AZIENDA (dallo sp. hacienda)
Ogni amministrazione economica presuppone un'organizzazione di persone e di beni economici che la costituiscono. "Questa organizzazione di persone e di beni economici ehe è indispensabile per il raggiungimento di un fine o dei fini d'un ente è l'azienda". Le persone costituiscono l'elemento soggettivo di essa e i beni economici quello oggettivo. Concepire l'azienda nel solo elemento oggettivo non è sufficiente. Si possono destinare tutte le ricchezze che si vogliono e coordinarle nel modo migliore per il conseguimento di fini, ma queste ricchezze non potranno mai, da sole, volgersi al conseguimento dei fini stessi, se non vi sono persone che agiscano sopra di esse e vi compiano le azioni necessarie, e se non intervengono rapporti di diritto fra queste persone ed altre.
Il Besta, nel primo volume della sua Ragioneria generale (Milano 1909, p. 3) definisce l'azienda per la "somma dei fenomeni, negozi e rapporti da amministrare relativi a un cumulo di capitali che formi un tutto a sé, o a una persona singola, o a una unione qualsivoglia, o anche soltanto una classe distinta di quei negozî, fenomeni e rapporti": definizione che è accettata alla lettera da quasi tutti gli scolari del Besta. Lo Zappa concepisce invece l'azienda come "una coordinazione economica in atto istituita e retta per la soddisfazione di umani bisogni" (Tendenze nuove negli studi di ragioneria, prolusione all'anno accademico 1926-27, Milano 1927, p. 30). Fra gli studiosi di diritto commerciale, il Carnelutti definisce l'azienda commerciale in modo non molto dissimile dalla definizione sopra data, come "il complesso delle cose e delle persone che l'autore impiega per il compimento del suo lavoro" (Rivista di diritto commerciale, XXII, p. 458). Per questo studioso "l'azienda.... più che una cosa, è una universitas, un mirabile aggregato di beni singoli reali e personali che l'unità dello scopo cementa insieme, formandone un bene indiviso, e perciò un possibile obbietto di diritto" (Riv. cit., p. 172). Fra gli economisti, F. Sax scorge nell'azienda "un operare consapevole dell'uomo, iniziato e condotto a termine per virtù della riflessíone, con lo scopo di conseguire la maggiore soddisfazione possibile dei bisogni mediante l'uso di quei beni che sono a sua piena disposizione regolando, nel tempo, il consumo e il reddito" (Principi teoretici di economia di stato, in Biblioteca dell'Economista, s. 5ª, XV, Torino, p. 264).
L'azienda si specifica badando al luogo dove sorge, o al locale, l'azienda di Genova, il magazzino di via Cavour, ecc.; badando ai fini dell'ente, o alla sua attività economica: l'azienda ospitaliera, l'azienda bancaria, ecc.; badando simultaneamente a più aspetti: l'azienda di navigazione veneziana, l'azienda dei tram romani, ecc. Si dicono pure aziende, speciali organizzazioni di persone e di beni che si costituiscono in seno a certi enti (stato, comune), e che, pur apparendo autonome, non sono altro che forme mediante le quali l'ente tende a procurarsi beni economici. Sono nello stato, l'azienda ferroviaria, quella postale e telefonica, quella dei sali e tabacchi, ecc., e nei comuni, le aziende municipalizzate dei tram, del gas, della luce elettrica, ecc.
L'azienda non è l'ente, pur potendo immedesimarsi con esso se i fini di esso sono soltanto economici, e se, per conseguenza, soltanto economica ne è l'amministrazione. In una società commerciale, ad esempio, la società e l'azienda sociale - pur essendo giuridicamente diverse - costituiscono quasi una sola individualità, tanto che nella pratica si concepiscono come una medesima cosa. Le stesse espressioni che si usano giustificano questa immedesimazione. Si dice comunemente che l'azienda ha un fine, mentre sono gli enti conmerciali (commercianti e società commerciali) che hanno questo fine; che l'azienda possiede beni, compera, vende, incassa, paga, fa fronte ai suoi impegni o fallisce; mentre è il commerciante o la società cui l'azienda appartiene, che così agisce. L'identificazione appare anche dal fatto che con la parola "impresa" si sogliono indicare sia gli enti commerciali, sia le loro aziende.
Lo stato, il comune, la provincia, un istituto di assistenza o beneficenza, sono molto più dell'azienda dello stato, del comune, della provincia, d'un istituto pio. Né può essere diversamente quando si pensi che l'azienda non è che l'organizzazione necessaria all'attuarsi dell'amministrazione economica; e che quest'ultima è una parte soltanto dell'intera amministrazione degli enti. Sono questi che hanno fini da raggiungere, e non le loro aziende, pur connettendosi le aziende strettamente a questi fini, pur involgendo anzi gli enti in tutte le loro manifestazioni e attività.
Dato che i fini degli enti sono economici nel mezzo, oppure esclusivamente economici, le aziende non possono che dividersi in due grandi gruppi: 1. aziende di erogazione; 2. aziende di produzione.
Sono di erogazione le aziende degli stati, dei comuni, delle provincie, degl'istituti di assistenza e beneficenza, dei sodalizî, quelle domestiche e così via, e si dicono di erogazione, perche la caratteristica economica è l'erogazione di beni economici per il conseguimento di fini diretti non economici. Sono di produzione le aziende agrarie, quelle patrimoniali signorili e le aziende dei commercianti (negozianti, banchieri, industriali, assicuratori, ecc.), e cioè le imprese commerciali. Si dicono imprese, perché la caratteristica degli enti è la produzione indiretta o diretta di beni economici o di servizî, a rischio dell'ente, per il fabbisogno altrui, e a scopo di lucro o di guadagno. Il concetto d'impresa commerciale è inscindibile da quello di rischio; tutte le imprese commerciali quindi sono aziende di rischi.
Erogazione - termine quasi meramente giuridico - significa destinazione d'una data somma di denaro a un dato fine; essa rappresenta nei riguardi economici, e rispetto all'ente, consumi di ricchezza improduttivi.
