifra più autentica dell’espressionismo, che trova in esso, come ha sottolineato Mittner, la possibilità geometrica e astratta di una ricostruzione, per deformazione, del mondo. L’espressionismo letterario, che ruota intorno a figure come Gottfried Benn e Georg Trakl, ritrova i propri antecedenti nel Faust goethiano, in Nietzsche, nei frammenti dell’Hölderlin già vittima della follia, ma anche in Kleist e Hauptmann, autori estremi che ben rispondono alla necessità – descritta da Benn in Professione di espressionismo (1933) – di dissipare il mondo attraverso la dissipazione della lingua. La violenza si riflette infatti anche a livello linguistico attraverso verbi che indicano rottura, urto, lacerazione, assolutizzati con il ricorso a infiniti e forme infinitive, e all’uso massiccio di participi che svolgono la funzione di raccordo strutturale all’interno dei testi. La deformazione grottesca del linguaggio, che sottende il rifiuto radicale della società costituita, si riflette anche nella predilezione per i reietti e per tematiche efferate e cruente. Ne è esempio straordinario la raccolta pubblicata da Benn nel 1912, Morgue, dove, attraverso la crudezza del linguaggio medico e un catalogo di forme liriche stereotipate, si affrontano temi grotteschi e macabri. La concezione dell’essere umano che si fa luce in queste poesie rivela un nichilismo radicale, con l’immagine di un essere ridotto a carne malata o cadavere, spogliato non solo dell’anima e della trascendenza ma di tutto il valore comunemente connesso alla sua presunta condizione superiore. Tra gli espressionisti si collocano anche alcuni scrittori italiani gravitanti intorno alla rivista “La voce”. Tra essi il più rappresentativo è senza dubbio Clemente Rebora, autore della raccolta Frammenti lirici (1913), in cui l’atletismo espressivo si coniuga a una profonda ricerca etica.
Come l’espressionismo anche il dadaismo si sviluppa quale reazione all’orrore provocato dagli avvenimenti sociali e politici del primo Novecento, non a caso nel pieno della Grande Guerra e in territorio neutrale, Zurigo, intorno alla cerchia d’artisti che nel 1916 si ritrovavano al caffè letterario Cabaret Voltaire: Hugo Ball, Hans Richter, Hans Harp, Manuel Janco e Tristan Tzara, principale teorico del movimento. Il termine dada pare ben rendere l’alogicità e il nonsense dell’arte dadaista: sembra infatti che sia stato scelto aprendo a caso le pagine di un dizionario, anche se in rumeno – la lingua madre di Tzara – dada significa “sì sì” e in francese il termine rimanda all’espressione infantile che indica il cavalluccio di legno. Avverso ai valori culturali, politici e morali del mondo borghese, il dadaismo si diffonde ben presto in Germania e a Parigi, e a differenza dell’espressionismo adotta un’estetica del giocoso e dell’assurdo dove a dominare è la provocazione. Lo si vede espressamente anche nel metodo per fare una poesia dadaista enunciato da Tzara nel Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro (1920), che consiste nel ritagliare tutte le parole di un articolo di giornale e nell’estrarle a caso da un sacchetto dopo averle mescolate.
La poesia dadaista deve dunque scaturire da un gesto rivoluzionario, attraverso suoni e parole in libertà ma, a differenza del futurismo, con le parole-immagini e i suoni inarticolati si tenta ora di rendere quel “grado zero” della scrittura che permette di distruggere non tanto l’arte e la letteratura ma la loro idea precostituita, in un feroce attacco al razionalismo occidentale. Tra le opere poetiche di Tzara occorre ricordare La prima avventura celeste del signor Antipyrine (1916) e Venticinque poesie (1918), splendidi esempi della poetica alogica del movimento, che giunge alla provocazione dei versi senza parole di Ball, alla poesia rumorista di Hausmann e a quella fonetica di Schwitters.
