Avicenna e l'alchimia araba
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il X e l’XI secolo l’alchimia islamica conosce una ricca fioritura sia nei califfati d’Oriente che in quello spagnolo di Cordoba. Per quanto riguarda l’area orientale, una delle figure più importanti della scienza araba di questo periodo è certamente quella del medico e filosofo di origine persiana Abu Ali al Husain ibn Abdallah ibn Sina noto in Occidente col nome di Avicenna, le cui conclusioni sull’alchimia animano il dibattito contemporaneo e dei secoli successivi sulla validità scientifica di questa disciplina.
Nato nel 980 ad Afshanah, un villaggio della Persia orientale, ancora bambino Avicenna si trasferisce nella vicina Bukhara, dove inizia la sua formazione studiando il Corano e la poesia araba. Dedicatosi in seguito allo studio dell’aritmetica, della filosofia e della medicina, a soli diciassette anni ottiene il titolo di medico. In età matura affianca alla sua attività di scienziato quella politica, rivestendo importanti cariche pubbliche, compresa quella di gran visir presso la corte del principe Shams ad-Dawlah nella città di Hamadhan, dove risiede fino al termine della sua vita, nel 1037.
Avicenna è autore di uno stupefacente numero di opere letterarie, mediche e scientifiche, tra le quali le più celebri sono Al-Qanun fi t-tibb (Il canone di medicina), che contiene circa un milione di parole, e il Kitab al-Shifa’ (Il libro delle cure). Tra i suoi studi in ambito fisico si ricordano quelli sul calore, l’energia, la gravità, il moto, compresa una teoria sulla luce secondo la quale questa si propagherebbe a una velocità definita. In matematica inventa uno strumento per le misurazioni decimali simile al verniero ed è autore di originali osservazioni astronomiche oltre che cultore di teoria musicale. Per quanto riguarda le arti chimiche, nella sezione del Canone dedicata alla farmacologia elenca oltre 760 droghe tra le quali anche alcune sostanze stupefacenti come la mandragola, l’oppio, la cicuta e la canapa indiana. Volgendosi all’alchimia, Avicenna si esprime in maniera esplicita contro la trasmutazione di specie e le sue conclusioni saranno oggetto di dibattito degli alchimisti europei fino al Rinascimento.
Il pensiero di Avicenna sulla trasmutazione è espresso in un’opera geologico-mineralogica contenuta nel Al Afal wa al-infialat (Sulle azioni e le passioni) che è a sua volta parte della summa filosofica aristotelica Kitab al-Shifa’. La traduzione latina di quest’opera, nota col titolo De congelatione et conglutinatione lapidum e considerata inizialmente opera originale di Aristotele, è inserita in appendice ai tre libri dei Meteorologica aristotelici (translatio vetus) col titolo De mineralibus.
Il De congelatione si compone di due sezioni: la prima è uno studio sulla conformazione geologica della crosta terrestre, mentre la seconda, che è quella che interessa l’alchimia, studia la formazione delle rocce e dei minerali all’interno delle viscere terrestri. L’argomento principale dell’opera tratta della formazione e costituzione dei metalli, per i quali Avicenna elabora una teoria che sintetizza la dottrina aristotelica sulla generazione dei metalli appena accennata in conclusione del terzo libro dei Meteorologica con quella dell’alchimista arabo del VIII secolo Jabir ibn Hayyan.
Per Avicenna le pietre e i metalli sono il risultato della combinazione chimica di due esalazioni secche e umide che risalgono dalle viscere della terra verso la superficie ma, a differenza di Aristotele, queste si identificano con il mercurio e lo zolfo della tradizione geberiana. Si tratta quindi di due sostanze molto simili a quelle naturali ma che non si identificano pienamente con esse, ed è in base al grado di purezza e alla concentrazione con la quale partecipano alla generazione metallica che si determina la produzione di tutte le varietà metalliche presenti in natura. Ad esempio: se il mercurio puro si combina con uno zolfo bianco incombustibile avremo come risultato finale l’argento, se invece lo zolfo ha un grado di purezza maggiore e possiede virtù tintoria, ardente, sottile e non combustiva, il risultato finale sarà l’oro.
Nonostante questo schema teorico riproduca essenzialmente la teoria dei metalli della tradizione jabiriana, Avicenna prende le distanze dell’alchimista arabo negando la possibilità che questo processo sia riproducibile artificialmente. Per Avicenna gli alchimisti possono al massimo mutare lo stato apparente delle sostanze senza tuttavia alterarne l’essenza: “Io non escludo – dice Avicenna – che possa esser raggiunto un tal grado di perfezione nell’imitare i metalli da trarre in inganno anche il più scaltro esperto, ma la possibilità della trasmutazione non mi è stata mai chiara alla mente. Anzi io la ritengo impossibile perché non c’è modo di distinguere una combinazione metallica dall’altra”. Le specie metalliche non possono essere distinte sulla base delle loro proprietà sensibili poiché queste sono accidentali e contingenti e non forniscono indicazioni certe sulla natura del metallo. Queste conclusioni suscitano le reazioni degli alchimisti al punto da costringere Avicenna a tornare nuovamente sul problema della trasmutazione nella Risalat fi ithbat ahkam al-nujum (Epistola ad Hasen, a noi nota anche come Lettera sull’elixir).
