AVERROÈ (Ibn Rushd)
Arabo musulmano di Spagna, illustre filosofo, giurista e medico, cultore anche d'astronomia teorica, nato a Cordova nel 520 èg., 1126 d. C., morto a Marrākush nel Marocco nel 595 èg., 10 dicembre 1198, e sepolto a Cordova. Il suo nome completo è Abū 'l-Walīd Muḥammad ibn Aḥmad ibn Muḥammad ibn Rushd, spesso con l'aggiunta dell'epiteto al-Ḥafīd "il nipote", per distinguerlo dal famoso giurista suo nonno e quasi omonimo Abū 'l-Walīd Muḥammad ibn Rushd (450-520 èg., 1058-1126). Per la corruzione i Ibn Rushd in Averrois, Averroes, ecc. v. aven. Di famiglia assai ragguardevole, fu giudice (qāḍī) a Siviglia, poi a Cordova, e godette a lungo il favore di principi e sovrani della dinastia degli Almohàdi (v.), sottentrata nel 524 èg:, 1130 C., a quella degli Almoràvidi (v.); perciò a varie riprese fu fatto venire nel Marocco quale medico o quale giudice. Caduto poi in sospetto d'eterodossia, soprattutto per le accuse rivoltegli dai teologi (mutakallimūn) della scuola ash‛arita (v. al-ash‛arī), ch'egli a sua volta attaccava nei suoi scritti, fu relegato per qualche tempo ad al-Yusānah (Lucena), borgata poco a sud-est di Cordova (591-595 èg., 1195-1198); fu lasciato libero qualche mese prima della sua morte. Fu autore di numerose opere, fra grandi e piccole circa settanta o più, solo in parte a noi pervenute; anzi di parecchie di queste il testo arabo è perduto e non si conoscono se non traduzioni ebraiche e latine (per lo più dall'ebraico). Esse riguardano il diritto, l'astronomia, la medicina, la filosofia e la teologia.
Diritto. - A., come, al suo tempo, tutti gli abitanti della Spagna e dell'Africa di nord-ovest, seguiva in diritto (e quindi anche nel rituale) la scuola mālikita (v.). In questo campo la sua opera maggiore è la Bidāyat al-muǵtahid wa nihāyat al-muqtaṣid "Punto di inizio per il giurista sommo e limite estremo per il giurista medio", trattato completo di rituale e di diritto secondo la scuola mālikita, ma con continui riferimenti alle opinioni d'altre scuole o di singoli giuristi e con l'esposizione dei motivi di siffatte discrepanze. Opera notevolissima, per parecchi secoli trascurata in Oriente, finché fu litografata in due volumi a Fez nel 1327 èg. (1909), e stampata, su questa litografia e sempre in due volumi, al Cairo nel 1329 èg. (1911, è la migliore edizione), nel 1339 èg. (1920-21) e s. a. (1927), e a Costantinopoli nel 1333 e 1914-1915).
Astronomia. - All'infuori delle trattazioni ricorrenti nei suoi commenti ad Aristotele, sono da notare un compendio dell'Almagesto (pervenuto soltanto in un'inedita versione ebraica) e il De substantia orbis, assai più filosofico che astronomico, stampato nelle varie edizioni latine dei commenti ad Aristotele ed in realtà somma arbitraria di sei o sette opuscoli diversi. Da notare che negli scritti aristotelici A. è nettamente contrario all'astrologia ed all'alchimia e che inoltre, per motivi basati sulla fisica d'Aristotele, si dichiara contrario alla rappresentazione tolemaica dei moti planetarî mediante eccentrici ed epicicli, ai quali avrebbe voluto sostituire orbite concentriche. Da Arzachel (az-Zarqālī; v.) accolse la teoria della trepidazione delle stelle fisse".
Medicina. - I due libri principali, molte volte stampati in latino nel sec. XVI, sono il Colliget e il commento al poema medico (Cantica, al plurale) di Avicenna. Il primo è un manuale completo di medicina in sette libri, dei quali il primo espone l'anatomia del corpo umano; il nome è storpiatura del primitivo Colliet, trascrizione, in base alla pronunzia arabo-spagnola, del titolo arabo al-Kulliyyāt ("generalità"). Anche il secondo è un compendio di tutta la medicina, con nozioni di chirurgia alla fine. Sono pure stampati in latino il libretto De spermate (soltanto nel vol. XI dell'edizione latina d'A. fatta a Venezia dal Comino nel 1560) e il trattatello De theriaca.