Surrealismi: quasi un progetto
Molti dei membri del dadaismo confluiscono in Francia nel movimento surrealista nato nel 1924 con la pubblicazione del Manifesto del surrealismo, scritto da André Breton, uno dei rappresentati più importanti del movimento francese insieme a poeti e scrittori come Paul Éluard e Louis Aragon, e a figure quali Antonin Artaud e George Bataille, usciti dalle fila del movimento dopo l’iscrizione al partito comunista di alcuni esponenti. Nonostante Breton rivendichi nel manifesto fondativo la paternità del concetto, il surrealismo deve il proprio nome ad Apollinaire, che nel 1917 definisce la sua opera Le mammelle di Tiresia (Les mamelles de Tirésias), un “dramma surrealista”. A differenza del dadaismo, che si pone come un movimento anarchico principalmente contestatario, i surrealisti si pongono obiettivi costruttivi, appoggiandosi da un lato alla teoria freudiana e, in seguito, con il Secondo manifesto (1930) al marxismo. I poeti surrealisti trovano la propria ispirazione non nel mondo logico e razionale della realtà quotidiana ma in una dimensione altra, un tempo comune a tutti gli uomini, ma ora rimossa e dimenticata. Il sogno, l’inconscio e l’immaginazione concorrono al recupero di questa dimensione, la surrealtà, così come era in parte avvenuto nell’esperienza poetica di Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud o, assai prima, nell’opera pittorica di Hieronymus Bosch anche attraverso lo scandaglio di stati quali la follia e l’allucinazione, talvolta indotto dall’uso di stupefacenti. Il metodo della letteratura surrealista sarà dunque quello della scrittura automatica, della libera associazione delle parole e delle immagini, in un automatismo psichico che, se nel dadaismo denunciava l’assurdo, ora rivela gli abissi del profondo in un’ottica di liberazione totale dell’individuo. Nel romanzo del 1928, Nadja, uno dei capolavori di Breton, lo scrittore traccia un ritratto di sé e di una donna folle, una paziente del medico psicanalista Pierre Janet. Il titolo allude al nome della donna ma anche alle iniziali della parola russa “speranza” e la narrazione in prima persona di Breton è supportata da 44 fotografie di luoghi e oggetti che creano inconsuete associazioni con la scrittura.
L’automatismo surrealista unito a un uso sapiente dell’iterazione e dell’esclamazione e a un raffinato rimando a echi della lirica francese caratterizza la poesia di Eluard, a partire dalla pubblicazione del volume La capitale del dolore (Capitale de la douleur, 1926), incentrato sul tema dell’amore sentito come forza liberatrice. Nel 1930 Eluard pubblica insieme a Breton L’immacolata concezione (L’Immaculate Conception), una serie di prose poetiche che indagano la vita vegetativa del feto e di stati indotti di follia. Anche Aragon, nella raccolta di racconti brevi Il libertinaggio (Le Libertinage, 1924) narra storie frammentate messe insieme secondo il principio surrealista del collage: nel frammento intitolato Il grande toro, Aragon giustappone la descrizione dei preparativi di un matrimonio con immagini della guerra imminente: “Il sangue scorre nella città in rivolta. Ora l’uomo guarda uno squarcio di stelle mentre le bianche calze della donna si alzano sui fianchi”. All’estetica surrealista aderiranno, tra gli altri, scrittori come René Char, Raymond Queneau e anche il poeta spagnolo García Lorca, autore di raccolte sospese tra mito, realtà e sogno, contribuirà in maniera determinante alla diffusione del movimento. In Italia, intrattiene relazioni con il movimento francese Alberto Savinio, fratello di Giorgio de Chirico, autore di numerose prose e interventi: l’interesse per l’immaginario surrealista appare evidente nel racconto Il signor Münster, compreso nella raccolta Casa “la Vita” (1943), in cui il protagonista perde gradualmente tutte le parti del corpo scoprendo di potersi considerare un Altro, in un chiaro rimando alla poetica di Rimbaud.
