avari e prodighi
. Tanto nell'Inferno quanto nel Purgatorio gli avari e i prodighi sono insieme sottoposti alla stessa pena, in quanto il loro vizio ha il medesimo movente nell'immoderata brama delle ricchezze, che gli uni accumulano per il piacere del possesso e gli altri per profonderle irragionevolmente. Avendo peccato per incontinenza avari e prodighi sono collocati nel quarto cerchio dell'Inferno, dopo i lussuriosi e i golosi, e nella quinta cornice del Purgatorio, immediatamente prima dei golosi e dei lussuriosi.
In If VII avari e prodighi sono sottoposti alla pena di percorrere, distinti in due schiere, un semicerchio spingendo pesi (forse dei massi) col petto; quando si scontrano, si ingiuriano rinfacciandosi a vicenda la loro colpa col grido Perché tieni? e Perché burli? (v. 30), poi si voltano per ripetere lo stesso movimento e ancora scontrarsi alla parte opposta del semicerchio. Il poeta nota che in questo luogo i peccatori sono più numerosi che altrove e osserva tra di essi un gran numero di chercuti, ossia di religiosi; ma invano vorrebbe riconoscere qualcuno in particolare, ché Virgilio gl'insegna che la vita priva di discernimento che essi condussero li rende qui irriconoscibili, e quale corollario aggiunge che quando il giorno del giudizio rivestiranno le loro spoglie, a significare le loro colpe gli avari usciranno dal sepolcro col pugno chiuso e i prodighi con i capelli mozzi. In questo particolare forse si riconosce meglio il contrapasso, ché nella vera e propria rappresentazione della pena, più che una precisa connessione con la specie di peccato del quale si macchiarono avari e prodighi, si ha da notare l'abbandono del poeta a un libero gusto figurativo. Non dando rilievo a nessuno dei peccatori e trattando nel seguito del canto VII di altri argomenti (la Fortuna, gl'iracondi della palude Stigia), il poeta riduce invero la descrizione del quarto cerchio infernale allo spettacolo della ridda dei peccatori, arditamente aperta dall'immagine delle opposte correnti di Scilla e Cariddi (If VII 22-24) e commentata dalle parole severe di Virgilio (vv. 52-57); altra nota fortemente caratterizzante di questo spettacolo è il rilievo dato ai molti chercuti che si distinguono nella schiera degli avari.
Ben diversamente nel Purgatorio la pena degli avari e dei prodighi ubbidisce al principio del contrapasso, e le parole di Adriano V (XIX 121-126) la illustrano esplicitamente; anzi un'affermazione dello stesso papa (v. 117 e nulla pena il monte ha più amara), sembra voglia significare che sole fra le anime del Purgatorio quelle della quinta cornice sono sottoposte al contrapasso per somiglianza, che, costituendo quasi un prolungamento della colpa, rende più pungente il rimorso. Il poeta però, tra gli spiriti di questa cornice, parla soltanto con due macchiati della colpa di avarizia - Adriano V e Ugo Capeto -, e di prodighi non si avrebbe notizia se successivamente (Pg XXII 19-36) Virgilio non chiedesse meravigliato a Stazio come nel suo animo virtuoso avesse potuto trovar luogo l'avarizia, e l'interpellato non rispondesse che per l'eccesso opposto della prodigalità egli per migliaia di mesi è stato posto a espiare nella quinta cornice. Non risulta di qui un esplicito riconoscimento della minore gravità della prodigalità rispetto all'avarizia, o l'accettazione di tesi che si trovano svolte da s. Tommaso (Sum. theol. II II 119) e che hanno, per alcuni aspetti, precedenti nell'Eth. nic. IV 1 (" il prodigo sembra molto migliore dell'illiberale "). Secondo s. Tommaso infatti i prodighi sono quasi dei liberali che non sanno riconoscere il giusto oggetto delle loro largizioni, ed egli conclude il suo esame, notevole più per acume psicologico che per rigore dialettico, affermando che la prodigalità considerata in sé è colpa meno pericolosa dell'avarizia, non solo in quanto essa somiglia a liberalità male spesa, ma perché il prodigo può trovare alla fine nella povertà in cui si riduce una medicina al suo vizio, e perché la vecchiaia, che aggrava il peccato dell'avarizia, è invece per sé stessa capace di moderare i prodighi. Nulla può provare che D. fosse arrivato ad accogliere il parere di s. Tommaso, e, del resto, nelle opere minori, mentre sono frequenti i cenni all'avarizia e alla cupidigia, mai egli discorre in particolare della prodigalità. Tuttavia la parte di dialogo di Pg XXII tra Virgilio e Stazio implica sicuramente una diversa disposizione del poeta verso gli avari e verso i prodighi, ché se essi si allontanano per opposti eccessi dall'uso moderato delle ricchezze nel quale consiste la virtù, nei primi soltanto si danno completa aridità morale e assenza totale di spirito di carità. E alla diversa disposizione sentimentale verso gli avari e verso i prodighi non osta la singolare interpretazione del virgiliano " quid non mortalia pectora cogis, I auri sacra fames ! " (Aen. III 56-57) di Pg XXII 40-41, nonostante le difficoltà che comporta.
Peraltro, se l'ordinamento morale del Purgatorio non lascia luogo a dubbi circa l'origine di avarizia e prodigalità dalla medesima dismisura nel valutare e usare la ricchezza, e soltanto l'intervento di uno spregiudicato criterio di giudizio nel valutare la colpa di Stazio sembra comportare un'incrinatura nella concezione dantesca, più complessa e ricca di conseguenze è la determinazione dei due vizi nell'Inferno. Una speciale forma di prodigalità è infatti quella che D. punisce nel secondo girone del settimo cerchio, dove pone insieme con i suicidi i dilapidatori di sostanze. Egli dovette avere presente il passo di Aristotele (Eth. nic. IV 1) nel quale il filosofo dichiara che " lo sperpero delle ricchezze, per mezzo delle quali l'uomo sostenta la vita, è per così dire una distruzione della sua essenza ". D'altra parte, pur avendo riconosciuto nella schiera degli avari numerosi uomini di chiesa, quella speciale forma di cupidigia che si manifesta come commercio delle cose sacre egli vuole che sia punita nella bolgia dei simoniaci, e l'episodio centrale del canto XIX dell'Inferno - l'incontro con Nicolò III - non è senza rapporti e analogie con l'incontro che avverrà poi nel XIX del Purgatorio con Adriano V. Per parlare col papa simoniaco, ficcato a capofitto in un pozzetto della terza bolgia, il poeta deve piegarsi sì da assumere la posizione del frate che confessa / lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, / richiama lui per che la morte cessa (If XIX 49-51), e pur tenendo con lui un linguaggio severissimo dichiara che userebbe parole ancora più gravi se non fosse trattenuto dalla riverenza della dignità che il peccatore aveva ricoperto in vita (vv. 100-103). Anche per parlare con Adriano V, D. s'inginocchia, non solo per accostarsi di più al suo orecchio ma per uno spontaneo atto di riverenza, che il pontefice comprende e condanna invitando il suo interlocutore a risollevarsi, ché qui egli nulla serba della sua dignità terrena ed è conservo con lui e con le altre anime di un'unica potestà.