Filosofia e teologia. - I suoi scritti filosofici si dividono in due gruppi: opere che prendono come punto di partenza i libri d'Aristotele ed opere od opuscoli indipendenti dal filosofo greco. Le prime (quasi tutte perdute in arabo) ci sono note in gran parte solo da versioni latine medievali o del primo ventennio del secolo XVI, per lo più fatte su traduzioni ebraiche, e comprendono tre categorie: a) commenti grandi (in arabo sharḥ), nei quali il testo aristotelico è riportato per intero e seguito, brano per brano, da ampio commento d'A.; i più importanti sono quelli alla Metafisica, al De anima e al De caelo; inoltre va osservato che non tutti i libri aristotelici ebbero da lui tal genere di commenti; b) commenti medî (in arabo talkhīṣ "compendio", nelle versioni latine Media expositio o Paraphrasis), più brevi e senza riportare per intero il testo d'Aristotele; c) compendî (in arabo ǵawāmi‛ "nozioni", nelle versioni latine Paraphrasis resolutissima od Epitome, eccezionalmente, per probabile svista di editori, soltanto Paraphrasis), nei quali A. abbandona il testo aristotelico per riassumere a suo modo la materia d'un dato libro. Del secondo gruppo di opere, cioè di quelle indipendenti dal filosofo greco, sono particolarmente celebri la Destructio destructionis (in arabo Tahāfut at-tahāfut, che può tradursi con "Il crollo del crollo" o "L'incoerenza dell'incoerenza" o "L'avventatezza dell'avventatezza"), alcuni opuscoli sull'unione dell'uomo con l'intelletto attivo (dei quali uno nelle edizioni latine porta anche il titolo di De animae beatitudine), uno scritto a noi giunto solo in arabo sull'accordo fra religione e filosofia (Faṣl al-maqāl) ed un manuale di teologia (al-Kashf ‛an manāhiǵ al-adillah). Il Tahāfut è una vivace confutazione del Tahāfut alfalāsifah "Il crollo (o l'incoerenza o l'avventatezza) dei filosofi (peripatetici)" del famoso teologo e mistico al-Ghazālī (v.; mort0 nel 505 èg., 1111); esso e il De animae beatitudine ebbero grande risonanza sia nel mondo giudaico, sia nel cristiano. Fuori del ciclo aristotelico sta anche la parafrasi della Repubblica di Platone, che A. dichiara d'avere intrapresa soltanto perché in Spagna la Politica d'Aristotele non era mai pervenuta.
Grande ammiratore di Aristotele (col quale assai di rado polemizza), A. vuol ricondurre il peripatetismo arabo alla sua purezza; quindi in parecchi casi combatte violentemente Avicenna (v.), da lui accusato, e non a torto, di fare concessioni ingiustificate alle dottrine dei teologi filosofanti della scuola ash‛arita, depravatori della sana filosofia. Ma naturalmente l'Aristotele d'A. è in varî casi, soprattutto nella psicologia, un Aristotele influenzato dalla scuola alessandrina, particolarmente da Temistio, da Alessandro d'Afrodisia e da Giovanni Filopono, che A. conosceva; così pure il modo di concepire la concatenazione del primo motore con le sfere celesti e il mondo terreno si collega con il sistema emanatista neoplatonico, nella forma introdotta da al-Fārābī (v.) e poi accolta da Avicenna, benché, punto fondamentale di divario, l'azione di Dio sul mondo sublunare sia concepita da A. in modo diretto.