La ricchezza che gli enti debbono procacciarsi per l'erogazione, può essere originaria e derivata. È originaria o patrimoniale, se proviene da un patrimonio, e cioè da un fondo o stock di ricchezza; è derivata o extra-patrimoniale, se proviene dal lavoro, oppure da contribuzioni forzate o volontarie da parte di coloro cui l'ente giova, o anche da altri enti. La ricchezza è originaria e derivata se proviene da entrambe le fonti. Costituiscono il fondo o stock di ricchezza le case, i terreni, i titoli, i crediti fruttiferi, ecc., che una persona possiede, ed è ricchezza originaria il fitto che questa persona ricava ogni anno dalle case e terreni, e gl'interessi che riscuote sui titoli e sui crediti.
Sono ricchezze derivate dal lavoro, gli stipendî che percepisce un impiegato, i salarî che riscuote un operaio, i proventi che ritrae un professionista; ricchezze che costituiscono il "reddito del lavoro o personale". Sono ricchezze derivate da contribuzioni quelle che si procacciano gli stati, i comuni e le provincie con imposte e tasse; contribuzioni che possono chiamarsi "redditi derivanti da ricchezze altrui". Il possidente che riscuote i fitti delle sue case e dei suoi terreni, gl'interessi dei suoi titoli di rendita, ecc., ed eroga il reddito netto per i bisogni dei suoi e della sua famiglia, ci offre il tipo caratteristico delle aziende in cui la ricchezza è originaria, in cui il reddito è soltanto patrimoniale: delle aziende, cioè, patrimoniali-domestiche. L'operaio, l'impiegato, il professionista, e in generale quelle persone che traggono unicamente dal loro lavoro i redditi necessarî per i bisogni della vita, ci presentano il gruppo delle aziende, in cui la ricchezza è derivata soltanto dal lavoro, in cui il reddito è soltanto personale, e cioè le aziende domestiche. Le aziende degli stati, comuni e provincie che hanno in quantità maggiore o minore ricchezza originaria o redditi patrimoniali, ma hanno sempre redditi derivati da contribuzioni e da industrie che esercitano in condizioni di monopolio (stato), o da servizi che assumono (comuni); e le aziende degl'impiegati e professionisti che traggono dal loro lavoro, e da redditi originarî o patrimoniali, i mezzi necessarî per soddisfare ai bisogní delle loro famiglie, offrono il tipo di quelle aziende nelle quali la ricchezza è originaria e derivata, in cui il reddito è misto, e cioè patrimoniale ed extra-patrimoniale.
Volendo classificare le aziende di erogazione, potremmo distinguerle, badando alle fonti del reddito in:
1. aziende in cui il reddito è soltanto originario, proveniente cioè da un fondo o stock;
2. aziende in cui il reddito è in gran parte originario e in parte derivato dal lavoro;
3. aziende in cui il reddito è soltanto derivato dal lavoro;
4. aziende in cui il reddito è originario e derivato da ricchezze altrui (contribuzioni, sussidî, elargizioni, ecc.), e da attività economica svolta dall'ente.
Al 1. e 2. gruppo appartengono le aziende patrimoniali-domestiche; al 3. gruppo le aziende domestiche; al 4. gruppo le aziende dello stato, dei comuni, delle provincie, dei sodalizî, ecc.
Nelle imprese in cui l'attività dell'ente, esclusivamente economica, è rivolta alla produzione indiretta o diretta di ricchezza, o alla produzione di servizî, gli scambî, le trasformazioni di ricchezza e i consumi a scopo produttivo costituiscono le caratteristiche principali di questa attività.
Produzione indiretta vuol dire, infatti, circolazione di ricchezza e cioè scambio. Il negoziante che importa caffè dal Brasile "trasforma, nello spazio, caffè del Brasile in caffè in Italia"; produce, in altre parole, indirettamente una merce che non abbiamo da noi, merce che venderà a scopo di guadagno a negozianti minori, i quali, alla loro volta, la venderanno, e sempre a scopo di guadagno, a negozianti al minuto. Questi ultimi infine venderanno, sempre a scopo di lucro, il caffè ai consumatori, che se ne serviranno per i bisogni di casa, e lo consumeranno. Il primo negoziante produce indirettamente il caffè acquistandolo; egli effettua un primo scambio, in quanto dà denaro e riceve caffè. Con la vendita effettua un secondo scambio; dà caffè e riceve denaro, e due scambî rispettivamente effettuano il secondo e il terzo negoziante. Il consumatore effettua uno scambio nell'acquisto o provvista che fa del caffè, perché dà denaro e riceve caffè, ma, come abbiamo notato, effettua un consumo dopo l'acquisto, perché si serve del caffè per i bisogni di casa. Produzione diretta, significa industria, e cioè trasformazione materiale di ricchezza allo scopo di ottenere nuovi beni economici, atti a soddisfare bisogni. Il fabbricante che produce dati oggetti, si serve di macchine e attrezzi, paga gli operai, consuma materie prime, principali e secondarie (olio, carbone, grassi), sostiene spese, ecc.; e ottiene quegli oggetti che sono necessarî per i bisogni umani. Gli oggetti ottenuti, o vengono venduti a coloro che ne hanno bisogno, passando direttamente in un'azienda di erogazione, o vengono venduti a negozianti, dai quali, indirettamente, attraverso negozianti intermediarî, passeranno, in ultimo, ad aziende di erogazione. Anche le aziende di produzione diretta sono quindi di scambio. Esse, infatti, non solo sono aziende di carattere tecnico, in quanto producono, mediante trasformazione materiale di beni, nuovi beni, ma sono anche aziende di scambio, in quanto vendono, a scopo di lucro, i beni prodotti. Con la vendita anzi di questi beni, tendono a raggiungere il loro fine economico, e cioè il lucro o guadagno. Produzione di servizî a scopo di lucro vuol dire consumo di ricchezza per il compimento di servizî necessarî ad altri enti. Il lucro si consegue nella differenza fra quanto l'ente ricava dai servizî che presta e quanto questi servizî gli costano. Sono imprese di servizî le società di trasporto (ferroviarie, di navigazione, ecc.), quelle di assicurazione, di costruzioni, le imprese tipografiche editrici e librarie, quelle teatrali, ecc. Al pari delle aziende di erogazione, il guadagno (reddito) conseguito dalle imprese è sempre destinato al consumo, e la quota del reddito che non viene consumata diventa capitale. Questa quota si può accantonare per far fronte a perdite che potessero verificarsi in avvenire, a tutela o salvaguardia del capitale, e si suole accantonare nelle imprese sociali, e specialmente anonime. Tale quota resta capitale sino a quando non vi si ricorra per fronteggiare le eventuali perdite.