Il secondo dopoguerra
Alla fine della seconda guerra mondiale si assiste a una nuova ondata di sperimentazione linguistica e formale a opera di gruppi di scrittori e intellettuali determinati a interpretare le mutate condizioni della società europea. A differenza delle avanguardie storiche, le nuove avanguardie, meno propense a presentarsi come gruppi compatti e ad affidarsi allo strumento programmatico del manifesto, non si contrappongono in maniera aggressiva all’industria culturale ma rivendicano piuttosto un loro spazio e una propria visibilità mediatica. È il caso dell’esperienza tedesca del Gruppo 47, fondato a Bannwaldsee da Alfred Andersch e Hans Werner Richter, nel settembre del 1947, quando una quindicina di autori, convinti di trovarsi di fronte a una nuova epoca letteraria, si riuniscono per leggere brani delle proprie opere: tra di essi Wolfdietrich Schnurre, che presenta il racconto La sepoltura del buon Dio, inscrivibile all’interno del realismo magico. Prima dello scioglimento ufficiale del gruppo, avvenuto nel 1977, attraverso l’istituzione del premio Gruppo 47, raccoglie l’adesione di numerosi intellettuali di spicco tra cui Peter Handke, Paul Celan e Ingeborg Bachmann, con il progetto democratico di ricostruzione del Paese fondato più che su pratiche comuni di scrittura su una serie di principi di carattere etico-ideologico come l’antifascismo, il socialismo e un anticonformismo radicale. Tra gli scrittori che prendono parte al progetto si contano anche il premio Nobel Heinrich Böll, autore, tra gli altri, del romanzo Opinioni di un clown (Ansichten eines Clowns, 1963), durissimo atto d’accusa contro l’ipocrisia della morale borghese e cattolica passata indenne tra gli orrori del nazismo e Hans Magnus Enzensberger, impegnato, in opere poetiche come Difesa dei lupi (1957) e Scrittura per ciechi (1967), in una feroce critica nei confronti della società tedesca del dopoguerra, adagiata su un perbenismo e un benessere che nascondono la totale mancanza del rispetto per l’altro.
Decisamente più complessa la situazione francese, che, a metà degli anni Cinquanta, vede l’emergere del cosiddetto nouveau roman, non una scuola e nemmeno un movimento, ma un gruppo di scrittori animati dall’intento di rinnovare radicalmente il genere romanzesco, dapprima sostenuti dalla casa editrice Le Minuit e in seguito dalla rivista d’avanguardia “Tel Quel”. Tra gli esponenti principali si annoverano Michel Butor, Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet e Claude Simon. Indicando come propri precursori Proust, Gide, Kafka e Joyce, i nouveaux romanciers si propongono di denunciare l’illusione realista della letteratura attraverso l’abolizione del racconto lineare e cronologico, la negazione del personaggio e della centralità dell’eroe, lasciando che il testo si produca da sé e che – come ha scritto Roland Barthes, tra i più ferventi sostenitori del movimento – il lettore non sia più solo un consumatore, ma un produttore del testo. Nel saggio del 1963 Per un nuovo romanzo, Robbe-Grillet afferma che il romanzo tradizionale, con la sua dipendenza da un narratore onnisciente e l’aderenza a unità di tempo e di spazio, contribuisce a creare un’illusione di ordine e di significato totalmente priva di aderenza alla discontinuità dell’esperienza moderna. Compito del nuovo romanziere è evitare ogni tecnica che imponga una determinata interpretazione degli eventi e del senso: da qui l’adozione del monologo interiore e di una scrittura costruita su varianti, scarti e su un continuo lavorio linguistico, che, attraverso anagrammi, paronomasie, omofonie, determini il procedere del testo. Questa prospettiva totalmente antiumanistica e dunque, secondo Italo Calvino, antitragica, si fonda su una minuta descrizione visiva delle cose e degli oggetti (che ha fatto perciò parlare di école du regard), registrati senza l’intervento di nessuna interpretazione, con un chiaro rimando alla filosofia fenomenologica di Husserl e Merleau-Ponty. Lo si vede molto bene nei primi romanzi di Robbe-Grillet, Le gomme (Les gommes, 1953; trad. it. 1961, Einaudi); Il voyeur (Le voyeur, 1955); La gelosia (La jalousie, 1957) e Nel labirinto (Dans le labyrinthe, 1959), in cui le lunghe descrizioni visive, eliminato ogni tipo di linguaggio figurativo e significato umano, gli valgono il titolo di chosiste. Come in molte delle sue opere, incentrate su un mistero senza possibile spiegazione, anche ne La gelosia, considerato da Nabokov uno dei più grandi romanzi del secolo, la storia si tinge di giallo: in una piantagione di banane ai tropici, un marito spia la moglie e il suo amante, il vicino di casa, attraverso le fessure di una gelosia. Questa trama minimale coniugata all’inconsistenza del ruolo del narratore provoca un forte senso di straniamento nel lettore, che percepisce come alieni anche i fatti più comuni. Lo stesso effetto perturbante si produce anche nelle opere di Michel Butor: il suo romanzo più famoso, La modificazione (La modification, 1959), è costruito come una storia nella storia, raccontata da una seconda persona plurale, che si conclude con la decisione del narratore, impegnato in un monologo interiore, a scrivere il romanzo.