Per A., come per Aristotele, Dio è atto puro. Per provarne l'esistenza egli ammette, oltre ad altri, anche gli argomenti avicenniani del passaggio dal contingente al necessario e dei gradi di perfezione dall'imperfetto al perfetto, ma eliminandone alcune idee d'Avicenna che si prestavano alla critica e dando loro quella forma che venne poi accolta da S. Tommaso d'Aquino come terzo e quarto argomento dell'esistenza di Dio. L'unità di Dio scaturisce dalla considerazione dell'essere non causato, cioè necessario, e parimenti da quella della semplicità di questo essere; con analoghi procedimenti se ne dimostra l'assoluta perfezione. Avicenna, partigiano della distinzione fra essenza ed esistenza nelle cose finite, riteneva Dio esistenza pura e gli negava l'essenza; A. combatte ciò: Dio ha un'essenza o quiddità, anzi l'essenza è la sua individualità stessa; in Dio essenza, esistenza e individualità sono la stessa cosa e non un composto. A. curiosamente distingue fra essenza e quiddità nelle cose finite, ma nega questa sua distinzione in Dio e nelle "sostanze separate" o immateriali (angeli, sfere celesti, ecc.). Combatte poi acremente i teologi della scuola ash‛arita nella loro dottrina che gli attributi di Dio siano distinti dall'essenza e nella loro negazione del principio di causalità e delle cause seconde. Quanto alla scienza di Dio, essa esiste dall'eternità ed è la causa delle cose, al contrario della scienza umana che dalle cose è causata; la scienza divina non può dunque paragonarsi in alcun modo all'umana e perciò sono in errore coloro che, avversando il peripatetismo, sostengono che questo porta a negare che Dio conosca i contingenti e i particolari allorché avvengono e come sono.
Per A. non esiste una creazione ex nihilo fatta una volta per sempre; la creazione è il trarre le cose dalla potenza all'atto e quindi ha luogo continuamente; ma la materia prima e il mondo esistono ab aeterno, essendo stati causati da Dio fin dall'eternità: è la tesi che poi S. Tommaso, trovandola in A., dichiarava filosoficamente possibile e da respingersi soltanto in base alla rivelazione. Per meglio chiarire la produzione del passaggio dalla potenza all'atto, A. liberamente s'ispira alla dottrina delle omeomerie d'Anassagora (già risuscitata presso gli Arabi dal teologo mu‛tazilita an-Naẓẓām, morto nel 221 èg., 836 d. C., col nome di kumūn, tradotto dai latini medievali con latitatio formarum) ed immagina che la materia prima sia pura potenza ed abbia dimensioni "interminate", necessarie a produrre le forme sostanziali; l'agente non fa che estrarre dalla materia queste disposizioni quantitative iniziali della materia stessa; in altre parole, ad ogni determinata forma deve preesistere una determinata materia, e nella materia esistono già i germi dell'esistenza che l'agente estrarrà. L'anima stessa animale vi è contenuta in potenza.
La dottrina averroistica che ebbe maggiore notorietà nel mondo cristiano occidentale, sostenuta dagli uni, acremente combattuta dagli altri e condannata dalla Chiesa, è quella dell'unità degl'intelletti umani. Come già altri Arabi, A. identifica l'aristotelico intelletto attivo con la più bassa delle intelligenze delle sfere celesti, ossia con il motore della sfera della luna. L'intelletto passivo della terminologia aristotelica è chiamato intelletto materiale (hayūlānī, ὑλικός) dal nostro filosofo (intelletto possibile d'altre terminologie, p. es. Dante, Purg., XXV, 65); esso è l'intelletto umano, che prende il nome di intelletto in atto od intelletto acquisito, quando lo si consideri in rapporto alle cognìzioni da lui acquistate in una determinata persona. L'intelletto umano o materiale è una forma immateriale, eterna, separata dagl'individui, non facente parte dell'essenza dell'anima; è unico dunque per tutta l'umanità; esso accoglie le idee che l'intelletto attivo rende intelligibili all'anima umana, dalle cui disposizioni dipende il grado d'effficacia di quei due intelletti nei singoli individui. Se dunque le singole persone differiscono grandemente fra loro per intelligenza e dottrina, tuttavia la somma delle cognizioni intellettuali rimane costante nel mondo; "le conoscenze scientifiche sono eterne, non generabili e non corruttibili se non accidentalmente per il loro unirsi a Socrate o Platone". Da ciò anche deriva che la specie umana deve essere eterna. Tuttavia è da notare che da queste idee A. (al contrario di parecchi averroisti latini) non deduceva che dovesse mancare l'immortalità all'anima razionale, all'intelletto degl'individui.