Volendo classificare le imprese, si può aver riguardo alla loro attività caratteristica, distinguendole in:
1. imprese di scambio, nel quale gruppo si comprendono principalmente le aziende mercantili e quelle bancarie;
2. imprese di trasformazione o industriali, nel quale gruppo si possono considerare le fabbriche, le manifatture e le industrie. Si possono anche comprendere nel gruppo le aziende agrarie, sebbene non siano imprese, ma aziende di produzione;
3. imprese di servizî, nel quale gruppo si possono collocare le imprese di trasporti, di assicurazione, di mediazione, le imprese editrici, tipografiche e librarie, le teatrali, quelle di forniture, ecc.
Le aziende tutte si possono, come abbiamo detto più sopra, considerare sotto aspetti diversi. Badando agli organi volitivi e direttivi loro, possono essere indipendenti o autonome, oppure dipendenti, secondo che l'organo volitivo è anche organo direttivo, oppure i due organi sono persone diverse. Sono indipendenti quindi tutte le aziende nelle quali il proprietario è anche amministratore; dipendenti, tutte le aziende pubbliche.
Badando al loro subietto giuridico, le aziende possono distinguersi in private e pubbliche.
Sono private le aziende nelle quali il subietto capace di diritto è una persona naturale, e anche quelle aziende nelle quali la ricchezza, elemento oggettivo di esse, appartiene a un'unione di persone liberamente associate e che possono dividersi, salvo il soddisfacimento dei diritti dei terzi. Sono private, quindi, non soltanto le aziende domestiche, le aziende del negoziante, del banchiere, dell'industriale, ma anche le aziende di società commerciali. Possiamo dire che l'azienda è privata se l'ente è privato. È privata l'azienda della Banca d'Italia, che è una società anonima, pur essendo concessionaria del servizio di emissione di biglietti a corso legale e del servizio del tesoro per conto dello stato: sono private le aziende di quelle società ferroviarie e di navigazione che, per concessione dello stato, esercitano servizî pubblici.
Si chiamano pubbliche le aziende il cui soggetto è un ente morale riconosciuto e vincolato da pubbliche leggi. Sono tali: le aziende dello stato, dei comuni, delle provincie, degl'istituti di assistenza e beneficenza, dei consigli provinciali dell'economia; e sono del pari pubbliche le aziende del Banco di Napoli, di quello di Sicilia, della Cassa di risparmio lombarda, dell'Istituto nazionale delle assicurazioni, ecc., perché pubblici sono questi enti. Le aziende private possono essere individuali e collettive, secondo che la loro ricchezza appartiene a una o a più persone. Le aziende collettive possono essere aziende di sodalizî (associazioni operaie, società di mutuo soccorso, circoli, collegi), oppure aziende sociali.
Le aziende private sono civili e commerciali, secondo che, rispetto all'esercizio dei diritti patrimoniali, soggiacciono al codice civile soltanto, oppure anche a quello commerciale. Le aziende pubbliche, rispetto all'origine dell'ente, si possono dividere in aziende di corporazioni (universitates personarum) e aziende di ondazioni (universitates bonorum). Sono corporazioni pubbliche: lo stato, la provincia, il comune, ecc.; sono fondazioni: gl'istituti di assistenza e beneficenza, gl'istituti di scienze, lettere e arti, le fondazioni ecclesiastiche, ecc.
Avuto riguardo infine al lavoro amministrativo, l'azienda può essere indivisa o divisa, secondo che questo lavoro si esplichi in uno o più luoghi. Nelle aziende divise l'intera azienda risulta dall'insieme di aziende parziali e distinte; di aziende cioè che, considerate isolatamente, hanno vita propria e in molti punti autonoma, pur essendo sottoposte, per quanto riguarda l'indirizzo generale, alla dipendenza di coloro che sono alla direzione dell'azienda intera. Si dice centrale o principale l'azienda che sta a capo di tutte, e si chiamano filiali, subalterne, sedi, succursali, agenzie, le altre. È azienda divisa al massimo grado quella dello stato, e sono aziende divise quella della Banca d'Italia, del Banco di Napoli, ecc.
L'azienda però può essere divisa anche se l'ente è indiviso. I comuni sono enti indivisi; ma nei comuni, per esempio, che municipalizzano alcuni servizî (tram, luce elettrica, gas, ecc.), l'azienda dell'ente è divisa. Le aziende municipalizzate, come anche si chiamano, costituiscono distinte organizzazioni di persone e di beni, e sono rami o branche di produzione dell'azienda comunale. I redditi netti che il comune ottiene da questi servizî costituiscono entrate effettive nel bilancio, e sono destinati, insieme con le altre entrate effettive, al soddisfacimento dei bisogni della collettività. Si considera un'impresa divisa. Le varie subalterne e la centrale possono attendere tutte allo stesso genere di operazioni, come nel caso d'imprese bancarie, oppure attendere a operazioni diverse. La sede o amministrazione centrale d'un grande stabilimento industriale può curare, per esempio, la fabbricazione di determinati prodotti, e le varie subalterne possono curarne la vendita. In qualunque modo però si svolga l'attività di queste varie aziende, si verificheranno in esse, accanto alle operazioni che ciascuna compie e con le quali entra in relazione con i terzi (operazioni esterne), delle operazioni che si dicono interne, in quanto si svolgono fra la centrale e le subalterne, e fra le subalterne soltanto, dietro ordine sempre della centrale. Queste operazioni riguardano le trasmissioni di titoli, valori e denaro fra le varie aziende, riscossioni, pagamenti e passaggi di crediti e di debiti, fra la centrale e le subalterne e fra le subalterne soltanto. Queste operazioni interne, che non apparirebbero se l'azienda fosse indivisa, considerate subiettivamente alle singole aziende, si risolvono in aumento o in diminuzione della dotazione netta assegnata a ciascuna subalterna.
Se una succursale di banca paga un assegno circolare emesso da una consorella, diminuiscono le attività per il denaro che paga, mentre l'emissione dell'assegno costituisce un aumento di attività per la succursale che ne ha riscosso l'importo. Posto che si vogliano rappresentare con un conto, i ricevimenti, le trasmissioni di valori, e, in generale, tutti i movimenti interni che si verificassero presso una subalterna, questo conto dovrà considerare, da un lato e come aumento della dotazione netta o capitale netto della subalterna, tutti i fondi e i valori che questa subalterna riceve, tutti i crediti che riscuote per conto delle succursali e della centrale e tutti i debiti che addossa a questa centrale e alle consorelle. E dovrà considerare dall'altro lato, e come diminuzione della sua dotazione netta, tutti i valori e fondi che trasmette dietro ordine della centrale a questa centrale o a subalterne: tutte le somme che paga per conto delle aziende suddette e tutte le passività che queste aziende addossano a essa subalterna.
