Abstract
La nozione di azienda, come pure di un ramo particolare della stessa, si incentra sostanzialmente sulla disciplina del relativo trasferimento, distinto dal trasferimento di singoli beni aziendali, coinvolgendo il primo, e soltanto questo, non solo il cedente e il cessionario, ma anche l'intera platea di quanti (lavoratori, terzi contraenti, debitori, creditori) intrattengono rapporti con l'azienda; questa presuppone di regola l'imprenditore, che della stessa si avvale per lo svolgimento della propria attività, ma non necessariamente.
La disciplina del codice civile si interfaccia con le regole sul trasferimento, anche soltanto in gestione, dei complessi produttivi in crisi, dettate in sede di procedure concorsuali, come pure con le norme codicistiche sul conferimento e sullo scorporo d'azienda, e sulla scissione, e la disciplina del trasferimento del portafoglio di imprese di assicurazione.
La continuazione dell'attività economica, anche in misura parziale, del complesso dei beni organizzati da parte di un nuovo soggetto, sia quale proprietario, usufruttuario o affittuario, è vista con favore dal legislatore, che ne impone, peraltro, cautele nella circolazione al fine di prevenire possibili operazioni di riciclaggio.
L'art. 2555 c.c. definisce l'azienda come «il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa». La nozione di beni idonei a qualificare l'azienda va ricercata nella teoria generale dei beni, ancorché siano ormai considerati elementi costitutivi dell'azienda anche i servizi, i rapporti di lavoro con i dipendenti, i crediti verso la clientela, i debiti verso i fornitori e lo stesso avviamento (in questo senso la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria, per tutti, Casanova, M., Impresa e azienda, in Tratt. Vassalli, 10, t. 1, 1, Torino, 1974, 323; in senso contrario, in un'ottica più restrittiva, Colombo, G.E., L'azienda, in Tratt. dir. comm. Galgano, III, Padova, 1979, 19, 26). È del tutto irrilevante il titolo giuridico in forza del quale l'imprenditore dispone dei beni: l'azienda è formata non dai beni dell'imprenditore, ma dai beni organizzati dall'imprenditore, e costituisce il risvolto ‘oggettivo’ del requisito dell'organizzazione che concorre alla qualifica dell'imprenditore (art. 2082 c.c.), il quale dell'azienda appunto si avvale per lo svolgimento della propria attività.
L'art. 2555 c.c. espone dunque una valutazione dell'azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l'attività d'impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di «cosa», oltre che di strumento di attività), di bene immateriale, costituendo la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti, in cui l'azienda, quale complesso unitario di singoli elementi (locali, macchinari, attrezzature, materie prime, merci, ecc.), è valutata tenendo conto del maggior valore che acquisiscono detti beni e delle maggiori utilità dagli stessi traibili per effetto dell'organizzazione ad impresa, maggior valore denominato avviamento (Sasso, C., Avviamento d'impresa, in Dig. comm., IV ed., II, Torino, 1997, 57). Distinguibile, quest'ultimo, in ‘oggettivo’, che prescinde cioè dalle caratteristiche personali dell'imprenditore, ed in ‘soggettivo’, che da queste caratteristiche discende: in ogni caso l'avviamento ha quale componente caratterizzante la clientela dell'azienda, che ne consente ricavi idonei a determinare il conseguimento del profitto (utile), e quindi possibilità di accesso al credito, sia bancario che da parte dei fornitori e del mercato in genere.
L'azienda, invero, non perde la sua identità nelle diverse ipotesi in cui vi è dissociazione, seppure provvisoria, tra proprietà dell'azienda ed esercizio dell'impresa, come avviene tipicamente nella successione mortis causa a favore di soggetto non imprenditore, e anche nell'affitto e nell'usufrutto di azienda. L'azienda, in questi casi, rimane nella disponibilità del proprietario come res, senza che da parte sua vi sia esercizio di attività d'impresa; ciò conferma l'oggettività dell'azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti, di guisa che «c'è azienda anche quando non ricorrono gli estremi della fattispecie impresa» (Spada, P., Lezione sull'azienda, in L'impresa, Milano, 1985, 52).
Di qui l'affermazione che l'azienda è equiparabile ad una universitas rerum regolata dall'art. 816 c.c. (Cass., 15.1.2003, n. 502), su cui il titolare ha un vero e proprio diritto di proprietà unitario – destinato a coesistere con i diritti, anche soltanto obbligatori (in dipendenza, per esempio, di un contratto di leasing: v. Cass., 30.3.2010, n. 7626), purché suscettibili di tutela giuridica (Cass., 11.8.1990, n. 8219) – che vanta sui singoli beni e ne legittimano l'utilizzo nel processo produttivo (Bonfante, G.-Cottino, G., L'imprenditore, in Tratt. Cottino, I, Padova, 2001, 620).
Dalla equiparabilità dell'azienda all'universitas rerum discende la possibilità di acquisizione per usucapione in virtù del possesso continuato per vent'anni (art. 1160, co. 1, c.c.), come di recente riconosciuto dalle Sezioni Unite della Cassazione (5.3.2014, n. 5087; ma, in senso contrario, Cicero, C., Ragionamenti poco ortodossi sull'usucapione dell'azienda, a margine di un arresto giurisprudenziale, in Studi in onore di Giovanni Tatarano, in corso di pubblicazione). Da ciò pure il diritto del titolare di avvalersi dell'azione di manutenzione per tutelare il possesso dell'insieme dei beni mobili aziendali (art. 1170 c.c.). Che l'azienda debba essere considerata unitariamente sia sotto il profilo della proprietà e sia sotto quello del possesso, trova riscontro nell'art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende – o di altre universalità di beni – quando ne sia controversa la proprietà o il possesso.
A differenza dell'azienda, che riceve dal codice civile una completa definizione, la nozione di ramo d'azienda (Spolidoro, M.S., Conferimento di ramo d'azienda (considerazioni su fattispecie e disciplina applicabile), in Giur. comm., 1992, I, 692) va estrapolata dal sistema normativo piuttosto che da una specifica disposizione.
L'indagine in proposito è di rilievo non solo sotto l'aspetto scientifico, ma soprattutto per i profili applicativi, concernendo i trasferimenti, in misura largamente prevalente, rami d'azienda ovvero settori specifici dell'attività, piuttosto che aziende nella loro integrità.
