Avorio e oro. L'arte dell'epoca internazionale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Poco dopo la metà del II millennio a.C., il clima cosmopolita che contraddistingue le grandi corti della regione levanino-mediterranea è alla base di un intenso scambio di beni e di maestranze. Le loro creazioni e le loro tecniche si diffondono capillarmente in tutta l’area creando una koinè artistica internazionale.
Fra il XIV e il XIII secolo a.C., la costa levantina è al centro di una fitta rete di relazioni diplomatiche e scambi commerciali che collegano l’area vicino orientale, quella mediterranea e quella egiziana. Le grandi corti, i nodi della rete, ostentano il proprio potere e la propria ricchezza con reciproci scambi di doni. In questo modo, le tradizioni artistiche dei singoli centri s’incontrano e s’influenzano a vicenda, creando una koinè culturale di stili e temi che porta a una produzione ibrida di alto livello, visibile soprattutto negli oggetti abilmente realizzati coi materiali più preziosi, avorio ed oro in particolare. Sono oggetti piccoli, costosi e ornamentali, destinati prevalentemente alle élites cittadine, ma che influenzano anche le produzioni artigianali. Riflettono bene questa tendenza molti dei reperti provenienti dalla città costiera di Ugarit, che in questo periodo diventa il principale porto della costa siriana. Qui giungono e vengono smistate merci provenienti da Cipro e dalla Grecia, dall’Egitto e dalla Mesopotamia: ceramica, ori, zanne d’avorio, vasi in alabastro e scarabei. Assieme alle merci si scambiano anche le maestranze, che viaggiando da una corte all’altra, diffondono velocemente le loro capacità tecniche e i loro motivi artistici, assimilati e reinterpretati poi dagli artigiani locali.
L’avorio è un materiale bianco e duro, che si ricava dai denti e dalle zanne di alcuni animali, in particolare elefanti e ippopotami, e che è composto da strati di dentina, risultato della progressiva calcificazione dei denti. L’avorio d’ippopotamo, il più bianco e duro, si ottiene sia dai canini sia dagli incisivi dell’animale, che viveva tanto in Egitto quanto nelle zone paludose del Levante. L’avorio di elefante, invece, proviene solo dagli incisivi superiori dell’animale, le zanne, attraversate da una cavità rastremante che percorre il dente fino a metà della sua lunghezza. La parte più interna è la più recente e morbida, mentre quella esterna è più friabile e spesso rovinata dall’uso.
Oggi esistono due razze di elefanti, quella asiatica e quella africana, ma è possibile che un tempo ne esistesse anche una sottospecie siriana. I ritrovamenti osteologici sono molto scarsi per poterlo provare, in compenso i testi abbondano di testimonianze sulla loro esistenza: il faraone Thutmosi III, ad esempio, si vanta di averne cacciati ben 120 esemplari nella Siria centrale al ritorno delle sue guerre di conquista e vassalli siriani sono raffigurati in vari dipinti mentre portano zanne in dono al faraone.
Non si conoscono i metodi di lavorazione dell’avorio nell’Antichità e le uniche testimonianze che abbiamo al riguardo provengono da alcuni dipinti egizi, ma è probabile che non differissero molto dai metodi ancora utilizzati nel subcontinente indiano. La zanna deve essere ripulita e poi divisa in varie parti, sfruttando al massimo il prezioso materiale: la parte cava serve per produrre pissidi o statuette mentre il corpo centrale è suddiviso in listelli orizzontali dai quali si ricavano intarsi o placchette incise. Gli attrezzi dell’ebanista sono simili a quelli del falegname ed è probabile che i due artisti lavorassero spesso insieme per produrre lussuosi mobili decorati con intarsi o placchette intagliate d’avorio.