Bibl.: F. Besta, Ragioneria, I, Milano 1909; V. Alfieri, Ragioneria generale, Roma 1907; V. Vianello, Istituzioni di ragioneria generale, 5ª ed., Milano 1928; F. De Gobbis, Corso teorico pratico di ragioneria generale, 8ª ed., Roma 1918; B. Lorusso, Nozioni di ragioneria generale, Bari 1922-1924; G. Cova, Compendio di ragioneria applicata alle aziende pubbliche, 2ª ed., Milano 1926; C. Bellini, Trattato di ragioneria applicata alle aziende, 7ª ed., Milano 1918. Fra gli studiosi più noti si occuparono in passato dell'azienda: G. Cerboni, G. Rossi e M. Riva in numerose pubblicazioni sulla ragioneria scientifica, ecc. Sulle diverse aziende parlano, in generale, tutti i lavori di ragioneria applicata. Fra gli stranieri: C. Wallace Collins, The Branch Banking question, New York 1926; P. Taggart, Branch accounts, Londra 1921; M. Göbbels, Der Filialbetrieb der deutschen Kreditbanken, Berlino 1923.
Diritto. - Il concetto di azienda commerciale, che nel linguaggio comune viene riferito al complesso organico dei beni che l'imprenditore destina all'esercizio della sua impresa, è assai tormentato nel suo significato tecnico-giuridico. Le varie definizioni proposte per l'azienda risentono delle varie concezioni che gli scrittori hanno in proposito. Essa è, per taluno, il complesso delle cose e delle persone che l'autore usa per il compimento del suo lavoro, cioè l'organizzazione di tutto ciò che serve all'industria o al commercio, in quanto faccia capo a un imprenditore organizzatore; per altri, in un significato ampio e generale, il complesso delle forze produttrici e dei beni, indirizzato a un dato esercizio commerciale, ma, in senso proprio e specifico, un tutto organico di norme amministrative regolatrici di un complesso di beni tenuto insieme per uno scopo; per altri essa sarebbe il centro del commercio organizzato; per altri ancora, essa è un patrimonio, più o meno separato dal restante patrimonio del titolare, a volte soggettivato, in cui l'autonomia giuridica è manifestazione e modo d'essere della stessa indipendenza economica che qualifica l'azienda di fronte al residuo patrimonio del titolare (dottrina prevalentemente tedesca), a volte separato, ma non soggettivato, per quanto destinato a uno scopo suo proprio, quasi peculio speciale a scopo commerciale (Handelszweckvermögen), in cui l'organizzazione degli elementi patrimoniali e la separazione del loro complesso non basta tuttavia a creare nel patrimonio organizzato la capacità d'essere soggetto di diritto; per altri, infine, essa non è né un soggetto, né una cosa, ma la combinazione dei fattori della produzione, e giuridicamente ha la natura d'un accordo, d'un negozio giuridico complesso, inteso questo - a differenza del contratto - quale unione di volontà guidate dal medesimo interesse e tendenti al medesimo scopo.
La varietà delle concezioni non potrebbe essere più sconcertante. E forse non ha esagerato L. Ferrara affermando che il concetto di azienda rappresenta il concetto più complesso, più indeciso e più tormentato nel campo del diritto commerciale.
La dottrina dell'Endemann per la quale l'azienda sarebbe una persona giuridica, dottrina screditata e ormai abbandonata, faceva rientrare fra gli elementi costitutivi dell'azienda non soltanto i beni materiali, la clientela e il lavoro dei collaboratori, ma anche la stessa attività personale del titolare: il titolare non è, secondo codesta teoria, proprietario di quei beni materiali, creditore di quell'attività personale dei proprî collaboratori, e comunque interessato a conservare e a sviluppare, nel suo esclusivo interesse, quella clientela, ma è il gerente dell'azienda, è la persona attraverso la quale l'azienda crea i suoi rapporti con i terzi, è il primo commesso dell'azienda: la ditta individuerebbe l'azienda, il domicilio si riferirebbe a questa, che sarebbe destinataria del credito e delle azioni giudiziarie. Così si spiegherebbe che la vita del titolare è indifferente alla vita dell'azienda, la quale sarà, alla morte del titolare, rappresentata dal titolare nuovo. Così si spiegherebbe che i debiti dell'azienda interessano il titolare attuale, anche se essi siano sorti nei confronti di titolari precedenti. Ma da ciò dovrebbe ancora derivare che, essendo verso i terzi responsabile l'azienda e non già in proprio il titolare, la garanzia dei terzi sarebbe limitata al patrimonio aziendale. Ciò è insostenibile di fronte alle precise disposizioni degli articoli 1948 e 1949 del nostro codice civile, i quali, attraverso il sistema del nostro diritto fallimentare, fondato sul principio del fallimento del commerciante e non dell'azienda, non consentono di considerare come autonomo, in sede fallimentare, il patrimonio aziendale. La teoria dell'azienda quale soggetto giuridico è dunque, nel nostro diritto positivo, insostenibile.
Ma l'osservazione testé fatta sulla base degli articoli 1948 e 1949 del cod. civ., mostra insostenibile anche la tesi della destinazione del patrimonio: questa tesi non avrebbe altro pregio, di fronte alla precedente, che quello di evitare la conseguenza estrema, ma forse inevitabile, del riconoscimento nel patrimonio d'una personalità giuridica; ma non si sottrarrebbe alla critica fondata sull'osservazione della necessaria confusione del patrimonio aziendale col residuo patrimonio del titolare, allorché si dovesse commisurare l'entità concreta della garanzia dei creditori. E poco varrebbe dire che, secondo questa teoria, lo scopo unico è il legame che avvince i varî elementi dell'azienda: questa teoria riproduce, in sostanza, la teoria della personalità, e solo si rifiuta di dare all'azienda il nome di persona giuridica.