In prima approssimazione può affermarsi che il ramo d'azienda è un complesso produttivo autosufficiente in relazione ad una determinata linea di produzione, divisibile dal resto dell'azienda e suscettibile di vita autonoma, idoneo a consentire, anche dopo il trasferimento, il perseguimento di uno specifico obiettivo. Peraltro deve escludersi la necessità che il compendio aziendale soddisfi, all'atto del trasferimento, il requisito della produttività, essendo sufficiente che quest'ultimo costituisca conseguenza potenziale dell'organizzazione (Cass., 19.11.2007, n. 23857).
Gli spunti che offre l'ordinamento per la ricostruzione della categoria sono costituiti, fra l'altro, dalle norme sulla preposizione institoria (art. 2203, co. 2, c.c.), dall'ormai superata legislazione sulla cessione del marchio, dalla disciplina in materia di ristrutturazione degli enti creditizi pubblici (l. 30.7.1990, n. 218, cd. legge Amato, e dal relativo decreto di attuazione, d.lgs. 20.11.1990, n. 356); dalla legge 10.10.1990, n. 287, sulla tutela della concorrenza e del mercato che, all'art. 51 equipara sostanzialmente il ramo d'azienda alla parte d'impresa (Masi, P., Rami d'impresa e rami d'azienda, in Studi per Franco di Sabato, t. II, Napoli, 2009, 159); dalla elaborazione della giurisprudenza comunitaria e, in particolare, dalla direttiva 2001/23/Ce, da cui origina il novellato art. 2112 c.c., che, al co. 5, definisce il ramo d'azienda «come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata». Precisa questa norma che l'identificazione del ramo d'azienda viene effettuato «dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento». L'idoneità di autonomo trasferimento, che prescinde dalla completezza materiale e dalla autosufficienza della struttura oggetto del trasferimento, costituisce il connotato cardine del ramo d'azienda (Cass., 5.3.2008, n. 5932).
Un particolare riferimento a «rami d'azienda» è ora contenuto nella più recente disciplina sulle procedure concorsuali in relazione, fra l'altro, all'esercizio provvisorio dell'impresa, che può essere limitato a specifici rami d'azienda, come pure all'affitto e alla cessione (art. 104 ss. l.fall.). Analoghe previsioni sono presenti nei vari tipi di amministrazione straordinaria, che mirano a salvaguardare, attraverso la riorganizzazione del complesso produttivo, la sopravvivenza dell'azienda, e soprattutto dei rami economicamente validi della stessa, alla dichiarazione di insolvenza.
Ancora può aggiungersi in tema di disciplina di cessione totale o parziale di ramo d'azienda, il trasferimento del portafoglio di imprese di assicurazione (artt. 198, 199, 200, d.lgs. 7.9.2005, n. 209; Scalfi, G., Il trasferimento del portafoglio di un'impresa di assicurazione, in Contr. e impr., 1991, 1013).
È dunque nella circolazione che emerge la rilevanza del ramo d'azienda: «fintantoché esso è ricompreso nell'ambito dell'azienda lo si può apprezzare solo a livello di identificazione concettuale» (Masi, P., Articolazioni dell'iniziativa economica e unità dell'interpretazione giuridica, Napoli, 1998, 156).
Ed in relazione alla circolazione può evidenziarsi:
i) l'operazione viene preferibilmente strutturata dall'acquirente come acquisto di specifiche attività aziendali, al netto delle passività: il più delle volte l'impresa ceduta continua regolarmente ad operare senza il ramo d'azienda ceduto; talvolta si riduce ad una scatola vuota;
ii) il rilievo che in passato ha avuto, in seguito alla cosiddetta liberalizzazione dell'etere e la connessa abolizione del monopolio statale nel settore radiotelevisivo via etere in ambito locale, la cessione di azienda o di un ramo particolare quale strumento idoneo al trasferimento dei canali televisivi, cioè di onde elettromagnetiche caratterizzate da una frequenza determinata (Racugno, G., Trasferimento di canale televisivo mediante cessione d'azienda o di un ramo particolare, in Giur. comm., 1989, I, 933), materia questa attualmente disciplinata dal d.lgs. 31.7.2005, n. 177, che prevede testualmente lo «scorporo mediante scissione delle emittenti oggetto di concessione» (art. 27);
iii) è configurabile come trasferimento aziendale la cessione che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità sia assicurata dal fatto di essere dotati di particolari competenze, che realizzando una successione legale non necessita del concorso del contraente ceduto: ma tale non può essere qualificato il contratto con cui viene attuata la c.d. "esternalizzazione" dei servizi, quale il trasferimento di un gruppo di dipendenti da un'azienda ad un'altra per lo svolgimento in "outsourcing" di alcuni servizi e attività in mancanza di qualsiasi funzione unitaria (De Luca Tamajo, R., Le esternalizzazioni tra cessioni di ramo d'azienda e rapporti di fornitura, in De Luca Tamajo, a cura di, I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, Napoli, 2002, 14;Cass., 25.9.2013, n. 21917; Cass., 16.10.2006, n. 22125, che hanno quindi ritenuto applicabili ai rapporto di lavoro ceduti la norma sulla cessione dei contratti);
iv) il d.lgs. 18 dicembre 1998, n. 472, che sancisce, all'art. 14, la trasmissibilità, salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell'azienda o del ramo d'azienda, delle sanzioni amministrative e tributarie al cessionario (Cass., 14.3.2014, n. 5979);
v) la possibilità per il cessionario di ‘avvalersi’, ai fini della partecipazione alle gare d'appalto, dei requisiti posseduti dall'impresa cedente il ramo d'azienda (Tar Lazio, 26.2.2014, n. 2217);
vi) la denominazione sociale, investendo la sua funzione distintiva la stessa soggettività della società di capitali, non può essere oggetto di autonoma circolazione, neppure insieme all'azienda, sia perché la cessione di quest'ultima non estingue la persona giuridica, la cui continuità ed identità è preservata proprio dal mantenimento della denominazione, sia perché l'art. 2567 c.c., in tema di denominazione sociale, non richiama l'art. 2565 c.c., dettato in tema di impresa individuale, secondo cui la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda (Cass., 13.3.2014, n. 5931);
vii) in molti casi il legislatore ha previsto accorpamenti, scorpori, scissioni, trasferimenti di rami d'azienda, variamente vincolando le parti al risultato: di volta in volta tali trasferimenti risultano autorizzati, promossi, obbligatori e coattivi e, per lo più, sono incentivati e sostenuti con strumenti fiscali (Loffredo, E., Profili commercialistici della circolazione dell'azienda, in Studi in tema di forma societaria servizi pubblici locali circolazione delle ricchezza imprenditoriale, Torino, 2007, 241, ivi 261).