Ad Ugarit sono stati trovati due pannelli d’avorio che un tempo decoravano un letto, composti ciascuno da otto placchette più una lunga fascia sovrastante, sulla quale è incisa una processione di animali. Sulle placchette di un pannello erano rappresentate a bassorilievo scene di corte (un giovane orante, la caccia, la vittoria sul nemico), su quelle dell’altro scene connesse al culto (una dea alata con copricapo cornuto che allatta, un dio arciere, un offerente). Nella raffigurazione di questi personaggi dalle vesti ricche e raffinate si trovano elementi di tradizioni diverse: le palmette laterali, l’uccisione del nemico, la parrucca hatorica della dea sono temi tipicamente egiziani mentre il dio cacciatore e il copricapo della dea sono di derivazione ittita. Il tutto si mescola con elegante naturalismo per formare un insieme coerente e originale. Questo eclettismo si riscontra anche in un coperchio a rilievo, nel quale uno schema tipicamente vicino orientale, quello della dea seduta in trono che nutre due arieti rampanti, è arricchito da elementi di origine micenea, come la gonna, l’acconciatura e il prospero seno scoperto della dea.
L’abilità degli intagliatori d’avorio è dimostrata dalla varietà di tecniche attestate a Ugarit. Un oggetto ricavato dalla parte cava della zanna, forse un olifante, mostra una figura femminile nuda in posizione frontale realizzata ad alto rilievo, con due sfingi di tipo ittita ai lati. Su un tondo, che doveva decorare una tavola di tre metri di diametro, sono intagliati a giorno e parzialmente incisi grifoni e piante sacre, alcuni fra i temi più ricorrenti e più “internazionali” dell’epoca. Una testa grande la metà del naturale, forse raffigurante il dio Baal, è realizzata a tutto tondo ed è impreziosita da incrostazioni di altri materiali: lapislazzuli per gli occhi, rame e argento per i ricci e foglie d’oro come copertura di alcune parti dell’opera.
Esempi di quest’arte internazionale si trovano anche in centri non costieri. A Qatna, nell’entroterra della Siria centrale, è stata trovata una testina che doveva far parte di un oggetto composito. La visione frontale, la forma triangolare del volto e la profonda cavità degli occhi a mandorla incastonati sono caratteristiche delle maschere hatoriche egizie, ma la mancanza delle tipiche orecchie bovine indicano una reinterpretazione del tema.
A Megiddo, in Palestina, è stato trovato un accumulo di avori, forse un magazzino nel quale erano raccolti i prestigiosi doni inviati da altre corti. Quattro pannelli a rilievo, probabilmente i lati di un tavolo, raffigurano scene di guerra e di banchetto, tipiche della tradizione settentrionale; un pettine è decorato con il tema egeo del cane che aggredisce un capride; un contenitore, sui cui lati si trovano quattro animali scolpiti a tutto tondo, leoni e sfingi, potrebbe provenire dalla Siria interna come anche una placchetta intagliata a giorno raffigurante la divinità egiziana Bes.
Quasi tutti i reperti fin qui descritti, oggetti di prestigio destinati alle classi più elevate della società, sono realizzati in avorio di elefante, il più pregiato e costoso. Molto più comune e diffuso è l’uso dell’avorio d’ippopotamo, utilizzato per realizzare oggetti di uso quotidiano, come pettini o contenitori per cosmetici. Fra questi, il tipo più comune è quello egittizzante della scatoletta sagomata ad anatra rivolta all’indietro, formata da più pezzi assemblati assieme. Numerosi esemplari di questi contenitori provengono da centri levantini, come Alalakh, ma se ne conoscono anche in Mesopotamia, a Tell Brak, e in area micenea, a Tirinto.
L’oro, e in particolare l’argento, sono alla base dell’economia del Vicino Oriente; sono impiegati soprattutto come merce di scambio, ma anche per modellare coppe e vasi o per produrre gioielli, utilizzati come decorazioni personali o per adornare le statue divine.