Ma può l'azienda considerarsi come un patrimonio separato, destinato o no a uno scopo, individuato o no da questo scopo? Chi si pone la domanda in tali termini parte dal presupposto che l'azienda sia una cosa, e pone il problema sull'individualità distinta che tale cosa assume nel patrimonio del titolare. Si accentrano pertanto sotto codesto rispetto tutte le teorie che da un canto negano all'azienda la personalità, dall'altro quelle che la considerano come oggetto possibile di rapporti giuridici, salvo poi a distinguersi e a contrapporsi nel considerare, le une, l'individualità distinta del patrimonio aziendale; nel negare, le altre, tale distinzione; nel riconoscere, talune, all'azienda i caratteri dell'universitas facti, tali altre, quelli dell'universitas iuris, qualche altra ancora, quelli dell'universitas iurium; nell'ammettere, alcune, la possibilità di rapporti (o di negozî) riferentisi all'azienda come tale; nel limitare, altre, infine, i casi dei rapporti (o dei negozî) che siano capaci di riferirsi all'azienda considerata come res individua.
La tesi del patrimonio separato è oramai ripudiata. Il diritto concorsuale comune distingueva tra concorso generale e concorso particolare, secondo che l'intero patrimonio della persona era devoluto a tutti i creditori, o invece una parte di esso a una categoria determinata di creditori. E però i commercialisti di un tempo potevano considerare l'azienda come patrimonio separato. D'altra parte, il benefizio della separazione delle negoziazioni mercantili fra loro distinte, pur se esercitate nel medesimo tempo dalla medesima persona, creava appunto una pluralità di aziende, che non soltanto si distinguevano per l'organizzazione tecnica, o per il genere del commercio, o eventualmente per la sede, ma anche e principalmente per la responsabilità cui davan luogo. Ma nel diritto moderno "ogni patrimonio ha una persona e ogni persona ha (soltanto) un patrimonio. Finché i beni appartengono a una stessa persona, non formano che un complesso unico". Tale inscindibile unità risulta, nel nostro diritto positivo, dalle norme per le quali tutti i beni del debitore, presenti e futuri, costituiscono garanzia comune di tutti i creditori, da quelle per le quali la successione ereditaria ha per oggetto l'universum ius del de cuius, e da quelle per le quali il patrimonio del commercìante fallito viene liquidato in blocco tra i creditori di lui.
Il criterio che qui viene enunciato, per il quale l'azienda non costituisce patrimonio separato, implica e presuppone una questione pregiudiziale, per la quale non sarebbero possibili in nessun caso patrimonî separati in una stessa persona. Ma tale pregiudiziale, in tali termini assoluti, è ostacolata dalla considerazione del caso di patrimonî, la cui separazione dal restante patrimonio del titolare sembrerebbe difficile negare. Alcuni considerano come tali, oltre l'azienda commerciale, anche l'eredità, la dote, la comunione tra coniugi e la quota del socio nelle società civili. Essi ritengono che l'unità sia determinata dalla destinazione speciale. Ma la destinazione speciale non è sufficiente a determinare l'unità e la separazione: e però l'elencazione riferita sembra troppo ampia. Il criterio invece su cui può e deve fondarsi la separazione del patrimonio è quello della separazione delle responsabilità. Se dunque è patrimonio separato quello che ha debiti proprî e "che non risente gli effetti di obblighi diversi del soggetto del patrimonio" si deve riconoscere tale carattere solo a patrimonî che dalla legge vengono tenuti separati, sicché la personalità. del titolare appare, per disposizione di legge, come scissa in relazione ai patrimonî ai quali si riferisce; tale carattere pertanto si deve riconoscere all'eredità, che, se viene accettata col beneficio d'inventario, resta separata dal residuo patrimonio dell'erede; si può riconoscere il carattere di patrimonio separato alla massa attiva fallimentare, in quanto su di essa non influiscono né i diritti e i crediti che rappresentano il patrimonio del quale il fallito non è spossessato e ch'egli amministra pur durante la liquidazione fallimentare (art. 699 cod. comm.), né le obbligazioni successive che il fallito crea (art. 707 cod. comm.), la cui responsabilità si esaurisce sul patrimonio disponibile di lui; ma non si può riconoscere tal carattere alla dote, che, pur costituita con separazione di responsabilità da un nucleo di beni vincolato da una comune destinazione, si confonde col patrimonio residuo della donna dotata, in quanto le obbligazioni dipendenti da ragioni dotali possono dar luogo a esecuzione su beni parafernali; né si può tale carattere riconoscere all'azienda, perché i creditori del titolare dell'azienda, i cui crediti siano sorti in occasione d'attività commerciale, hanno a loro garanzia non soltanto il patrimonio aziendale, ma tutto il patrimonio del debitore, così come nel passivo fallimentare s'insinuano, insieme con i creditori per causa di commercio, anche i creditori civili del fallito. L'opinione contraria confonde il carattere unitario dell'azienda, come organismo economico, con un preteso carattere unitario dell'azienda, come organismo giuridico.
Se non dunque patrimonio separato, può l'azienda considerarsi un elemento del patrimonio del titolare, una res patrimoniale? La risposta è pressoché unanimemente affermativa, salvo a determinare la natura giuridica sua, cioè se di universitas facti, o di universitas iuris. Solo taluno nega che l'azienda abbia natura di cosa, e le attribuisce invece natura di negozio: l'azienda sarebbe la combinazione dei fattori della produzione, e tale combinazione consisterebbe nell'unione coordinata e razionale dei fattori della produzione sotto la direzione e la responsabilità dell'imprenditore: la combinazione sarebbe attuata mediante una serie di convenzioni, di diversa natura, la cui funzione s'integrerebbe nella creazione d'un negozio complesso (negozio aziendale); l'azienda sarebbe l'integrazione di codeste convenzioni, e sarebbe pertanto un negozio giuridico complesso. Ma, così concepita l'azienda, non riesce facile l'analisi dei rapporti di cui l'azienda può essere direttamente o indirettamente oggetto (secondo la vecchia terminologia, oggetto immediato o oggetto mediato). E allora la teoria si completa, ammettendo che, se l'azienda appare per i rapporti interni quale negozio complesso, d'altro lato, per i rapporti esterni, essa appare quale diritto dell'imprenditore, risultante dai rapporti costituiti tra i fattori della produzione e connessi l'un l'altro dal negozio aziendale. Tale nuova impostazione del concetto di azienda, peraltro, non è riuscita a scuotere la dottrina tradizionale, che nell'azienda vede una res appartenente al patrimonio del titolare. Il problema viene infatti affrontato dal Carrara come un problema di origine: ma l'origine può essere insufficiente a spiegare la natura. Il fatto che l'azienda tragga origine da accordi tra imprenditori e collaboratori o tra imprenditore e finanziatori, né esaurisce l'indagine circa gli elementi costitutivi dell'azienda, né tanto meno significa che l'azienda sia il complesso di tali accordi; ciascuno di tali accordi sta a sé, ha vita propria, se pure nella sua valutazione soggettiva l'imprenditore colleghi ciascuno di essi agli altri con vincoli quasi d'interdipendenza. Ma il complesso di tali accordi, a tacere d'altre osservazioni che si oppongono sotto il rispetto giuridico all'accoglimento della teoria, non è sufficiente a integrare il concetto di azienda, che nei suoi elementi costitutivi è rappresentata non soltanto dagli obblighi e dalle pretese sorgenti dal negozio aziendale, ma è anche e principalmente costituita dai beni materiali che il titolare destina stabilmente o temporaneamente all'impianto, allo sviluppo, all'esercizio dell'azienda, e all'avviamento medesimo di essa. È prevalente dunque, e più autorevole, l'opinione che nell'azienda vede una cosa appartenente al patrimonio del titolare.
