averroismo
Corrente della scolastica (propr. a. latino; ma la storiografia più recente ha proposto anche altre denominazioni, tra cui aristotelismo radicale o eterodosso o integrale) che dal 13° sec. fino a tutto il 16° sec. si rifà ad Aristotele, seguendo l’interpretazione di Averroè (➔). Si può distinguere un primo a. (1220-30), che, contro Avicenna, pretende di restituire all’uomo l’intelletto, e un secondo a., che, rileggendo Averroè, pone invece sia l’intelletto materiale sia l’intelletto agente come separati, e lascia all’uomo solo i fantasmi. Il centro dell’a. fu, nella seconda metà del 13° sec., la facoltà delle arti di Parigi dove insegnavano gli averroistae Sigieri di Brabante (che si può considerare il caposcuola), Bernieri di Nivelles e Gosvino di La Chapelle. Importante è infine la figura di Boezio di Dacia. Nel commentare Aristotele, gli averroisti sostenevano la separatezza dell’intelletto possibile, unico per tutti come quello agente, negando così l’immortalità personale e la provvidenza; il mondo è eterno e la necessità domina la volontà umana. Più che sulla loro personale adesione a tali dottrine, essi insistevano però sull’autonomia della ricerca filosofica rispetto alla fede. Non professando necessariamente come proprie le dottrine che derivavano dalla filosofia di Aristotele, gli averroisti le rivendicavano vere per la filosofia. Così, se queste non concordavano con la verità rivelata, essi concludevano l’impossibilità di rendere cristiano Aristotele, dichiarando di rigettare, come credenti, le stesse dottrine che, in quanto filosofi (artistae), ritenevano «vere», perché coerentemente dedotte dai principi aristotelici. Tale posizione suggerì però agli avversari l’idea – come tale estranea ad Averroè – che essi professassero una «doppia verità» o piuttosto due distinte verità (quasi essent duae veritates). Distinguendo il discorso del religioso da quello del filosofo (tesi di Averroè ignota al mondo latino sarà invece quella della necessaria modulazione del discorso in relazione alle capacità dell’interlocutore), essi separavano il campo del soprannaturale da quello naturale, permettendo per altro, all’interno della disciplina filosofica, lo sviluppo di questioni indipendenti. Avversari degli averroisti furono gli scolastici della corrente avicennistico-agostiniana (Bonaventura), ma anche Alberto Magno e Tommaso d’Aquino (autore del De unitate intellectus contra averroistas) che, pur critici, ebbero un debito dottrinale certo nei confronti di Averroè. La critica di Tommaso mirava del resto anche a evitare la messa in accusa dell’aristotelismo e alcune tesi dello stesso Tommaso d’Aquino finirono per essere condannate. L’autorità ecclesiastica a Parigi condannò infatti le tesi averroistiche (sempre unite a tesi più genericamente aristoteliche) nel 1270 (13 proposizioni) e poi nel 1277 (219 proposizioni, fra le quali alcune di Tommaso d’Aquino); Sigieri, accusato di eresia, si recò alla corte papale per difendersi, ma finì per essere ucciso (forse da un servo). L’a. ebbe molti seguaci a Parigi (Giovanni di Jandun; Marsilio da Padova, nel 14° sec.), ma anche a Oxford, e specialmente in Italia, all’università di Padova (Pietro d’Abano; Paolo Nicoletti, detto Paolo Veneto; e Nicoletto Vernia, ormai del 15° sec.), a Bologna (Giovanni di Jandun; Taddeo da Parma; Angelo d’Arezzo) e a Firenze; si parla infatti anche di a. italiano, nel quale potrebbe andare incluso secondo alcuni anche Dante. Poiché le opere di Aristotele, studiate nelle università, erano quasi sempre accompagnate dal commento di Averroè (che a volte anzi era fatto obbligo di seguire), l’a. si mantenne forte fino a tutto il 16° sec., per opera di Gaetano da Thiene, Nifo, Achillini, Zimara e altri.