La mistica filosofica si ritrova in A. sotto la forma della possibilità, per quanto rara, dell'unione dell'intelletto umano con l'intelletto attivo sino al punto da intendere infine anche le "sostanze separate"; è questa la somma beatitudine che l'uomo possa conseguire in questa vita e che, per il suo carattere eminentemente speculativo, è particolare del filosofo. Non ben chiara è la posizione di A. rispetto ai ṣūfí o mistici musulmani a base religiosa emotiva; la possibilità della conoscenza mistica, intuitiva di Dio è ammessa come cosa del tutto eccezionale nella sua teologia.
La figura d'un A. empio, spregiatore delle religioni rivelate e autore della dottrina delle due verità - figura così comune nel Medioevo latino ed ancor oggi non rara fra gli studiosi - non corrisponde alla realtà; essa, fra l'altro, deriva da equivoci prodotti da sue espressioni e da sue polemiche nei lettori che abbiano sott'occhio soltanto le versioni latine e non conoscano la storia religiosa e le dottrine dell'islamismo. Per A. filosofia sana e religione rivelata (per i musulmani giudaismo e cristianesimo sono pure rivelati e soltanto abrogati poi dalla legge di Maometto, onde il frequente accenno alle "tre leggi" cioè religioni) rappresentano una sola e identica verità, cosicché un disaccordo fra loro sarebbe un assurdo. La rivelazione ai profeti secondo la dottrina musulmana è da A. più volte affermata. Ma la religione, destinata all'universalità degli uomini, mira a fare che questi siano virtuosi e non ad addottrinarli nel campo scientifico e filosofico; rivolgendosi a tutti, i profeti inviati da Dio hanno dovuto usare un linguaggio semplice, parlante al sentimento ed all'immaginazione, usante simboli attinti a forme sensibili, antropomorfismi, ecc. Al filosofo spetta l'interpretazione e la dimostrazione scientifica degli elementi dogmatici forniti dalla rivelazione; non ai teologi speculativi (mutakallimūn, nome reso con loquentes o loquaces nelle versioni latine) di scuole come la ash‛arita prevalente nell'Africa settentrionale e nella Spagna, i quali non solo dichiaravano il raziocinio obbligatorio in materia dogmatica anche per gli uomini più semplici, ma inoltre usavano nella spiegazione razionale delle verità rivelate metodi dialettici e non veramente dimostrativi e introducevano elementi filosofici repugnanti alla filosofia aristotelica, come la dottrina atomistica della materia e del tempo, la negazione del principio di causalità, ecc. Il sistema dei mutakallimūn è buono per quegli uomini ammalati di ambiguità, che stanno di mezzo fra il volgo ed il vero sapiente e si accontentano quindi di soli argomenti dialettici aventi valore persuasivo ma non dimostrativo; i mutakallimūn, con le loro difettose dimostrazioni, finiscono spesso con l'indurre il volgo al dubbio e all'incredulità; in ogni modo non hanno diritto di attaccare la filosofia peripatetica rettamente intesa. Nel caso di passi dei testi sacri che apparissero assurdi alla ragione, spetta a questa darne l'interpretazione allegorica, che tuttavia non dovrà essere data in pasto al volgo e non dovrà mai arrivare alla negazione dell'esistenza di ciò che i testi rivelati indicano.
Molte delle opere filosofiche d'A., furono prestissimo tradotte in latino direttamente dall'arabo o mediante versioni ebraiche, ed esercitarono notevole influenza sulla Scolastica, particolarmente su Alberto Magno e S. Tommaso d'Aquino; quest'ultimo se ne valse in parecchi punti importanti della teodicea (cosa rilevata dal Chossat, art. Dieu, in Vacant, Dict. de theologie catholique, IV, Parigi 1911, passim), come della dottrina averroistica intorno alla beatitudine della completa unione dell'intelletto umano con l'intelletto attivo fece esplicito uso per tentar di spiegare la visio beatifica ossia la felicità del paradiso. Naturalmente non mancò di combattere in altri punti il Commentatore, come, per antonomasia A. si soleva chiamare dai latini. Ma ancora maggiore per importanza fu il movimento filosofico suscitato dalle opere d'A. nei secoli XIII-XIV e noto sotto il nome di averroismo latino (v. sotto). Invece nel mondo arabo A. non ebbe grande risonanza; la sua fine coincise con la decadenza degli studî filosofici musulmani e quindi solo il Tahāfut at-tahāfut continuò ad essere oggetto di studio, in Oriente, ancora nel sec. XVI; i testi arabi delle sue opere a base dei libri aristotelici sono in massima parte perduti.