I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà e il godimento dell'azienda, come pure di rami d'azienda – dispone l'art. 2556, co. 1, c.c. –, devono essere provati per iscritto (ad probationem): questa regola trova applicazione per le imprese soggette a registrazione di cui all'art. 2195 c.c., con esclusione quindi per le piccole imprese e per le imprese agricole individuali o costituite in forma di società semplice. Ne discende, salva l'ipotesi di cui all'art. 2724, co. 3, c.c., che la prova del contratto non può essere data per testimoni (art. 2725, co. 2, c.c.), né per presunzioni semplici. «I singoli beni circolano senza vincoli di forma; in quanto organizzati per l'esercizio dell'impresa sono assoggettati ad un vincolo di forma» (Spada, P., Lezione sull'azienda, cit., 48).
Rimane salva la necessità dell'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento di singoli beni che compongono l'azienda, e quindi, in particolare, la forma scritta, a pena di nullità (ad substantiam), per i trasferimenti d'azienda comprensiva di immobili o concernente i diritti indicati all'art. 1350 c.c. Dalla regola che impone l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento di singoli beni che compongono l'azienda, traggono principalmente fondamento i sostenitori della teoria atomistica (ex multis, Pettiti, D., Il trasferimento volontario d'azienda, Napoli, 1970, 111).
Presupposto per l'applicazione delle regole sul trasferimento d'azienda è che la stessa sia astrattamente idonea alla continuazione dell'attività, anche se non attualmente in esercizio. Il trasferimento, consentendo la conservazione dell'unità dei complessi produttivi e il valore dell'avviamento, è visto con favore dal legislatore, che riconosce, fra l'altro, al conduttore di immobili urbani adibiti ad attività industriali, commerciali e artigianali, il diritto di prelazione qualora il proprietario-locatore intenda vendere l'immobile, ovvero locare a terzi l'immobile alla scadenza del contratto di locazione (artt. 38-40, l. 27.7.1978, n. 392).
Il trasferimento d'azienda può avvenire sia inter vivos che mortis causa (art. 2565, co. 3, c.c.), quale oggetto di chiamata all'eredità o di legato, ed è soggetto a pubblicità. Dispone il comma 2 dell'art. 2556 c.c. che i relativi contratti «in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l'iscrizione nel registro delle imprese, nel termine di trenta giorni a cura del notaio rogante o autenticante». Regola questa, date le finalità di ordine pubblico che persegue la norma, volta a prevenire e reprimere operazioni di riciclaggio, applicabile anche ai contratti in cui siano parti imprenditori tenuti solo all'iscrizione nelle sezioni speciali del registro delle imprese (Ibba, C., in Marasà, G. - Ibba, C., Il registro delle imprese, Torino, 1997, 132).
Ove per effetto di separati atti di alienazione di singoli beni ne consegua la disgregazione del complesso aziendale, con conseguente venir meno dei beni essenziali che lo caratterizzano, non troveranno applicazione le norme dettate specificamente per il trasferimento d'azienda (art. 2557 ss. c.c.). Peraltro, producendo questo effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi, sarà compito dell'interprete, al di là del nomen dato al contratto dalle parti, stabilire, sulla base di criteri oggettivi, se un determinato atto di disposizione dell'imprenditore sia da qualificare come trasferimento d'azienda (soggetto a imposta di registro) o come distinte cessioni aziendali (assoggettate ad Iva): sulla distinzione tra affitto d'azienda alberghiera e locazione di immobile, v. Cass., 11.6.2007, n. 13580.
Quale effetto naturale del contratto di alienazione dell'azienda, l'art. 2557 c.c. dispone l'obbligo per l'alienante di «astenersi per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze, sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta». Libere peraltro le parti, in sede di contrattazione, di escludere il divieto di concorrenza, come pure di restringerne la portata, così come di ampliarla, non però nella durata massima di cinque anni (limite questo considerato di ordine pubblico) e sempre che sia lasciato spazio ad una residua attività professionale dell'alienante (Martorano, F., L'azienda, in Tratt. Buonocore, Torino, 2010, 129).
Il divieto di concorrenza comprende non solo la produzione o lo scambio degli stessi beni o servizi dell'azienda ceduta, ma anche beni o servizi succedanei purché destinati alla medesima clientela. Di qui, secondo la giurisprudenza, l'inapplicabilità dell'art. 2557 a chi venda un panificio e poi apra nella stessa zona un negozio di altri generi alimentari (Trib. Modena, 24.2.1979, in Giur. dir. ind., 1979, 374).
Il divieto si applica anche all'usufrutto e all'affitto dell'azienda nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell'usufrutto e dell'affitto (art. 2557, co. 4, c.c.), nonché, relativamente alle aziende agricole limitatamente alle attività ad esse connesse, quando rispetto a queste sia possibile uno sviamento della clientela (art. 2557, co. 5, c.c.). Si applica, infine, alla vendita coattiva, seppure in un contesto dottrinario non pacifico.
La giurisprudenza ha chiarito come il divieto di concorrenza a carico dell'alienante costituisce un principio di carattere generale a tutela dell'acquirente, rispondente a sua volta al principio di buona fede. Esso consente all’acquirente di trattenere le clientela (in considerazione della quale è stato, di norma, determinato il prezzo di cessione), limitando la possibilità che ha l'alienante di attrarre a sé la clientela conoscendone le tendenze (cd. concorrenza differenziale). Pertanto la regola sul divieto di concorrenza non ha carattere eccezionale e trova applicazione analogica anche nel caso di trasferimento di partecipazioni sociali, cioè in tutte quelle ipotesi in cui si avveri la sostituzione di un imprenditore ad un altro nell'esercizio dell'impresa (Cass., 23.9.2011, n. 19430): in tal caso i destinatari del divieto di cui all'art. 2557 non sono solo i cedenti delle quote della società, ma anche la nuova società da essi eventualmente formata. Per converso è escluso che il divieto di concorrenza operi per il socio che recede da società di persone (Cass., 17.4.2003, n. 6169).