Su richiesta dello sceicco Abu l-Hasan al Sahli, Avicenna offre in quest’opera un’analisi dettagliata dei principi della trasmutazione cercando di arrivare a una valutazione equilibrata, senza lasciarsi condizionare dai giudizi sprezzanti di coloro che non ammettono un atteggiamento critico nei confronti dell’alchimia. Nel primo capitolo, dopo aver passato in rassegna e analizzato i principi generali su cui si basano le operazioni tecniche del processo di trasmutazione, Avicenna finisce per accusare sia gli alchimisti che i loro detrattori di mancanza di rigore nelle loro argomentazioni, concludendo che sarebbe stato impossibile giungere a un giudizio incontrovertibile sull’alchimia senza un ripensamento generale di tutta la disciplina. Per questo motivo Avicenna si impegna in un periodo di sperimentazione necessario per cercare di capire il grado di verità delle teorie alchemiche e se fosse possibile o meno realizzare un farmaco, un elisir, capace di tingere gli altri metalli in maniera persistente e resistente anche all’azione dissociativa del fuoco. Nei capitoli successivi Avicenna entra nel merito della chimica dell’elisir offrendo un’analisi dettagliata di tutte le sostanze e delle tecniche da lui sperimentate nel tentativo di portare a compimento il processo di trasmutazione. Le conclusioni a cui giunge sono sostanzialmente analoghe a quelle del Kitab al-Shifa’, anche se viene posta una maggior enfasi sulle abilità degli artigiani che con le loro opere possono trarre in inganno anche i più esperti.
La cura e la meticolosità con la quale il medico e filosofo persiano analizza e descrive le sostanze e i processi per la realizzazione dell’elisir hanno indotto gli alchimisti e i filosofi latini a vedere nella Lettera a Hasen un vero trattato sulla chimica dell’elisir. L’atteggiamento critico dell’autore nei confronti della trasmutazione viene interpretato come il frutto di un dibattito di carattere epistemologico sulla verità dell’alchimia. Nei centri di cultura occidentali si tenta infatti di assimilare questa disciplina nelle gerarchie tradizionali del sapere nonostante una spiccata avversione a contemplare la possibilità di una disciplina sia teorica che pratica.
Il rapporto di Avicenna con l’alchimia si complica ulteriormente per la presenza di due trattati apocrifi, il Liber Aboali Abincine de anima in arte alchimiae e la Declaratio lapis physici Avicennae filio sui Aboali, che gli alchimisti e gli studiosi occidentali interpretano come opere autentiche. L’origine apocrifa del De anima in arte alchimia emerge già dal capitolo introduttivo dove è illustrata una dottrina alchemica basata sulla possibilità di un intervento diretto sulla composizione elementare dei corpi naturali riconducibile al De elementis di un certo Mario Salernitano, appartenente alla tradizione medica salernitana.
Nel primo dei dieci libri che compongono il De anima in arte alchimiae, troviamo una difesa dell’alchimia e una presentazione generale della pietra filosofale la quale viene descritta come una sostanza di natura complessa la cui essenza è allo stesso tempo animale, vegetale e minerale. Nei tre libri successivi sono passate in rassegna le problematiche relative alle pratiche alchemiche, nel quinto e nel sesto si analizzano in maniera dettagliata le sostanze da impiegare nella grande opera. Nel settimo, nell’ottavo e nel nono libro sono descritte le operazioni del processo alchemico, comprese due sezioni dove la trasmutazione di specie è illustrata secondo l’allegoria delle nozze del sole e della luna. Infine, nel decimo libro, si affronta il problema dell’effettiva codificazione e quantificazione dei processi alchemici al quale è associato un riassunto sintetico degli argomenti affrontati nel trattato.
Nel De anima la realtà materiale viene concepita secondo la ripartizione basso, intermedio, alto, che corrisponde alle fasi minerale, vegetale, animale, secondo uno schema cioè, che può essere ricondotto alla cosmogonia presentata nella Clavis Sapientiae di Artefio. Il ricorso allo schema della triade è un classico della tradizione alchemico-esoterica basata sulla dottrina della congiuntio oppositorum. Secondo tale teoria i due principi contrapposti si congiungono in uno stato intermedio nel quale si concretizzano i processi dell’opera alchemica e non esiste soluzione di continuità tra materia inanimata e materia vivente. In questa concezione alchemica della realtà è centrale il tema del ruolo dell’uomo nella ricerca dell’elisir che si espleta nella triade corpus spiritus anima. L’idea di elisir presentata nel De anima pseudo-avicenniano, cioè quella di una sostanza capace di intervenire nella struttura costitutiva dei corpi naturali modificandone il grado di equilibrio caratteristico in uno più stabile e quindi con un livello di perfezione più alto, viene trasmessa all’alchimia occidentale principalmente attraverso l’opera di Ruggero Bacone.