Anche in Italia, intorno alla fine degli anni Cinquanta, dopo il lungo dibattito sul neorealismo, l’attenzione si sposta sul problema del linguaggio e della sperimentazione formale. Grazie alla mediazione di Luciano Anceschi, ideatore della rivista “Il Verri”, nata in polemica con il neosperimentalismo teorizzato da Pier Paolo Pasolini e dai collaboratori della rivista “Officina”, sorge il movimento denominato neoavanguardia, per via dell’operazione di recupero dell’eredità delle avanguardie storiche. Nel 1961 “Il Verri” pubblica l’antologia dei poeti novissimi: Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani e Antonio Porta, che insieme a molti altri scrittori e teorici della letteratura – tra cui Umberto Eco, Fausto Curi e Renato Barilli– nel 1963 diedero vita al cosiddetto Gruppo 63, chiaro rimando all’esperienza del tedesco Gruppo 47. L’apporto dei poeti della neoavanguardia riguarda soprattutto la concezione e l’uso del linguaggio, considerato come artificiale e sottoposto ai medesimi processi di alienazione della realtà e del soggetto. Il linguaggio non può dunque comunicare nessuna verità soggettiva, semmai diventare esso stesso un oggetto: al poeta-io – come scrive Antonio Porta – deve sostituirsi la figura del poeta-oggettivo. La lingua adottata è quella comune, manipolata però sintatticamente e semanticamente per evitare ogni tipo di linearità, con un uso smodato del plurilinguismo, di citazioni da opere colte e della cultura popolare che deviano o sovraccaricano il senso e confermano un andamento dei testi completamente antilirico, straniante, ironico. Tra gli autori più interessanti della neoavanguardia italiana occorre ricordare Edoardo Sanguineti che esordisce, giovanissimo, con la raccolta Laborintus (1956) in cui, mescolando immagini oniriche, sessuali e ideologia politica, mette letteralmente in scena i detriti di una cultura e insieme quelli dell’io, denunciando, nel “finimondo liquido” della palus putredinis che fa da sfondo alla raccolta, uno stato di esaurimento storico. Tra gli esponenti del Gruppo 63 si annoverano anche diversi narratori, tra i più interessanti Alberto Arbasino e Giorgio Manganelli: il primo straordinario autore di affreschi della nuova società italiana dei consumi, tra camp e intellettualismo, il secondo ossessionato dalla scrittura come macchina celibe e menzognera. Aderenti alla poetica della neoavanguardia sono anche i poeti facenti capo alla rivista “tam tam”, interessati alla sperimentazione della poesia visiva, concreta e sonora: tra essi Adriano Spatola, impegnato in un interessante recupero del surrealismo francese, Corrado Costa e Giulia Niccolai. Grazie a un incontro clandestino avvenuto nel 1967, in pieno regime franchista, con la mediazione dell’editrice Beatriz De Moura, il Gruppo 63 si confronta con diversi intellettuali spagnoli. Nel 1970 esce l’antologia Nueve novísimos poetas españoles, che include autori dediti a una forte sperimentazione formale, tra i quali si ricorda anche Manuel Vázquez Montalbán.
Oggi, nonostante la critica continui a coniare termini per definire l’attuale stato della sperimentazione letteraria – ne è un esempio il tentativo non del tutto felice dell’italiano Gruppo 93 – cercando di seguirne le continue “ondate”, il contemporaneo assetto culturale, che sembra aver metabolizzato anche l’indigesta definizione di postmoderno, non pare offrire spazio per canoni e principi formulati collettivamente, tanto che il sociologo Zygmunt Bauman ha affermato che il concetto di “avanguardia postmoderna” è una contraddizione in termini.