La dottrina dominante la considera quale universitas facti e non quale universitas iuris. Ma il riferire l'azienda all'uno o all'altro dei tipi classici delle universitates presuppone che si sia ben determinato il concetto dell'uno e dell'altro tipo: e non c'è dunque da meravigliarsi se, discutendo sopra i caratteri per i quali l'universalità di fatto si distingue dall'universalità di diritto, ne derivi che taluno collochi l'azienda nelle universalità di fatto, tal altro nelle universalità di diritto, pur consentendo sopra gli elementi costitutivi e distintivi dell'azienda. Ora è innegabile che i più comuni esempî di res ex distantibus (dote, peculio, eredità, gregge) possono aggrupparsi secondo l'elemento dell'omogeneità o dell'eterogeneità delle cose singole componenti il tutto: ma non è tale elemento quello che distingue le universitates iuris dalle universitates facti. Se universitas iuris è questo o quel patrimonio, considerato nella sua unità, nella sua inscindibilità e nella sua autonomia "delimitante una sfera speciale di rapporti e di garanzia", e se l'universitas facti è un mero aggregato di cose, considerato nella sua unità fin quando una volontà umana vuole attribuirgli e conservargli tale carattere unitario, ma scindibile quando la medesima volontà umana vuole distruggere tale carattere unitario, l'azienda rientra senz'altro nel tipo delle universitates facti. Gli annotatori alla traduzione italiana del Diritto delle Pandette del Windscheid hanno sostenuto per l'azienda la tesi dell'universitas iuris, in quanto pongono i caratteri dell'universitas facti nella corporalità, nell'omogeneità e nella mobilità delle cose singole costituenti l'universalità. Il Laurent e il Lèbre aderiscono alla tesi dell'universalità di fatto, ma per una circostanza tutta estrinseca e quantitativa: il primo, perché considera che l'azienda è costituita principalmente da merci e da altre cose corporali; il secondo, perché l'azienda non è costituita soltanto da cose incorporali.
Non ci sembra che l'autonomia dell'azienda, di cui sia titolare una società commerciale, sia di ostacolo alla tesi dell'universalità di fatto, perché quell'autonomia non è già manifestazione della natura dell'azienda, ma è manifestazione della personalità giuridica della società commerciale, il cui patrimonio è distinto dal patrimonio personale dei soci; l'azienda sociale cioè non è patrimonio separato di un titolare, che abbia altri patrimonî e autonomi di fronte a quello, ma è tutto il patrimonio della società, e, come patrimonio, è necessariamente separato dai patrimonî di altri soggetti di diritto.
L'azienda commerciale è dunque un complesso organismo economico attraverso il quale si esplica l'attività commerciale del suo titolare. "La sua esistenza e il suo contenuto dipendono dalla volontà di chi ne è proprietario, e si deve metter capo a questa volontà per determinare quali sono gli elementi che la compongono, quando essa forma oggetto di negozî giuridici" (Vivante).
Gli elementi pertanto costitutivi dell'azienda non sono in maniera tassativa elencabili: né nel momento in cui si considera la azienda come oggetto della proprietà del commerciante, né tanto meno nel momento in cui si considera l'azienda come oggetto (immediato o mediato) del diritto di persona diversa dal proprietario, né meno ancora nel momento in cui la si considera negli effetti che di fronte ai terzi possono produrre contratti che, relativamente all'azienda, stipulano il proprietario e un suo contraente. Si considerano d'ordinario gli elementi dell'azienda come costituenti due gruppi separati: l'attivo e il passivo. In ciò l'azienda riappare come un patrimonio, che è caratteristicamente costituito da elementi attivi e da elementi passivi: ma non perciò risorge la questione se sia autonomo o no tale patrimonio. Costituiscono l'attivo, secondo le più correnti opinioni, le cose corporali (merci, immobili, numerario, documenti, macchinarî, ecc.), i diritti (alla ditta, all'insegna, al marchio, alle prestazioni, ecc.), l'avviamento, cioè l'aspettativa di lucri futuri, fondati tanto su quegli stessi elementi che hanno determinati i lucri precedenti, quanto sul fatto stesso di tali precedenti lucri che influiscono, per il loro ammontare e per la loro regolarità, sulla previsione di lucri futuri. Costituiscono il passivo i debiti che hanno causa commerciale.
