Abstract
Vengono esaminate le diverse azioni collettive inibitorie contemplate dall’ordinamento, con particolare attenzione alla loro natura, al loro oggetto, ai loro effetti.
1. Considerazioni introduttive
Già agli inizi del secolo scorso Enrico Redenti osservava problematicamente quanto fosse «periculosa» ogni definizione dei conflitti collettivi. C’era, nelle parole del Redenti, tutto l’imbarazzo di una scienza giuridica alle prese con i primi tentativi di formalizzazione di interessi ed esigenze la cui dimensione andava ben oltre i confini individuali; quei confini cari alla tradizione giusnaturalistica e ai quali l’esperienza giuridica pratica e teorica era abituata da tempo.
Nonostante i numerosi anni trascorsi, se oggi si riflette su quale collocazione abbia la tutela collettiva all’interno del sistema, si percepiscono ancora i residui di quell’alone di indeterminatezza che avvolgeva sin dalle origini la materia.
Le ragioni di questo stato di cose sono in estrema sintesi due.
In primo luogo, sul piano sostanziale, è apparso assai difficoltoso definire la natura della situazione giuridica soggettiva tutelata, ovvero comprendere come debbano essere qualificati gli interessi sovraindividuali nel loro confronto con le tradizionali categorie civilistiche.
In secondo luogo, sul piano processuale, il problema è stato quello – ancora in gran parte irrisolto – di adattare taluni istituti tradizionali del processo civile a controversie di natura collettiva, posto che il legislatore, anziché disciplinare un unico giudizio collettivo a carattere generale, ha preferito introdurre diversi rimedi collettivi in altrettanto diversi settori dell’ordinamento; e nel far questo si è sovente limitato a delineare solamente il novero dei legittimati ad agire, la condotta lesiva degli interessi tutelati e il profilo rimediale della tutela apprestata.
Ancor oggi, dunque, la sistemazione di questa complessa materia impone di procede con cautela, precisando, da un lato, le diverse nozioni di interesse collettivo elaborate nel nostro ordinamento e, dall’altro, le diverse tipologie di giudizio collettivo che con un certo sforzo possono essere individuate su di un piano generale.
2. L’interesse collettivo
All’interno dell’ampia categoria degli interessi a carattere sovraindividuale, si suole distinguere tra gli interessi collettivi e gli interessi diffusi.
Gli interessi diffusi sarebbero costituiti da interessi «adespoti», non riferibili ad un soggetto determinato e dunque privi di un proprio portatore (Giannini, M.S., La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, 23 ss.); interessi – come efficacemente detto – «senza struttura» (Berti, G., Interessi senza struttura (i c.d. interessi diffusi), in Studi in onore di A. Amorth, I, Milano, 1982, 67 ss.). Gli interessi collettivi, invece, sarebbero costituiti da interessi ugualmente a carattere sovraindividuale, ma distinguibili da quelli diffusi in virtù di un criterio soggettivo di discernimento (ad esempio la presenza di un ente esponenziale) o, secondo altri, alla luce dell’applicazione di un criterio di natura oggettiva (ad esempio la possibilità di delimitare entro confini più ristretti e chiari la cerchia, il gruppo degli interessati).
A ben vedere, peraltro, tale distinzione ha un fondamento puramente storico-culturale ed in ogni caso ha senso solo all’interno della sistematica del processo amministrativo; pesantemente condizionato – come è noto – dalla figura dell’interesse legittimo. In ambito civile, invece, tale contrapposizione non ha ragion d’essere ed è possibile più semplicemente parlare di interessi collettivi.
In questa prospettiva, allora, è più utile distinguere tra le concezioni che ritengono che gli interessi collettivi debbano essere riferiti ai soggetti che appartengono al gruppo di riferimento e la diversa impostazione che apprezza l’interesse nella sua dimensione dispersiva, per così dire anti-individuale, a-soggettiva e dunque più propriamente oggettiva.