Fra i gioielli in oro dominano i pendenti a lamina martellata e incisa, raffiguranti Astarte (o Ishtar), la dea cananea della fertilità, onnipresenti in tutto il Levante e imitati anche in Egitto. In molti esemplari la dea appare nuda, vista frontalmente e circondata da stelle, fra le quali c’è Venere, il suo pianeta. I piedi poggiano sovente su un leone, il suo animale sacro, e le mani reggono variamente due rami fioriti, due capridi o due serpenti. La frontalità del viso e la folta chioma, che ricordano le maschere hatoriche, permangono anche negli esemplari nei quali la figura della dea appare estremamente astratta, ridotta alla sola testa e agli organi della fecondità, i due capezzoli, l’ombelico e il triangolo pubico.
Sono molto comuni i gioielli compositi, realizzati utilizzando oro o argento e pietre preziose, come due orecchini provenienti da Ugarit composti da mezze lune, simbolo del dio Sin, realizzate in oro con la tecnica della granulazione, e da due pendenti in turchese.
Nell’ipogeo reale di Qatna, oltre ai numerosi vaghi di collana in oro o pietre preziose, sono state trovate molte lamine d’oro sbalzate, che ripropongono la stessa eterogeneità di temi vista per gli oggetti in avorio. Ci sono elementi circolari con teorie di grifoni alati e ankh o di rosette e fiori di loto, ed elementi di forma ellittica, simili a quelli trovati nella tomba di Tutankhamon, con riprodotte scene di caccia, capridi rampanti ai lati di un albero e perfino divinità egiziane come Horus. Su tutti questi elementi sono ben visibili, sui bordi, i fori che servivano a cucirli sui supporti.
Lo spiccato gusto decorativo che contraddistingue queste opere è presente anche in una coppa incisa a sbalzato proveniente dal tempio di Baal a Ugarit. Al centro sono raffigurati dei capridi, nel registro successivo si assiste all’inseguimento di due tori da parte di due leoni sotto una cornice di melograni, mentre in quello esterno compaiono gli elementi più disparati: un leone che attacca un capride, due personaggi armati che cacciano un leone, altre due persone che lottano con un toro, un grifone seduto, una sfinge e un toro alati e altro ancora. I diversi elementi, la decorazione a spirali concatenate di tipo egeo che separa i registri, la composizione densa alla maniera dei sigilli mitannici, gli animali immaginari egizi o ittiti sono tutti fusi armoniosamente. La componente narrativa, assente nella coppa, è presente in un piatto d’oro trovato nello stesso tempio, sul quale è raffigurata una scena di caccia su carro a tori selvaggi, molto simile a quella che appare incisa su una tavola da gioco in avorio proveniente da Enkomi.
La tendenza al naturalismo, che accomuna queste opere, è portata all’estremo in uno dei capolavori dell’oreficeria siriana, un’applique in oro che proviene da Qatna e raffigura due teste d’anatra, con una maschera di Hator al centro. In essa, l’artista è riuscito a riprodurre con fedeltà e naturalezza, su un pezzo di dimensioni molto ridotte, la morbidezza del piumaggio e la frastagliatura del becco dei due animali.
L’uso di temi provenienti da altre culture e la loro reinvenzione in un contesto locale giungono all’estremo con la decorazione incisa sul frammento di un vaso in alabastro trovato ad Ugarit. A prima vista il pezzo sembrerebbe un normale reperto di provenienza egiziana: sotto un portico nel quale è inserita una scritta in geroglifico, una donna in vesti egizie offre una libagione ad un uomo seduto, ma sul portico retto da pilastri lotiformi, invece degli urei sono raffigurati dei capri barbuti, e di fianco alla donna si trova un python dalla forma tipicamente egea. La scritta in geroglifico recita: “il grande re della terra di Ugarit, Niqmepa”, eliminando ogni possibile dubbio sull’origine locale del pezzo, che potrebbe essere stato realizzato in occasione del matrimonio del re con una principessa egiziana.