Le edizioni complessive delle opere d'A. che furono tradotte in latino cominciano con quella di Padova del 1472-1474 (3 volumi in fol.) e terminano con quella di Venezia del 1573-1375 (10 voll., oltre uno contenente la Tabula di M. Zimara); le più antiche riproducono le primitive versioni fatte sull'arabo, che poi a poco a poco vengono quasi tutte sostituite da altre meno barbare, fatte su traduzioni ebraiche. Le edizioni più pregiate sono le tre dei Giunti di Venezia: 1550-1552 (11 voll. in fol., senza la tavola dello Zimara), 1562 (10 voll. in 8, oltre il vol. dello Zimara), 1573-1575 (che riproduce pagina per pagina, riga per riga l'ed. 1562); inoltre l'edizione di Comino da Trino Monferrato, fatta a Venezia nel 1560 (11 voll. in 8°, senza Zimara), la quale è la sola che contenga l'opuscolo De spermate e il commento medio ai primi sette libri della Metafisica); tutte queste quattro edizioni contengono anche le opere mediche.
Iconografia d'Averroè. - In dipinti italiani più volte A., col turbante, è rappresentato all'inferno oppure vinto ed abbattuto da S. Tommaso; fa eccezione il quadro della Scuola d'Atene di Raffaello nelle Stanze vaticane, ove tuttavia il Renan vorrebbe mettere in dubbio che si tratti realmente d'A. Per l'elenco di queste raffigurazioni si veda Renan, Averroès, pp. 302-315.
Bibl.: Gli studî complessivi su Averroè sono tutti basati soltanto su una parte delle sue opere ed inoltre arretrati, cosicché la figura d'Averroè è sotto varî aspetti rappresentata in forma insufficiente od errata; notiamo: E. Renan, Averroès et l'averroïsme, 2ª ed., Parigi 1861 (le varie ediz. posteriori riproducono questa senza mutamenti, riga per riga; il libro vale più per la storia dell'averroismo latino che per il filosofo arabo); H. Ritter, Geschichte der Philosophie, parte 8ª (Gesch. der christlichen Philos., parte 4ª), Amburgo 1845, pp. 115-160 e 166-172 (sempre utile); S. Munk, Mélanges de philos. juive et arabe, Parigi 1859, pp. 418-458 (notevole anche per l'uso d'importanti ed inediti scritti ebraici); A. Stöckl, Gesch. der Philosophie des Mittelalters, II, 1865, pp. 67-124; C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, II, Lipsia 1861, pp. 374-385 e 385-392 (qui a torto nega l'autenticità d'uno scritto logico da lui analizzato); L. Gauthier, La théorie d'Ibn Rochd (Averroès) sur les rapports de la religion et de la philosophie, Parigi 1909 (assai pregevole, benché non tutti i lati della questione siano stati veduti, cfr. Rivista degli studî orientali, VII (1916), p. 511); M. Asin, El averroísmo teológico de Santo Tomás de Aquino, nell'Homenaje á D. Francisco Codera, Saragozza 1904, pp. 271-331 (molto notevole, benché non sembri accettabile la tesi che la posizione di S. Tommaso rispetto ai rapporti fra religione e filosofia sia eguale a quell d'Averroè, ed a questa inspirata); T. de Boer, Die Widersprüche der Philosophie nach al-Gazzālī und ihr Ausgleich durch Ibn Rošd, Strasburgo 1894 (analisi dei due Tahāfut); L. Hannes, Die AVerroes ABhandlung über die Möglichkeit der Conjunction, Halle a. S. 1892 (diss., vers. ebraica e trad. tedesca, incompiute); J. Hercz, Drei Abhandlungen über die Conjunction... von Averroes (Vater und Sohn)..., Berlino 1869 (traduzione ebraica con vers. tedesca; l'opuscolo del figlio d'Averroè, che il Renan aveva dato in antica vers. latina credendolo del padre, fu poi edito in arabo, tradotto in spagnolo ed illustrato da N. Morata, Escorial 1925, estr. dalla Ciudad de Dios). Per i mss. arabi di scritti d'Averroè attualmente esistenti v. M. Bouyges nei Mélanges de l'Université Saint-Joseph de Beyrouth, VIII e IX (1922 e 1924).
