avarizia
. Nella distribuzione delle pene del Purgatorio D. si attenne alla gerarchia dei vizi capitali tradizionale nel Medioevo, che aveva avuto la sua più autorevole sanzione da Gregorio Magno, traducendosi nella formula mnemonica siiaagl (superbia, invidia, iracundia, acedia, avaritia, gola, luxuria). Nella gerarchia dei peccati si rispecchia pertanto la fedeltà del poeta alla teologia medievale, e la teoria esposta da Virgilio in Pg XVII 91 ss. si fonda su principi che si leggono anche in s. Tommaso: sia quello dell'amore naturale inteso quale principio di ogni operazione del creatore e delle creature (" Omne agens, quodcumque sit, agit quamcumque actionem ex aliquo amore ", Summ. theol. I II 28 6), sia quello della distinzione tra l'amore naturale e l'amore d'animo o di elezione (I 9 1). Pur riconoscendo nella superbia, che indusse Lucifero a ribellarsi a Dio, il primo e il più grave dei peccati e ponendo l'a. tra le colpe di incontinenza, D. per il suo temperamento morale e per i suoi ideali di riformatore non cessò tuttavia di condividere nell'intimo della coscienza il diverso parere di coloro che avevano ravvisato nell'a. la colpa più grave contro lo spirito del cristianesimo.
Tra questi, più di tutti autorevole, s. Agostino (De diversis quaestionibus octogintatribus 36), fedele al principio che il peccato è tanto più grave quanto più ostacola l'esercizio della carità, aveva riconosciuto nell'a. il massimo dei vizi. S. Tommaso (Summ. theol. II II 118) discusse la tesi agostiniana e temperò anche il parere di Gregorio Magno, che dall'a. come peccato capitale faceva derivare il tradimento, la frode, l'inganno, lo spergiuro, l'inquietudine, la violenza e l'insensibilità verso gli infelici. Egli osservava che l'avaro accumula ricchezze non al fine di soddisfare i suoi piaceri, ma per godere del loro possesso in quanto tale. La definizione dell'a., come vizio consistente " in appetitu cujuslibet exterioris rei ", era per di più approfondita dal santo dottore attraverso un acuto esame psicologico, che porta a stabilire anche quali siano le virtù che l'a. impedisce all'uomo di esercitare: giustizia e liberalità, precisando che in quanto si oppone alla giustizia essa non ha il suo vizio contrario, in quanto si oppone alla liberalità ha il suo contrario nella prodigalità.
Certamente anche D. s'impegnò in una connotazione psicologica dell'a., quando in Cv IV XII 4 ss. illustrava il tormento che la brama insaziata di ricchezze provoca negli avari (veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea, § 5), e, a conforto della sua tesi, citava, insieme con la Sacra Scrittura, Boezio (ricordato per una citazione sull'a. anche in Cv IV XIII 13), Cicerone, Seneca, Orazio, Giovenale. Tale connotazione psicologica restò implicita nella rappresentazione della lupa della selva infernale, della quale viene sottolineata l'insaziabile bramosia (If I 49-50, 97-99), ma nel primo canto dell'Inferno era altresì recisamente affermato che nell'a. deve riconoscersi la più grave corruttrice della società contemporanea, e contro di essa è specificamente invocato l'intervento di un grande riformatore dei costumi. Se infatti il poeta vedeva macchiate di quel peccato anche singole persone, lo condannò poi in vari luoghi del suo poema soprattutto come proprio di comunità e di categorie oppure di singoli individui nei quali, per la mansione politica e religiosa che ad essi competeva, il peccato di a. fu particolarmente funesto all'ordine sociale. Ne sono macchiati innanzi tutto papi e cardinali (If VII 47-48, XIX 104, Pg XIX 115, 121; Pd IX 130-136, XXVII 40-42), ma anche intere collettività civili quali i Fiorentini (If VI 74, XV 68), i Bolognesi (If XVIII 63), i Catalani (Pd VIII 77); e le nefandezze dell'intera dinastia dei Capetingi, secondo il giudizio dello stesso capostipite (Pg XX 82), da altro non deriverebbero che dall'a. sentita come fatale e tragico retaggio. Ma non sarà da trascurare la condanna dell'a. di Federico II re di Sicilia (Pd XIX 130), dei letterati (Cv I IX 2), dei principi e signori contemporanei (VE I XII 5), e, per converso, l'exemplum avaritiae resistendi del romano Fabrizio (Mn II V 11). Cfr. ancora Pg XXII 23, 34, 53.