La violazione del divieto di concorrenza comporta come conseguenza, oltre al risarcimento del danno eventualmente subito, il potere di chiedere l'inibitoria (Auletta., G., Azienda (diritto commerciale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 28).
In deroga a quanto previsto dall'art. 1406 c.c. in tema di cessione del contratto, che presuppone il consenso del contraente ceduto, l'art. 2558 c.c., a garanzia della funzionalità economica dell'azienda trasferita, stabilisce – quale effetto naturale del contratto, quindi con salvezza di diversa pattuizione tra cedente e cessionario – che l'acquirente «subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale». Trattasi di un'ipotesi di successione ex lege.
Pertanto il cessionario – salva la possibilità accordata dal co. 2 dell'art. 2558 c.c. al «terzo contraente di recedere (ex nunc) dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento dell'azienda, se sussiste una giusta causa» – subentra nella totalità dei diritti e degli obblighi che nella loro interezza derivano dal contratto per il cedente (Cass., 5.11.2003, n. 16635).
Presupposti per l'applicabilità dell'art. 2558 c.c. sono la corrispettività e la pendenza di entrambe le prestazioni, ovvero che si tratti di rapporti in corso di esecuzione. La successione ha effetto in relazione ai contratti «stipulati per l'esercizio dell'azienda», ai cd. contratti aziendali, cioè che attengono all'organizzazione dell'azienda, come pure ai c.d. contratti d'impresa, cioè quelli attraverso i quali si concreta l'esercizio dell'attività economica (tra cui rientrano anche i contratti di assicurazione contro gli infortuni e il rischio morte dei dipendenti, i contratti di somministrazione con i fornitori, i contratti d'appalto e simili: Cass., 29.5.2010, n. 7517). Il meccanismo di cessione ex lege opera anche nel caso di conferimento d'azienda individuale in società (Cass., 9.3.1991, n. 2928).
Circa la possibilità di recesso del contraente ceduto di cui più sopra si è detto, deve aggiungersi, da un lato, come la giusta causa di recesso sia costituita da quei mutamenti di circostanze rilevanti tali da non dare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto, quali la posizione patrimoniale dell'acquirente, dall'altro, come al contraente ceduto che abbia legittimamente esercitato il diritto di recesso compete il diritto al risarcimento danni nei confronti dell'alienante, ove si dimostri che questi non ha osservato la normale diligenza nella scelta del proprio contraente. Il recesso non determina il ritorno del contratto in capo all'alienante, bensì la definitiva estinzione dello stesso (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, 1, Diritto dell'impresa, Torino, 2013, 154).
Le disposizioni tutte appena riferite si applicano anche nei confronti dell'usufruttuario e dell'affittuario per la durata dell'usufrutto e dell'affitto (art. 2558 c.c.), ed in particolare al contratto di lavoro subordinato (art. 2112 c.c.), al contratto di consorzio (art. 2160 c.c.), nonché, secondo l'art. 36 della legge sull'equo canone (l. n. 392/1978), alla cessione del contratto di locazione sempreché venga insieme ceduto il contratto di locazione (in deroga quindi alla regola generale di cui all'art. 1594 c.c.).
Secondo l'opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza la cessione dell'azienda comporta l'automatico trapasso dei crediti alla stessa riferibili (art. 2559 c.c.), ivi compresi i crediti d'imposta vantati dal cedente nei confronti dell'erario (Martorano, F., L'azienda, cit., 199; Cass., 12.12.2013, n. 3342); la norma trova applicazione anche nel caso di pretese rivenienti da fonte extracontrattuale. Un'apposita pattuizione, per converso, è necessaria perché si verifichi l'effetto traslativo dei crediti di natura personale (Tar Campania, 22.3.2011, n. 1614). In tal senso anche per i crediti aziendali secondo un'opinione minoritaria che, escludendo la soluzione del passaggio automatico dei crediti, ritiene necessaria un'apposita pattuizione delle parti (Ferri, G., Manuale di diritto commerciale, Torino, 2010, 225).
L'opponibilità della cessione dei crediti nei confronti dei terzi, in alternativa alla notifica al cedente ovvero alla sua accettazione prevista dall'art. 1264 ss. c.c., ha effetto dal momento dell'iscrizione del trasferimento dell'azienda nel registro delle imprese, attraverso cioè una pubblicità legale, sempreché si tratti di imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 154). Tuttavia il cedente è liberato se paga in buona fede all'alienante in deroga alla opponibilità erga omnes dei fatti iscritti prevista dall'art. 2193, co. 2, c.c. (Ibba, C., Iscrizione nel registro delle imprese e difformità per situazione iscritta e situazione reale, in Riv. soc., 2013, 879).
In armonia con il principio generale secondo cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore (art. 1268 c.c.), il primo comma dell'art. 2560 c.c. stabilisce che «l'alienante non è liberato dai debiti inerenti l'esercizio dell'azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito». La disposizione concerne tutti i debiti, sia contrattuali che extracontrattuali, sempreché concernano posizioni definite, quindi anche i debiti derivanti da contratti a prestazioni corrispettive eseguiti ex uno latere e quelli derivanti dai contratti unilaterali (Cass., 20.7.1991, n. 8121). La norma è ritenuta applicabile al caso di conferimento di un'azienda individuale in società (Cass., 28.9.2004, n. 19454).
Il cedente può, in ogni caso, conseguire la liberazione dalla responsabilità debitoria, ove i creditori vi acconsentano, purché si tratti di consenso espresso alla liberazione, non essendo sufficiente, secondo l'opinione prevalente, un generico consenso del creditore al trasferimento dell'azienda (per il consenso espresso, v. Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 157; in senso contrario, Colombo, G.E., L'azienda, cit., 19 e 26). Per quanto concerne i debiti di lavoro, il consenso deve riguardare espressamente la liberazione del cedente (art. 2112, co. 2, c.c.). Restano esclusi dal disposto dell'art. 2560 c.c. i debiti personali non inerenti l'esercizio dell'impresa, ivi compresi i debiti di tipo previdenziale dell'imprenditore alienante (Cass., 5.6.1997, n. 5001).