Le moderne versioni dall'arabo di scritti d'Averroè sono: Averroes, Philosophie und Theologie... übersetzt von M. J. Müller, Monaco (Accad.) 1875 (trad. del Faṣl al-maqāl e del Kashf); L. Gauthier, Accord de la religion et de la philosophie... d'Ibn Rochd, nel Recueil de mémoires... de l'École supérieure des lettres, Algeri 1906, pp. 269-318 (ottima vers. del Faṣl); M. Horten, Die Hauptlehren des Averroes..., Bonn 1913 (trad. compendiata del Tahāfut, assai difettosa); Averroes, Compendio de metafísica, trad. di C. Quirós Rodríguez, Madrid 1919 (testo arabo in base ad un ms. non usato nell'ed. del Cairo, e vers. spagnola assai preferibile alla tedesca del Horten 1912, ma tuttavia con non lievi difetti); S. van den Bergh, Die Epitome der Metaphysik des Averroes übersetzt..., Leida 1924 (ottima versione con importanti annotazioni).
L'averroismo latino. - La fortuna che i commenti di A. ebbero in Occidente, spiega, in parte, anche l'avversione che la Chiesa mostrò a tutta prima, contro lo stesso Aristotele. Nel Maurizio Ispano, che il legato pontificio Roberto de Courçon condannava nel 1215 insieme con Aristotele, Davide di Dinant e Amalrico di Bena (v. aristotele, IV, pp. 360b-361 a), il Renan ha creduto, non senza fondamento, di poter riconoscere per l'appunto Averroè. Dai seguaci di lui faticò a farsi distinguere lo stesso San Tommaso, il quale appunto aveva asserito che la non-eternità del mondo sola fide tenetur et demonstrative probari non potest (S. theol., I, qu. 46, art. 2). Ma Alberto Magno e San Tommaso avevano recisamente ed aspramente combattuto le altre tesi caratteristiche d'A., e in particolare quella dell'unità dell'intelletto, così pericolosa, per il dogma cristiano, nelle sue conseguenze, in quanto sembrava negare l'immortalità delle anime individuali.
È tuttavia più che dubbio, che il De unitate intellectus contra Averroistas dell'Aquinate fosse scritto in risposta al De anima intellectiva di quel Sigieri di Brabante (v.) che fu il principale rappresentante e, per così dire, il caposcuola dell'averroismo del secolo XIII. Egli insegnava a Parigi, nella facoltà delle arti; ed appunto alcuni maestri di questa, semplici chierici non appartenenti ad ordini religiosi e meno vincolati anche dei preti secolari che insegnavano nella facoltà teologica, sostenevano di dover prescindere dalle conseguenze che l'insegnamento filosofico poteva avere nel campo teologico e fermarsi a dimostrare le conclusioni cui può pervenire la ragione naturale, senza il soccorso della fede. E questo è per l'appunto l'atteggiamento di Sigieri, il quale dà bensì alla verita rivelata (sola verità) il sopravvento, e limita il compito della filosofia alla sola ricerca delle opinioni dei filosofi; ma, tenendo pur sempre ferme le conclusioni puramente razionali, finisce con l'esacerbare il contrasto tra la ragione e la fede e con l'assumere una posizione inaccettabile per l'ortodossia, in quanto ammette che la fede possa imporre di credere a tesi contraddette dalla ragione; laddove San Tommaso assegna precisamente alla ragione il compito di dimostrare i preambula fidei. Veniva così ad aggiungersi, alle caratteristiche tesi sostenute da A., almeno come atteggiamento pratico e scappatoia personale, la cosiddetta "dottrina della doppia verità" di cui non si trova traccia nel pensiero genuino d'Ibn Rushd (v. sopra).