Circa il concetto d'avviamento si discute ancora vivamente tra gli scrittori: perché, mentre per l'opinione più comune, l'avviamento rientra tra gli elementi costitutivi dell'attivo aziendale, per altri (Carnelutti) esso è solo "una qualità", "un modo d'essere" dell'azienda. Veramente anche il Vivante, pur ritenendo l'avviamento un elemento dell'azienda, e anzi l'elemento essenziale, riconosce che esso non ha una vita propria e autonoma, perché questa è concepibile solo in connessione a un'azienda materialmente costituita. Ma per il Carnelutti l'avviamento è la spinta stessa che il titolare dell'azienda ha saputo dare, col suo lavoro di direzione e di coordinazione, all'organismo da lui creato, sicché l'azienda avviata non ha ulteriormente quel bisogno del lavoro dell'autore, di cui ha bisogno invece l'azienda non avviata: ecco perché l'avviamento ha un valore suo, ed ecco perché l'azienda può essere ceduta, senza che la sostituzione della persona del titolare la danneggi, se il successore sa continuare con i sistemi dell'autore, e se sa dissimularsi sotto il nome di lui, che sarà divenuto intanto il nome dell'azienda avviata. Proprio in codesta sua qualità l'azienda sarebbe esposta alla concorrenza sleale, la quale si presenta infatti o nella forma dello storno del personale o in quella della denigrazione del prodotto, o in quella dell'appropriazione del segreto di fabbrica, o in quella della concorrenza per confusione: e perciò le norme repressive della concorrenza illecita avrebbero "per obbietto l'azienda considerata come universitas, non già i singoli elementi che la compongono". Un'azienda non avviata potrà essere esposta infatti alla concorrenza, ma non alla concorrenza illecita. La tesi è, come assai spesso le tesi carneluttiane, suggestiva: e si può ritenere praticamente rilevante l'influenza ch'essa eventualmente esercita per la soluzione di taluni problemi concreti (limiti tra denigrazione e diffamazione, tra confusione e contraffazione, ecc.).
La questione che fin qui si è svolta, se l'avviamento sia elemento o soltanto qualità dell'azienda, assume maggior rilievo nel momento in cui si considera l'azienda quale oggetto (mediato o immediato) del diritto di persona diversa dal titolare. L'azienda commerciale può essere trasmessa (per atti tra vivi o per atti mortis causa, e in questo caso può essere trasmessa in eredità o anche in legato); essa può costituire oggetto di usufrutto, può essere data in locazione, può essere sottoposta a pegno, può essere sequestrata: ecco una serie di rapporti che hanno per oggetto, direttamente o indirettamente, l'azienda. Come si atteggia in tali casi l'avviamento? Nei casi di trasmissione dell'azienda (vendita, cessione, donazione, successione ereditaria, successione per legato), perché possa parlarsi di trasmissione dell'azienda, è necessario che l'universitas, e non i singoli suoi elementi, venga in considerazione. Nell'ipotesi di successione ereditaria, che è la sola ipotesi di trasmissione a titolo universale, l'azienda è trasmessa come parte di quell'universum ius che è l'hereditas, e l'erede liberamente determinerà se continuare l'esercizio aziendale o liquidarne i varî elementi. Qui non sorgono conflitti né tra acquirente e trasmittente, né tra acquirente e terzi: la morte del trasmittente, la qualità ereditaria dell'acquirente, la confusione dei patrimonî escludono quei conflitti. Ma nell'ipotesi di trasmissione a titolo particolare, tanto se per atti tra vivi, quanto se per successione, possono sorgere conflitti sulla consistenza dell'azienda, cioè sull'entità qualitativa della cosa trasmessa, e i conflitti possono presentarsi tanto tra l'acquirente e il trasmittente (nel caso di trasmissione per atti tra vivi), quanto tra acquirente legatario ed eredi (nel caso di successione per legati): nell'uno e nell'altro caso poi di codesta seconda ipotesi, possono sorgere conflitti tra nuovo titolare e terzi sul terreno della concorrenza sleale. Che la trasmissione dell'azienda importi trasmissione di tutti gli elementi dell'attivo non c'è dubbio, ma la prima difficoltà è in questo: se l'avviamento non è da considerare un elemento costitutivo dell'azienda, potrebbe sembrare che l'avviamento non venga trasmesso, e, poiché la concorrenza sleale si concreta nell'attentato all'avviamento, non si potrebbe parlare di concorrenza sleale se l'avviamento non è stato trasmesso. Le ipotesi si concretano così: può il cedente dell'azienda costituire, nonostante la cessione, un'azienda nuova in concorrenza con quella ceduta? può l'erede del de cuius, nonostante il legato dell'azienda, costituire un'azienda in concorrenza? Per chi considera l'avviamento un elemento dell'azienda, la risposta negativa è intuitiva; la concorrenza priverebbe l'acquirente di una parte, e della parte fors'anche principale, della cosa acquistata. Ma la risposta dev'esser negativa anche per chi considera l'avviamento quale semplice qualità dell'azienda: poiché oggetto della trasmissione è stata l'azienda avviata, la concorrenza tenderebbe a mutare le qualifiche essenziali della cosa trasmessa, e implicherebbe, per il venditore che l'esercitasse, una responsabilità contrattuale, che autorizzerebbe l'acquirente o all'azione di risoluzione, o a quella per l'adempimento attraverso una domanda per la cessazione della concorrenza iniziata e per una condanna al risarcimento dei danni subiti.
La trasmissione dell'azienda importa, se non con il consenso pieno della dottrina, almeno per tolleranza larga della giurisprudenza, trasmissione della ditta, se la trasmissione dell'azienda avviene mortis causa; ma non importa trasmissione della ditta, se l'azienda vien trasmessa per atti inter vivos. La ditta, cioè, è intrasmissibile per atti tra vivi, non soltanto se la si consideri per sé stessa oggetto di trasferimento, ma anche se la si consideri elemento dell'azienda e si pensi d'acquistarla o di trasmetterla con questa. E tale esclusione si deve riconoscere non soltanto per il caso di silenzio del titolo, ma anche nel caso di patto traslativo espresso. Per il Vivante una convenzione diretta al trasferimento della ditta è nulla, tanto nei rapporti dei terzi quanto nei rapporti tra gli stessi contraenti; colui che continua l'azienda del suo predecessore, in virtù d'un titolo legittimo, può solo aggiungere al proprio nome il richiamo del rapporto di trasmissione. La giurisprudenza ha peraltro consentito che il successore a causa di morte continuasse l'esercizio sotto la ditta del de cuius, senza che nella ditta il successore aggiungesse il nome suo proprio: motivo della tolleranza sarebbero state, da un lato, consuetudini antiche nel commercio, dall'altro, le considerazioni che, mentre assai spesso il successore a causa di morte continua non solo nel nome, ma anche nel patrimonio del de cuius, la notorietà della trasmissione mortis causa basterebbe a informare i terzi della sostituzione del titolare dell'azienda. Si dovrebbe aggiungere che il sospetto di frode che può accompagnare la trasmissione della ditta per atti tra vivi (se si pensi alle questioni inerenti al passaggio dei debiti aziendali) manca nel caso di trasferimento mortis causa. Ma il Vivante invocava un provvedimento legislativo che obbligasse il successore, a qualsiasi titolo, a innestare il proprio nome su quello del suo dante causa (ove non avesse voluto fare la netta sostituzione): e il provvedimento sarà adottato dal nuovo codice di commercio (art. 17). Tale disposizione anzi ha indotto il Mossa a considerare che il nuovo legislatore italiano ha definitivamente condannata la teoria delle cosiddette ditte derivate, perché, con l'aggiunta della menzione del rapporto di trasmissione, la nuova ditta non è più quella dell'azienda trasmessa: il proposto art. 17 "non porta tanto ad ammettere la tradizione del nome commerciale, quanto invece un diritto proprio in chi acquista l'azienda a indicarsi successore dell'azienda stessa".