i. Dispone questa norma che «nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti inerenti l'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori». In proposito la S.C. (Cass., 21.12.2012, n. 23838, in Giur. comm., 2013, II, 997, con nota di Racugno, G., Debiti e scritture contabili nel trasferimento d'azienda) ha avuto modo di statuire che, in tema di cessione d'azienda, la disposizione di cui all'art. 2560, co. 2, c.c., secondo cui l'acquirente risponde dei debiti inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta soltanto se essi risultino dai libri contabili, è dettata non solo dall'esigenza di tutelare i terzi creditori, già contraenti con l'impresa e peraltro sufficientemente garantiti pure dalla norma di cui al comma 1 del medesimo art. 2560 c.c., ma anche da quella di consentire al cessionario di acquisire adeguata e specifica cognizione dei debiti assunti, specificità che va esclusa nell'ipotesi in cui i dati riportati nelle scritture contabili siano parziali e carenti nell'indicazione del soggetto titolare del credito, non potendosi in alcun modo integrare un'annotazione generica delle operazioni mediante ricorso ad elementi esterni di riscontro (Minneci, U., Trasferimento di azienda e regime dei debiti, Torino, 2006, 215; Auletta, G. Trasferimento dell'azienda e trasferimento dei crediti e dei debiti di impresa tra le parti, ora, in Scritti giuridici, VII, Milano, 2001, 325). La ratio della disposizione è quella di consentire all'acquirente di «calcolare con esattezza i debiti per i quali dovrà rispondere, sottraendo la relativa somma dal prezzo corrisposto» (Auletta, G., Azienda, cit., 23), e di determinare così il prezzo sulla base del patrimonio aziendale netto.
Secondo la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, «salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente» dell’azienda gestita dal commissario governativo «per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, anteriori al trasferimento» (art. 63, co. 5, d. lgs. 8.7.1999, n. 270). Nell'ambito delle procedure concorsuali, l'esclusione della responsabilità dell’acquirente del complesso aziendale per i debiti relativi all’esercizio dell’azienda ceduta, sorti prima del trasferimento, è ora, salvo diversa convenzione, sancita dal novellato quarto comma dell’art. 105 l. fall., norma questa che trova applicazione anche nel concordato preventivo (art. 182, ult. co., l. fall.).
La conoscenza aliunde dell'esistenza del debito e della sua origine aziendale non è idonea a surrogare la perentorietà della norma che considera presupposto essenziale la risultanza delle scritture contabili obbligatorie perché abbia luogo l'assunzione del debito, a titolo di accollo ex lege, da parte dell'acquirente, ferma naturalmente una diversa disciplina negoziale dei debiti aziendali nei rapporti interni (Cass., 29.4.1998, n. 4367), in assenza della quale ciascuno dei contraenti risponde dei debiti riguardanti la propria gestione. Di qui la non estensibilità alle ipotesi di debiti non risultanti dalle scritture contabili obbligatorie, cioè quelle ex art. 2214 (Cass. 20.2.1999, n. 1429), ancorché conosciuti o conoscibili aliunde dall'acquirente (Cass., 20.6.2000, n. 8363, che sottolinea la natura di norma eccezionale dell'art. 2560 c.c. e, come tale, insuscettibile di applicazione analogica).
Peraltro l'art. 33 del d.lgs. 8.6.2001, n. 231, stabilisce la responsabilità del cessionario per il pagamento delle sanzioni pecuniarie inerenti all'esercizio dell'azienda acquistata – seppure «nei limiti del valore» - qualora ne sia stato «comunque» a conoscenza al momento dell'acquisto; la responsabilità del cessionario è attenuata rispetto a quella di diritto comune, essendo accompagnata dal beneficio della preventiva escussione del cedente (Niccolini, G., L'azienda, in Aa.Vv. Elementi di diritto dell'impresa, Torino, 2010, 145-147, il quale, mi pare, per primo, ha segnalato questa disciplina specifica). Neppure i libri facoltativi o quelli tenuti a meri fini tributari sono sufficienti a far sorgere la responsabilità in capo all'acquirente (sulla non utilizzabilità dei libri IVA, Cass., 3.3.1994, n. 2108).
ii. Ferma la responsabilità solidale (trattasi di una solidarietà cd. diseguale «che ricorre laddove al soggetto nel cui esclusivo interesse è contratta l'obbligazione, si affianca un altro soggetto in funzione (lato sensu) di garante»: così Martorano, F., L'azienda, cit., 217, nt. 10) tra cedente e cessionario relativamente ai rapporti esterni con i terzi creditori, pur in un contesto dottrinario fortemente disarmonico (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 157-158, ed ivi nt. 41, che sottolinea come secondo gli orientamenti più recenti prevale «la tesi che crediti e debiti non passino automaticamente in testa all'acquirente, ma sia a tal fine necessaria una espressa pattuizione»), dalla ultrattività della responsabilità dell'alienante («L'alienante non è liberato dai debiti», esordisce l'art. 2560 c.c.), dovrebbe discendere, per quanto concerne l'assetto dei rapporti interni tra alienante e acquirente, l'implicito riconoscimento di un trasferimento ex lege dei debiti (Casanova, M., Azienda, in Dig. comm., II, Torino, 1987, 93). Ed in questo senso è la prevalente giurisprudenza, secondo cui la disciplina del primo comma dell'art. 2560 c.c. presuppone in modo manifesto che, per effetto dell'alienazione, sia sorto automaticamente un nuovo debitore, e cioè l'acquirente dell'azienda, rispetto alle cui obbligazioni la persistente responsabilità dell'alienante assume carattere di garanzia (Cass., 2.10.1980, n. 5341; Cass., 15.2.1979, n. 1001; Cass., 22.1.1972, n. 171; contra, Cass., 11.5.1976, n. 1633). Ne consegue che ove si concluda, come pare preferibile a chi scrive, che debitore principale divenga il cessionario, verso quest'ultimo il cedente escusso dal creditore avrà azione di regresso e quindi il diritto di ripetere le somme pagate, iscrivendo così nel proprio bilancio il corrispondente credito di regresso.
iii. L’iscrizione nei libri contabili obbligatori dell’azienda è dunque elemento costitutivo essenziale della responsabilità dell’acquirente (Nigro, A., Libri e scritture contabili, 1) Diritto commerciale, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 5; Cass., 10.11.2010, n. 22831).
Aggiungasi che affinché sorga la responsabilità non è sufficiente l’obiettiva risultanza dei debiti dai libri, ma è necessario che i libri stessi siano stati posti a disposizione dell’acquirente. L’onere di provare l’esistenza delle scritture contabili obbligatorie grava sul creditore (art. 2697 c.c.).