Il pericolo rappresentato dall'averroismo veniva sentito ben presto; il 19 gennaio 1263 Urbano IV rinnovava la proibizione di Gregorio IX di leggere Aristotele; nel 1270, l'anno dopo il ritorno di San Tommaso a Parigi, tredici proposizioni venivano condannate dal vescovo Stefano Templare; ma il provvedimento incontrò la vivace opposizione dei colpiti. Egidio di Lessines invitava Alberto Magno a pronunciarsi in merito; a San Tommaso era posta la questione, da lui risoluta in senso favorevole alla gerarchia, se si dovessero evitare quegli scomunicati, sulla cui condanna i competenti erano discordi. E, dopo la sentenza nel 1277 Sigieri era citato a comparire davanti all'inquisitore di Francia.
In seguito alla stessa condanna, fuggiva anche un altro maestro della facoltà delle arti, Boezio di Dacia (Boetius natione Dacus), intorno al quale si desidera tuttavia maggior luce. Gli si possono attribuire parecchi scritti, fra i quali un commento a Prisciano, in due parti (il titolo della prima, De modis significandi, è talvolta attribuito a tutta l'opera). Sono perduti in gran parte i suoi commenti ad Aristotele; ci resta invece un suo commento alle Sentenze. Anche più oscura è l'attività di un terzo maestro delle arti, contemporaneo di questi due, Bernieri di Nivelles.
Ma se non tutta la facoltà delle arti parigina fu averroista, con quelle condanne la scuola non fu tuttavia colpita a morte: continuò anzi, e nella stessa Parigi ebbe un rappresentante notevolissimo, all'inizio del sec. XIV, in Giovanni di Jandun (v.), che da Marsilio da Padova (v.), durante il suo soggiorno parigino dopo il 1312, ebbe il commentario ai problemi d'Aristotele di Pietro d'Abano. Anche Giovanni sostiene l'eternità del mondo e del movimento e l'unità dell'intelletto, benché aggiunga che la fede costringa a ritenere il contrario. Ma la maniera in cui egli si esprime è significativa: perché egli sa che è impossibile dimostrare con la ragione la tesi imposta dalla fede, e solo concede che presso Dio siano possibili quelle cose che la ragione dimostra invece impossibili. E non vi sarebbe nessun merito nel credere ciò che si può dimostrare. Il contrasto tra ragione e fede, in questo commentatore che si proclama da sé la scimmia di Aristotele e di A., è spinto dunque fino all'estremo; e le concessioni ch'egli fa al dogma sono espresse con un tono ironico, che non lascia dubbio sulle sue vere opinioni.
Un altro averroista, ma ben più moderato e prudente di Gíovanni di Jandun, fu l'inglese Giovanni di Baconthorpe (Johannes Baconis), un carmelitano che insegnava a Parigi; fu dal 1327 provinciale del suo ordine in Inghilterra, e morì nel 1346 o 1348. Abbiamo di lui numerosi commenti inediti alle più importanti opere di Aristotele, un commento alle Sentenze di Pier Lombardo (Milano 1510 e Venezia 1526), delle Quaestiones sulle stesse (Cremona 1618) e dei Quodlibeta (Venezia 1527); respinge le tesi di A. più contrarie al dogma, e cerca di conciliarne le dottrine con l'ortodossia.
Alla stessa tendenza appartiene anche Pietro d'Abano (v.) al quale, oltre che a Giovanni di Jandun, si può far risalire quella vena di aristotelismo che s'incontra senza dubbio in Marsilio. Vissuto tra il 1257 e il 1315, egli, benché assai timidamente (non è ben chiaro neppure se accettasse del tutto la dottrina dell'eternità del mondo) introdusse l'averroismo nell'università di Padova.