Nella concezione dantesca le verità dei moralisti e dei teologi trovavano nuova motivazione grazie alla polemica contro il corso preso dalla storia contemporanea. Obiettivi di tale polemica erano soprattutto la politica dei papi temporalisti assetati di potenza e di ricchezza, l'azione di Rodolfo d'Asburgo e di Filippo il Bello intesa l'una e l'altra all'unificazione territoriale dei loro paesi e perciò guidata da spregiudicata sete di potenza, la crescente intraprendenza della classe mercantile, della quale il poeta vedeva gli effetti nella sua Firenze, la città nella quale si coniava il maladetto fiore / c'ha disvïate le pecore e li agni, / però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX 130-132). La trasformazione politica e sociale che aveva portato da un'economia di tipo agrario a un'economia fondata sulla circolazione delle merci e del denaro, e dall'ideale universalistico di papato e impero alla nascita degli stati moderni si rispecchiava nel pensiero di D. anche in questa particolare concezione. L'impegno morale e religioso in essa implicito lo portava a rimpiangere come tempi di una felicità perduta quelli in cui il clero aveva praticato le virtù della rinuncia: ed è sentimento, questo, che si esprime nell'ammirazione per il disprezzo dei beni materiali del quale furono capaci s. Francesco e i suoi primi seguaci (Pd XI 58-84), non meno che nelle parole di s. Pier Damiani che suonano lode ai religiosi capaci d'imitare gli apostoli nella rinuncia a ogni possesso, e condanna dei moderni pastori amanti del fasto (Pd XXI 127-135). L'ideale politico che si legava a codesta concezione alimentava d'altra parte nel cuore di D. la nostalgia della Firenze del tempo di Cacciaguida, sobria e non ancora tentata dal lusso che è naturale conseguenza delle grandi ricchezze (Pd XV 97 ss.), e lo portava a esaltare la liberalità come virtù che si oppone all'a. e che, non meno dell'esercizio delle armi, costituiva il vanto dei veri cavalieri (Pg VIII 129). Nell'a. D. vedeva dunque il più pericoloso ostacolo all'instaurazione della giustizia nel mondo. E nella sua sete di giustizia sta la ragione della condanna di questo vizio, che, se non è il più grave al cospetto di Dio, è il più nefasto per l'attuazione di quell'ordine in terra, che solo rende possibile il pieno estrinsecarsi della personalità umana. Risulta pertanto che la vicinanza al pensiero dell'Aquinate non fu di ostacolo ad accogliere istanze proprie della dottrina francescana, che confermavano, per questa parte almeno, la connessione per D. necessaria fra teoria morale e teoria politica. Importanti in questo senso, oltre tutto quello che si ricava dalla lettura della Commedia, sono le esplicite dichiarazioni contenute nella Monarchia, dove, posta la distinzione tra le due mete cui deve tendere l'uomo - la felicità di questa vita e la felicità della vita eterna - all'imperatore è attribuita la funzione di assicurare la pace in terra sedando quel fomite di disordini che è la cupiditas: Et cum ad hunc portum vel nulli vel pauci, et hii cum difficultate nimia, pervenire possint, nisi sedatis fluctibus blandae cupiditatis genus humanum liberum in pacis tranquillitate quiescat, hoc est illud signum ad quod maxime debet intendere curator orbis, qui dicitur romanus Princeps, ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur (Mn III XV 11). Cupidìtas è equivalente di a., ossia di quell'insaziabile sete di possedere che è simboleggiata dall'antica lupa di Pg XX 10, di quello che s. Tommaso definiva " appetitus inordinatus divitiarum " (Sum. theol. I II 84 1), e che già Aristotele, citato a questo proposito in Mn I XI 11, aveva riconosciuto come il peggiore ostacolo alla giustizia. Ma se il significato di cupidigia coincide con quello di a., non casualmente D. preferì il primo termine al secondo non soltanto nella Monarchia, ma anche nelle Epistole politiche (V 13, VI 22): il termine di ambito semantico più lato implicava l'a. in quanto smodata sete di ricchezze, e ne definiva in senso più ampio le pericolose conseguenze, sia in quanto manifestazione di ottuso egoismo sia in quanto desiderio di potere (v. anche AVARI e PRODIGHI).
Bibl. - A. Beugnet, in Dictionnaire de théologie catholique, I, Parigi 1923, coll. 2623-27; Morton W. Bloomfield, The Seven Deadly Sins. An Introduction to the History of a Religious Concept, with Special Reference to Medieval English Literature, Michigan 1952.