I tardi alchimisti arabi
L’opera alchemica più importante prodotta nella Spagna islamica nel XI secolo è il Kitab Rutbat al-Hakim (“Il cammino propedeutico del saggio”).
Si tratta di un libro che ha goduto di un notevole successo tra gli alchimisti latini e che viene attribuito a Màslama Muhammad b. Ibrahim b. ‘Abd al-Daim, noto con l’appellativo di al-Majriti (ossia di Madrid), autore anche del Ghayat al-hakim (“Il fine del saggio”) tradotto in latino col titolo di Picatrix, una delle opere di magia più importanti e influenti del periodo tardo medievale e rinascimentale. Secondo al-Majriti l’alchimia costituisce la chiave di accesso per la comprensione e il controllo della natura.
Trattandosi di un sapere che interviene sui processi di generazione del mondo sublunare, l’alchimia è vista come una premessa necessaria nel cammino del sapiente, a cui segue l’iniziazione alla magia, la quale, invece, persegue il fine più alto di ricongiungere le cose terrestri con quelle celesti attraverso la manipolazione delle anime astrali. Nel Rutbat al-Majriti presenta un accurato esame delle pratiche di laboratorio, centrali nell’esercizio dell’alchimia. Il calore rappresenta l’agente operativo principale dal quale dipendono tutte le trasformazioni nel mondo sublunare: così come il calore del sole provoca la diversità dei climi, il susseguirsi delle stagioni e il processo di generazione e maturazione di tutti gli esseri, anche il calore del fuoco alchemico può indurre nuovi processi generativi. Attraverso la manipolazione del fuoco l’alchimista può quindi riprodurre un tipo di trasformazione simile a quella dell’atto della creazione esplicitata nella catena dell’essere (nature-elementi-minerali-piante-animali-uomo). L’alchimista può percorrere la catena a ritroso per dare luogo a un nuovo inizio. Per al-Majriti il processo di generazione artificiale deve prendere le mosse dalla manipolazione dell’oro, la sostanza al massimo grado di perfezione presente in natura, dalla quale viene estratto l’elisir capace di convertire le nature inferiori in sostanze con un grado di perfezione maggiore.
L’alchimia dell’elisir di al-Majriti può essere ricondotta alla tradizione che fa capo al Liber secretis naturae attribuito all’alchimista arabo Balinus e si diffonde nell’Europa latina ponendosi come alternativa alla tradizione alchemica di matrice metallurgica sviluppata nelle opere di Jabir, al-Razi e Avicenna. Nell’Europa del XIII secolo questa seconda tradizione trova la sua massima espressione nel De mineralibus di Alberto Magno e nella Summa perfectionis del Geber latino, un autore, quest’ultimo, dietro il quale si cela il filosofo francescano Paolo di Taranto.
Nel XII secolo l’alchimia islamica perde il vigore che l’aveva caratterizzata nei secoli precedenti e tra i non molti alchimisti degni di nota si segnalano al-Tugra’i e ibn Arfa‘ Ra’s. Il primo, considerato dai suoi contemporanei il più grande alchimista dai tempi di Jabir, nasce nella città persiana di Isfahan e, nell’arco della sua vita, ricopre importanti cariche pubbliche al servizio dell’impero selgiuchide durante il regno di Malik Shah. Accusato di essere un apostata, è giustiziato. Autore prolifico anche nell’ambito dell’astrologia e della poesia, nella sua opera alchemica principale, dal titolo Kitab al-Masabih wa-l-mafatih (Le lampade e le chiavi), al-Tugra’i espone i principi della grande arte in forma poetica affermando di aver ereditato il suo sapere da Ermete. Nel Kitab Haqaiq al-istishhad, si dedica invece alla confutazione della posizione antitrasmutazionista di Avicenna.
Per quanto riguarda Abu al-Hasan ‘Ali b. Musa al-Jayyani al-Andalusi, noto come Ibn Arfa ‘Ra’s, sappiamo che vive a lungo nella città di Fas, nella quale muore nel 1197, e che deve la sua notorietà a un trattato sull’alchimia intitolato Shudhur al-dhahab (“Particelle d’oro”). Il libro, composto di 1460 versi, presenta una metrica perfetta scandita dalle 28 lettere dell’alfabeto arabo. L’autore privilegia un approccio all’alchimia di tipo allegorico, seguendo la tradizione mistica di ibn Umayl, Abu al-Isba, al-Tugra’i e dello pseudo Khalid (660-704 ca.).