Nel trasferimento d’azienda cedente e cessionario sono così responsabili nei confronti dei terzi creditori del complesso aziendale ceduto con tutti i rispettivi patrimoni in applicazione del principio di cui agli artt. 2560 c.c. e 2740 c.c. Si verifica cioè ex lege un accollo interno fra il cedente e il cessionario (art. 1273 c.c.), limitato ai debiti che risultano dai libri obbligatori. Per i debiti non risultanti dalle scritture contabili obbligatorie il passaggio può aver luogo mediante un espresso patto di accollo (Cass., 29.5.1972, n. 1726; Cass., 28.1.1964, n. 211).
Nell’ipotesi in cui il trasferimento concerna non già l’azienda nella sua interezza, bensì soltanto un ramo di questa, la responsabilità del cessionario non potrà che essere limitata a quei debiti che, sulla base dei libri contabili obbligatori, risultano riferirsi al ramo d’azienda oggetto dell’operazione (Colombo, G.E. L'azienda, cit., 150 ss.; contra, per un’interpretazione più rigida che ritiene applicabile il co. 2 dell’art. 2560 alla sola ipotesi in cui risulti tenuta una contabilità distinta per il ramo d’azienda alienato,Porzio, M., La sede dell’impresa, Napoli, 1970, 245 ss.), con l’eccezione, più favorevole per i lavoratori, relativamente ai debiti di lavoro (art. 2112, co. 2, c.c.), come si dirà in appresso.
iv. In ogni caso – se si accede alla tesi della prevalente giurisprudenza, condivisa come si è detto da chi scrive – sia nel trasferimento d’azienda come in quello di ramo d’azienda, la titolarità dei debiti inerenti la cessione transita in capo al cessionario, avendo l’obbligazione solidale del cedente unicamente funzione di garanzia, quale responsabilità per debito altrui. Di qui, contabilmente, l’indicazione nel bilancio del cedente dell’ammontare di tale responsabilità nei conti d’ordine, con l’appostazione nel passivo dello stato patrimoniale di un fondo rischi corrispondente all’esborso che il cedente medesimo, per l’ipotesi in cui sia richiesto del pagamento dal terzo creditore, ritenga di non poter recuperare esercitando il regresso verso il cessionario-debitore principale (Colombo, G.E., Il bilancio d’esercizio, in Tratt. Colombo-Portale, 7, t. 1, Torino, 1994, 378).
A conclusioni specularmente contrapposte si perviene ove si acceda alla tesi secondo cui i debiti permangono in capo al cedente, sul quale verrebbe a gravare esclusivamente l'imputazione del peso economico del debito. In questa ipotesi la rappresentazione contabile evidenzierà nei conti d'ordine del bilancio del cessionario-garante l'ammontare dei debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie dell'alienante, con l'appostazione al passivo dello stato patrimoniale, del medesimo cessionario-garante, di un fondo rischi, ove il credito di regresso debba stimarsi a valore inferiore a quello nominale (Colombo, G.E., Il bilancio d'esercizio, cit., 378).
v. Rimane infine da esaminare l’ipotesi in cui, per qualsivoglia ragione, non esistano i libri obbligatori.
In questo caso la norma di cui al co. 2 dell’art. 2560 c.c. non potrà evidentemente trovare applicazione, con conseguente inesistenza di qualsivoglia responsabilità in capo all’acquirente dell’azienda (Cass., 29.5.1972, n. 1726).
L’esigenza di favorire la circolazione delle aziende induce a ribadire la natura eccezionale del co. 2 dell’art. 2560, quindi l’inesistenza di responsabilità in capo all’acquirente qualora manchi l’iscrizione in contabilità di debiti pur esistenti e, come detto, aliunde conosciuti o conoscibili.
Se peraltro questi debiti risultano comunque dalle scritture contabili obbligatorie, ancorché queste siano state tenute irregolarmente sotto il profilo formale, degli stessi sarà tenuto a rispondere anche l’acquirente (Colombo, G.E., L’azienda, cit., 147-8).
vi. Regole e principi diversi disciplinano la responsabilità dell’acquirente d’azienda per i debiti da lavoro dipendente. L’art. 2112, co. 2, c.c., stabilisce che l’alienante e l’acquirente sono obbligati in solido per tutti i crediti indistintamente maturati che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento (Cass., 24.2.2005, n. 2922; Cass., 29.12.1997, n. 12899). La responsabilità dell’acquirente prescinde, cioè, sia dalla conoscenza che dalla conoscibilità della situazione debitoria aziendale. La tutela dei crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento prevalgono sull’interesse dell’acquirente a non essere gravato di debiti non conosciuti.
Un’elaborata definizione del trasferimento di azienda è ora contenuta nel nuovo testo dell’art. 2112 c.c., dettato dal d. lgs. 2.2.2001, n. 18, e da ultimo modificato ad opera dell’art. 32 del d.lgs. 10.9. 2003, n. 276, che fa gravare la responsabilità per i debiti di lavoro dipendente anche sull'acquirente di un ramo d'azienda (art. 2112, co. 5, c.c.).
Va ancora aggiunto per completezza, e per gli opportuni confronti fra fattispecie funzionalmente affini, che la disciplina del trasferimento d'azienda non trova applicazione nell’ipotesi di cessione di partecipazioni, considerato che oggetto immediato del contratto di compravendita di azioni o quote di società, infatti, non sono i beni di cui è esclusiva proprietaria la società, bensì la partecipazione sociale, cioè l'insieme dei diritti patrimoniali ed amministrativi in cui si riassume lo status di socio.
Secondo un fermo e consolidato indirizzo giurisprudenziale «la vendita delle azioni non può identificarsi con l’alienazione del patrimonio sociale»; di qui il corollario, immodificato nel tempo, secondo cui «il venditore delle azioni non risponde, senza un patto contrario, dell’evizione o delle passività che si riferiscono al patrimonio stesso» (Cass., 19.7.2007, n. 16031, ma in tal senso già Cass., 29.3.1935; Bonelli, F., Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in RDS, 2007, I, 315; D'Aiello, G.M., Metonimie e diritto societario (a proposito di acquisto di partecipazioni, vizi dei beni sociali e garanzie implicite), in Dir. comm. intern., 2012, 754). La vendita della partecipazione non importa né equivale alla vendita dei beni. Ne discende che se i beni della società si rivelano diversi per entità e caratteristiche da quelli che hanno indotto il compratore all’acquisto, non è possibile ottenere l’annullamento del negozio in quanto il valore economico delle azioni non rientra fra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, c.c.