E l'averroismo, sia come tenace adesione ad Aristotele e al suo commentatore, sia, in forma più spinta, come avversione al dogma cattolico ed all'autorità della Chiesa, perdurò a lungo in Italia, e specialmente a Padova. Il servita Urbano da Bologna (Urbano averroista) compose intorno al 1334 un commento al commento d'A. alla Fisica; Paolo di Perugia scrisse, nel 1344, un commento alle Sentenze. Se questi due rappresentano un indirizzo moderato, molto più spinto è Paolo di Venezia (v.); ed in Padova, dove risiedevano gli averroisti contro i quali il Petrarca ebbe a difendere sé stesso e Platone (De sui ipsius et multorum aliorum ignorantia, 1368), la tradizione aristotelico-averroista è continuata giù giù nel Rinascimento da una serie di maestri quali Gaetano da Thiene, morto nel 1465, di tendenze concilianti ed autore anche di commenti alle opere logiche di Guglielmo di Heytesbury, Nicolò Vernia (v.), che sostenne e quindi rinnegò l'unità dell'intelletto e la mortalità delle anime individuali, il suo scolaro Agostino Nifo, che subì un'evoluzione consimile ed ebbe a sostenere una polemica col Pomponazzi, allorché appunto la scuola aristotelica italiana si divise nelle due correnti, in lotta tra loro, degli averroisti e degli alessandristi (da Alessandro di Afrodisia, v.). Altro avversario del Pomponazzi (e, in pari tempo, dei platonici) fu Alessandro Achillini da Bologna (v.), che scrisse i libri De universalibus (Venezia 1501), De intelligentiis (Venezia 1508), De distinctionibus (Bologna 1518), ed un commento ai primi due libri della Fisica. Averroista anche più spinto fu Marc'Antonio Zimara, napoletano, che insegnò a Napoli e a Padova, al quale si debbono, oltre che annotazioni ed indici alle opere d'A., edizioni del Commentatore (v. sopra) e di averroisti medievali.
E la scuola, che, in quanto rimane attaccata ad Aristotele e ad A., identificando quasi la filosofia col loro pensiero, può sembrare anche morta e priva d'importanza storica, ma non poca ne ha invece in quanto sostenne contro la teologia imperante i diritti della ragione umana, e, sia pure con la dottrina della doppia verità, cercò di conservare intatta l'indipendenza del pensiero nel perenne faticoso lavorio della ricerca filosofica, continua ancora, in pieno 500 e nei primi decennî del secolo successivo, con pensatori che rimangono più o meno sotto l'influsso dell'averroismo, quali lo Zabarella (v.) e il suo discepolo Cremonini (v.).
Bibl.: Oltre all'opera classica del Renan (v. sopra) e le opere generali, quali: Hauréau, Histoire de la philos. scholast., voll. 3, Parigi 1872-80; M. Grabmann, Geschichte der scholastischen Methode, II, Friburgo in B. 1911; G. Seyer, Die patristische und scholastische Philosophie, Berlino 1928; M. Frischeisen-Köhler e W. Moog, Die Philosophie der Neuzeit, Berlino 1924 (II e III vol. del Grundriss dell'Uebeweg); G. Gentile, Storia della filosofia ital., I, Milano s. a. (nella Storia dei generi letterari del Vallardi); id., I problemi della scolastica, ecc., 2ª edizione (Scritti filosofici, V), Bari 1923: e, oltre alla bibliografia sotto gli articoli dedicati ai singoli filosofi, vedi: K. Werner, Der Averroismus in der christlichperipatetisch Psychologie des späteren Mittelalters, Vienna 1881; P. Mandonnet, Siger de Brabant et l'averroïsme latin au XIII siècle, voll. 2, Lovanio 908-11; M. Grabmann, in Theolog. Quartalschrift, 1911, p. 544: id., in Miscellanea F. Ehrle, I, Roma 1924: id., in Sitzungsberichte der bayer. Akad. der Wissensch., 1924, II; M. Chossat, in Revue de philosophie, XIV, 1914, p. 553 segg.; A. Masnovo, in Riv. di filos. neoscol., XVIII (1926), p. 43 segg.
Per Boezio di Dacia: P. Doncœr, in Revue des sciences philos. et théolog., IV (1910), p. 500 segg.; A. Chollet, in Dictionn. de théol. cathol., II, s. v. Per gli averroisti del sec. XIV: E. Gilson, Études de philosophie médiévale, Parigi 1921, p. 51 segg.; per Giovanni di Baconthorpe, B. F. M. Xiberta, in Analecta ordinis Carmelitarum, VI (1927); id., in Criterion, III (1927).