Ma la trasmissione dell'azienda opera anche trasmissione del passivo? La questione si deve esaminare nei rapporti tra trasmittente e acquirente, e nei rapporti tra terzi creditori da un lato, e trasmittente e acquirente dall'altro: ed è necessario distinguere il caso in cui risulti un accordo o comu̇nque una volontà validamente regolatrice di tali effetti, dal caso del silenzio. Nell'ipotesi in cui l'effetto del trapasso o non trapasso dei debiti sia espressamente disciplinato dal titolo, è opinione autorevole e prevalente (da Sraffa a Vivante), che si debba a ogni effetto osservare ciò che il titolare ha stabilito.
a) Se si è dichiarato di escludere dal trasferimento i debiti, ciò vale nei rapporti delle parti, perche la composizione aziendale dipende dalla volontà privata; e nei rapporti con i terzi, perché il negozio traslativo "che dovrebbe costituire il titolo del loro diritto non parla a favore" dei terzi creditori (Vivante, e, contro, Calamandrei); in tal caso, se può provarsi che la cessione dell'attivo sia stata voluta ed eseguita in frode dei creditori, questi avranno da sperimentare l'azione pauliana.
b) Se si è dichiarato d'includere nel trasferimento i debiti, ciò vale nei rapporti delle parti, ma non varrà nei rapporti dei terzi, se questi, e ciascuno libero per suo conto e indipendentetemente dalla condotta degli altri, non accetteranno come operativo a loro riguardo il patto interceduto tra cedente e cessionario: tutto ciò è conseguenza di quanto s'è detto prima, cioè che l'azienda nella sua composizione dipende dalla volontà privata, e che essa non costituisce un patrimonio separato; e però, come è possibile ch'essa venga trasferita come tale, pure escludendosene i debiti, così è possibile che un patto, che chiarisce essere trasferiti i debiti, non operi di fronte ai creditori, perché un accollo non è concepibile senza una dichiarazione di volontà del creditore. Ma se del trapasso dei debiti il titolo taccia, s'intenderanno trasferiti i debiti? La risposta prevalente è negativa, e si fonda sempre sulla considerazione che non esiste una disposizione di legge, che determini gli elementi costitutivi dell'azienda, e non esiste perciò una disposizione "che sanzioni la necessità del trapasso dei debiti nell'acquirente della azienda" (Sraffa).
L'azienda commerciale può esser data in locazione, in usufrutto; può essere sequestrata, può essere pignorata. Per quel che riguarda il sequestro e il pegno occorre notare che, presupponendo il sequestro (conservativo) e il pegno la natura mobiliare della cosa da sequestrare o pignorare, sarebbe da risolversi la questione pregiudiziale circa la mobiliarità o no dell'azienda. Se pure non solo all'effetto di riconoscerne o di negarne la capacità a formare oggetto di pegno, la questione del carattere mobiliare o del carattere immobiliare da attribuire all'azienda, è stata a lungo dibattuta: la tradizione italiana era per la natura immobiliare, la dottrina francese per la natura mobiliare. Per il Navarrini la questione non si può proporre e risolvere astrattamente, ma è necessario vedere di volta in volta come l'azienda sia composta. Ciò significa che, nel più gran numero di casi, l'azienda come tale non ha né natura mobiliare né natura immobiliare, ma è cosa mobile per la parte che rappresenta il complesso delle cose mobili, ed è cosa immobile per la parte che rappresenta il complesso delle cose immobili. Codesta conclusione influisce direttamente e inevitabilmente sulla disputa inerente alla sequestrabilità e alla pignorabilità dell'azienda, e determina gli effetti d'un sequestro o d'un pignoramento su di essa. La discussione si è svolta specialmente in Francia dove una legge speciale (1° marzo 1898) regolò espressamente il pegno dell'azienda. Ma quella legge fu riformata da una nuova legge (17 marzo 1909), che determina, tra l'altro, gli elementi aziendali suscettibili di pegno (clientela, insegna, nome, diritto al contratto di locazione, mobili, impianti, materiali, attrezzi e diritti di proprietà industriale: è tassativamente escluso che il pegno dell'azienda si estenda alle merci). In Italia manca ogni disposizione di legge al riguardo, e la questione è variamente risolta. Nel silenzio legislativo, il pegno dell'azienda è stato tuttavia ammesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana. Nel nuovo progetto del codice di commercio il pegno sull'azienda avrà anche in Italia il suo riconoscimento e la sua disciplina legislativa. Anche il progetto Vivante (art. 22) faceva menzione del pegno dell'azienda: ma il nuovo progetto con l'art. 494 detta una norma speciale sul nuovo istituto: essa pone solo i principî fondamentali relativi alla costituzione del pegno, e lascia impregiudicate le norme necessarie all'applicazione dei principî stessi (durata del pegno, rinnovazione, riduzione, ecc.). Tra quei principî fondamentali, capitale davvero è quello che afferma essenziale per l'esistenza del pegno, l'iscrizione del contratto di pegno nel registro del commercio del luogo dove ha sede l'azienda: e la relazione al progetto chiarisce che l'importanza della nuova disposizione sta in ciò, che l'iscrizione non ha effetto dichiarativo, ma effetto costitutivo: la mancata iscrizione ha, cioè, gli stessi effetti che nel pegno ordinario ha il mancato trasferimento del possesso della cosa data in pegno". E ciò chiarisce come, col sistema proposto, ci si discosti dai principî dominanti in materia di pegno (realità del contratto, e possesso della cosa necessario presso il creditore), per avvicinarci a quelli dominanti in materia d'ipoteca (necessità della convenzione per iscritto, pubblicità, possesso della cosa presso il debitore). Ma tali norme valgono per il caso che il pegno non si estenda alle merci. È ammesso, infine, il sequestro dell'azienda.
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