Accanto alla garanzia relativa alle partecipazioni (proprietà del venditore, insussistenza di vincoli o legami), emerge pertanto la necessità, per il compratore, della garanzia sulla situazione patrimoniale della società, da cui discende – ma soltanto ove questa garanzia sia espressamente prevista – l’applicabilità dell’art. 1497, c.c.
Le parti possono prevedere a tal fine clausole di garanzia ‘sintetiche’, ove il parametro è costituito dal patrimonio netto, come pure clausole di garanzia ‘analitiche’, nelle quali il riferimento concerne la consistenza delle singole poste della situazione patrimoniale.
L'azienda può essere costituita in usufrutto (art. 2561 c.c.), come pure può essere concessa in affitto (art. 2562 c.c.), nel rispetto della destinazione, sì da consentire all'usufruttuario o all'affittuario la più ampia libertà gestionale, con il potere di disporre dei beni aziendali, compresi gli impianti e i macchinari, ma pur sempre nell'ottica del ritorno di un complesso aziendale efficiente e inalterato nella sua identità (art. 2561, co. 2, c.c.) in capo al conducente alla fine del rapporto.
Usufruttuario e affittuario devono esercitare l'azienda sotto la ditta che la contraddistingue (art. 2560, co. 1, c.c.).
Significativo è il ruolo delle scritture contabili nell’usufrutto e nell’affitto di azienda, sia in quanto solo attraverso una regolare tenuta delle scritture contabili può trovare applicazione l’ultimo comma dell’art. 2561 c.c., secondo cui la differenza tra le consistenze d'inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto o dell’affitto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto o dell’affitto: la mancata o irregolare tenuta delle scritture può determinare la cessazione dell’usufrutto o dell’affitto (art. 2561, co. 3, c.c., che richiama l’art. 1015 c.c.).
Considerato che il legislatore ha espressamente statuito (art. 2558, ult. co., c.c.) che il trasferimento dell'azienda a titolo di usufrutto ed affitto comportano il ‘trascinamento’ dei contratti in corso di esecuzione (che torneranno in capo al proprietario e al locatore al termine del rapporto), ma nulla ha disposto in relazione ai debiti, è da condividersi l'opinione espressa dalla dottrina (Martorano, F., L'azienda, cit., 305) e dalla giurisprudenza (Cass., 8.5.1981, n. 3027) secondo cui non può trovare applicazione il co. 2 dell'art. 2560 c.c. sulla responsabilità dell'acquirente per i debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie. Per i debiti di lavoro trova applicazione, a tutela dei diritti del lavoratore, l'art. 2112, co. 5, c.c. Per converso trova applicazione il divieto di concorrenza a carico del nudo proprietario e del locatore, tenuti a non iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela per tutta la durata dell'usufrutto e dell'affitto (Cass., 20.12.1991, n. 13762).
Il trasferimento dei crediti, nei termini disciplinati dall'art. 2559 c.c., ha luogo soltanto per l'usufrutto dell'azienda, considerato lo specifico riferimento contenuto nel secondo comma di questa norma.In ogni caso la cessazione dell'usufrutto o dell'affitto dell'azienda e la sua restituzione al proprietario-concedente non comportano a carico di quest'ultimo la responsabilità ex art. 2560 c.c. per i debiti contratti dall'usufruttuario o dall'affittuario, così come non sussiste la responsabilità per l'affittuario per i debiti anteriori all'affitto (Cass., 8.5.1981, n. 3027).
È controversa, invece, la sorte dei contratti stipulati dall'usufruttuario o dall'affittuario (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 161, nt. 46).
Nell'ambito delle operazioni straordinarie di riorganizzazione aziendale assumono significativo rilievo lo scorporo (Racugno, G., Lo "scorporo" d'azienda, Milano, 1995) e la scissione (Scognamiglio, G., Le scissioni, in Tratt. Colombo-Portale, VII, t. 2, Torino, 2004, 4). Il primo, di antica origine, trova la sua fonte nella disciplina dei conferimenti di beni in natura (art. 2343 c.c.); la seconda ha una vita ben più recente, avendo visto la luce nell'ordinamento italiano soltanto con l'entrata in vigore del d.lgs. 16.1.1991, n. 22 (che ha introdotto nel codice civile, nel titolo V, del libro V, una sezione intitolata «Della scissione delle società»: artt. 2506 ss.) in attuazione della legge 26.3.1990, n. 69, ai sensi della VI direttiva Cee n. 82/891, e trova applicazione, in particolare, nelle società con una compagine sociale a base familiare o ristretta.
Lo scorporo ha per fine il trasferimento, in tutto o in parte, del complesso aziendale della società conferente (scorporante) nella società conferitaria in cambio dell'acquisizione da parte della prima di partecipazioni sociali della seconda, di guisa che nel patrimonio della conferente vi saranno azioni e quote in luogo dei beni scorporati, senza variazioni di valore. Quindi l'operazione non incide direttamente nei rapporti con i soci.
La scissione, che rientra nell'ambito delle modifiche statutarie, per converso, «è un evento di disaggregazione di una compagine sociale, con correlata sostituzione di più rapporti ad un originario, unico rapporto»: con la scissione – recita l'art. 2506 c.c. – «una società assegna l'intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi soci».
L'operazione primaria nel procedimento di scorporo consiste nella individuazione analitica dei beni che costituiscono l'azienda o il relativo ramo destinato ad essere scorporati e passa necessariamente attraverso la redazione di una situazione patrimoniale contabile di riferimento.
L'azienda o il ramo d'azienda oggetto dello scorporo vengono, a loro volta, individuati attraverso l'inventario fisico che consente all'imprenditore di determinare con esattezza il «complesso dei beni» che dello scorporo costituisce l'oggetto.
