Il conflitto nel Nagorno Karabakh (Dag˘liq Qarabag˘) affonda le proprie radici nella ‘ingegneria delle nazionalità’ di matrice sovietica che, nella più classica prospettiva del divide et impera, incluse la regione, abitata in maggioranza da armeni, nella Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Le tensioni inter-etniche, mai sopite, sono scoppiate a partire dal 1988, tramutandosi in conflitto interstatale tra Armenia ed Azerbaigian nel 1991, a seguito della dissoluzione sovietica.
L’accordo per il cessate il fuoco, mediato da Mosca nel maggio 1994, ha sancito la vittoria militare ottenuta dalle forze separatiste armene con il sostegno russo, che controllano oggi circa un quarto del territorio azero. Da allora, della mediazione per la risoluzione del conflitto è incaricata l’Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa (Osce), attraverso il cosiddetto ‘Gruppo di Minsk’, presieduto da Francia, Stati Uniti e Federazione Russa.
Dopo un decennio di stallo negoziale, nel 2004 il Gruppo ha lanciato il ‘Processo di Praga’, finalizzato all’organizzazione di periodici incontri ministeriali azero-armeni per la revisione dei principi del negoziato e la preparazione dei successivi round negoziali. Principale risultato del processo è stata la predisposizione dei ‘Principi di Madrid’ per la risoluzione del conflitto: presentati nel 2007 e aggiornati nel 2009, essi prevedono un approccio graduale, determinato dal ritiro delle forze armene dai distretti esterni alla regione del Nagorno Karabakh, dal dispiegamento di una forza di peacekeeping, dal rientro dei rifugiati azeri e, infine, dalla decisione sullo status della regione. Su quest’ultimo punto permane tuttavia un cruciale disaccordo tra le parti circa la preminenza da attribuire al rispetto del principio dell’autodeterminazione della popolazione della regione o, piuttosto, a quello dell’inviolabilità delle frontiere del paese – già sancito da una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del marzo 2008.