Mentre nelle società di persone non sussiste una disciplina cogente dei conferimenti in natura, né vige il principio della immediata liberazione degli stessi, gli scorpori destinati a confluire in società di capitali sono rigorosamente disciplinati dall'art. 2343 c.c., secondo il quale la stima dell'esperto ha la funzione di accertare i valori effettivi del complesso aziendale oggetto di scorporo, e non quelli prudenziali del bilancio di esercizio, che costituiscono peraltro, pur sempre, il riferimento base (Marchetti, P., Spunti sulla relazione fra valore contabile, valore economico, valore di mercato dell'azienda nelle operazioni societarie di finanza straordinaria, in Giur. comm., 1993, I, 211).
La valutazione peritale (Olivieri, G., I conferimenti in natura nella società per azioni, Padova, 1989, 351; Pisani, L.-Massamormile, A., Conferimenti in s.p.a. e formazione del capitale, Napoli, 1992, 217) che, fra l'altro, elimina ogni successivo accertamento da parte del fisco (circ. Min. Finanze, 10.6.1986, n. 37; ma v. anche la decisione della Commissione Centrale n. 7019 del 25 10.1988, che ha ritenuto la relazione di stima non vincolante per l'Amministrazione finanziaria), mira ad evidenziare il «valore generale» dell'azienda.
La relazione di stima dovrà, quindi, individuare il valore obiettivo del complesso aziendale oggetto di scorporo (Angelici, C., La costituzione della società per azioni, in Tratt. Rescigno, XVI, Torino, 1985, 246) e contenerne la descrizione dettagliata, con indicazione del valore attribuito a ciascun cespite (Gardi, F., Fusioni ed altre combinazioni di imprese, in Riv. soc., 1988, 125).
Nella pratica commerciale spesso lo scorporo viene effettuato dalla società conferente in una società di capitali di nuova costituzione (newco) in vista del successivo trasferimento all'acquirente della titolarità del relativo capitale: il conferimento costituisce una alienazione traslativa dell'azienda in favore della società (Cass., 1.10.1993, n. 9802), per cui le soluzioni in tema di vendita di azienda sono rilevanti anche in sede di trasferimento societario, con particolare riguardo al passaggio dei rischi (artt. 2254, 2342, 2464 c.c.).
La circostanza che la scissione abbia una disciplina sua propria dovrebbe precludere l'applicazione in via automatica delle norme dettate dal codice civile sul trasferimento di azienda nelle ipotesi in cui la scissione abbia appunto per oggetto l'intera azienda della società scissa o singoli rami, e dunque di una pluralità di attività e passività. Si rende così necessario verificare di volta in volta l'applicabilità (in via analogica) delle norme sul trasferimento d'azienda (Palmieri, G., Scissione di società e circolazione dell'azienda, Torino, 1999, 167).
Schematicamente può osservarsi: a) art. 2556 c.c. (forma scritta ad probationem e pubblicità): ogni problema è superato dalla presenza di specifiche disposizioni in proposito dettate in sede di scissione; b) art. 2557 c.c. (divieto di concorrenza): pur nelle incertezze dottrinali che caratterizzano la materia, volte per lo più a distinguere l'ipotesi di scissione non proporzionale (per l'applicabilità del 2557 c.c.) dalla scissione proporzionale (per l'inapplicabilità), pur propendendo per un'ampia applicabilità del divieto di concorrenza alla scissione avente ad oggetto un'azienda o un ramo di essa (considerata la portata di norma generale del divieto di cui all'art. 2557 c.c. riconosciuto anche da Cass. 24.7.2000, n. 9682), sussiste qualche dubbio sull'applicabilità del divieto di concorrenza alla scissione parziale che veda un'identica composizione della compagine sociale delle società beneficiarie di nuova costituzione: considerato, invero, che in questa ipotesi essendo presenti gli stessi soci, con le medesime percentuali, nella scissa e nella beneficiaria, verrebbero meno quelle esigenze di tutela del valore dell'investimento del soggetto acquirente l'azienda che qualifica l'art. 2557 c.c.; c) art. 2558 c.c. (successione nei contratti): essendo già prevista, in via generale, la possibilità per i terzi contraenti di opporsi alla scissione ex art. 2503 c.c. (richiamato dall'art. 2506 ter, ult. co., c.c.), potrebbe obiettarsi per l'inutilità di un richiamo all'art. 2558 c.c.; questa norma contiene, peraltro, al co. 2, una possibilità di recesso che può avere una sua peculiare funzione considerata la sua operatività per i tre mesi da quando il terzo contraente ha avuto notizia della scissione, sempre naturalmente nella sussistenza di una giusta causa; d) art. 2559 c.c. (crediti): la specificità del disposto dell'art. 2506 quater c.c. che riconduce gli effetti della scissione dall'ultima iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di scissione, impedisce l'applicabilità per analogia dell'art. 2559 c.c.; e) art. 2560 c.c. (debiti): la presenza di una norma volta alla tutela dei creditori che consente, a differenza di quanto accade nel trasferimento d'azienda, di opporsi alla scissione (art. 2506 ter, ult. co., c.c., che richiama l'art. 2503 c.c.), non consente, essendo appunto la materia espressamente disciplinata, il ricorso all'applicazione analogica dell'art. 2560 c.c., e rende, fra l'altro, inapplicabile il principio contenuto in questa norma che àncora la responsabilità dell'acquirente alla risultanza dei debiti iscritti nelle scritture contabili obbligatorie; f) art. 2112 (rapporti di lavoro): l'ampio dettato del co. 5 dell'art. 2112 c.c. («si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato») consente di qualificare la regola che mira al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda quale espressione di un principio generale applicabile ogni qualvolta vi sia mutamento del datore di lavoro a prescindere dalle modalità del mutamento.
Artt. 2082, 2112, 2203, 2214, 2343, 2503, 2555-2562, c.c.; 670 c.p.c.; artt. 105, 140 ss., 182 l. fall.; artt. 36, 38-40 l. 27.7.1978, n. 392; l. 26.3.1990, n. 69; l. 30.7.1990, n. 218; art. 51 l. 10.10.1990, n. 287; d.lgs. 20.11.1990, n. 356; d.lgs. 16.1.1992 n. 22; art. 14 d.lgs. 18.12.1998, n. 472; art. 63, co. 5, d.lgs. 8.7.1999, n. 270; d.lgs. 2.2.2001, n. 18; art. 33 d.lgs. 8.6.2001, n. 231; art. 32 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 27 d.lgs. 31.7.2005, n. 177; artt. 198, 199, 200 d.lgs. 7.9.2005, n. 209.
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