Nella prima lettura l’interesse collettivo va definito come l’insieme di interessi individuali compatibili e concorrenti, ovvero un insieme di interessi che hanno uguale contenuto e che possono essere soddisfatti simultaneamente.
Nella seconda lettura, invece, reciso il legame che intercorre tra interesse e singolo, si afferma sovente – sebbene senza alcun tentativo di dimostrazione – che l’interesse collettivo è ontologicamente distinto da quelli individuali; l’interesse collettivo viene in altri casi definito come la sintesi e non la somma degli interessi individuali; c’è anche, infine, chi addirittura afferma che l’interesse collettivo è superiore rispetto all’individuale (per osservazioni critiche ed ulteriori indicazioni, v. Donzelli, R., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008, 158 ss., 255 ss.).
3. L’azione collettiva in generale e quella inibitoria in particolare
L’azione collettiva può essere definita come l’azione con la quale si deduce in giudizio una controversia di dimensione non individuale, ma collettiva.
Ovviamente tale definizione è molto generica, tuttavia un’ulteriore specificazione dipende dalla particolare opzione di politica del diritto seguita all’interno di un certo ordinamento.
Muovendosi in una prospettiva generale, le due principali forme di tutela giurisdizionale collettiva sono quella inibitoria e quella risarcitoria.
Nel primo caso, l’ordinamento predispone azioni giudiziali propriamente a tutela di interessi collettivi, in quanto la tutela giurisdizionale interviene per garantire l’osservanza e l’attuazione di obblighi sostanziali a tutela di collettività indifferenziate.
Nel secondo, invece, la tutela collettiva appare sovente come una tutela cumulativa con la quale ricevono protezione un insieme di diritti soggettivi sorti come conseguenza di un illecito plurioffensivo.
I due fenomeni, descritti ora separatamente, sono in realtà spesso intensamente legati l’un con l’altro. Si pensi al caso in cui non sia osservato il divieto di commercializzazione di prodotti difettosi. L’obbligo di astensione ora indicato è posto a tutela della collettività dei consumatori che operano nel mercato. La violazione della norma, dunque, produce un’immediata ed indifferenziata lesione degli interessi dei consumatori, che giustifica il ricorso al giudice per ottenere un ordine inibitorio che abbia la funzione di accertare e chiarire per il futuro i comportamenti contrari alla norma.
La condotta illecita può, peraltro, aver prodotto taluni effetti che giustificano una tutela tesa anche al ripristino della situazione precedente o addirittura a compensare eventuali danni subiti, come avviene nel caso in cui tale condotta illecita sia entrata in diretto contatto con le sfere giuridiche proprie di taluni e specifici consumatori, arrecando loro un pregiudizio ingiusto.
4. Il quadro normativo
Svolte le necessarie premesse, veniamo ad una sintesi del quadro normativo.
Nel nostro ordinamento, le principali azioni collettive inibitorie sono previste: dall’art. 2601 c.c. in materia di repressione della condotta sleale; dall’art. 28 st. lav. in materia di repressione della condotta antisindacale; dall’art. 37, d.lgs. n. 206/2005, Codice del consumo, in materia di condizioni generali di contratto abusive; dagli artt. 139-140 c. cons. in materia di tutela degli interessi collettivi dei consumatori; dall’art. 37, d.lgs. n. 198/2006, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, che ha ripreso la precedente disciplina prevista dall’art. 4, l. n. 125/1991 sulle azioni positive; dall’art. 55 septies, d.lgs. n. 198/2006, ancora in materia di discriminazioni uomo-donna; dall’art. 4, co. 10, d.lgs. n. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione, in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi; dall’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 215/2003, in materia di discriminazione per motivi razziali e di origine etnica; dall’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 216/2003, in materia di discriminazione per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento religioso; dall’art. 4, co. 3, l. n. 67/2006, in materia di discriminazione dei disabili.
È dubbio se sia ammissibile un’azione collettiva inibitoria atipica. Il problema è particolarmente avvertito in materia ambientale, in cui il d.lgs. n. 152/2006 ha gravemente ridotto i rimedi a disposizione dei soggetti privati individuali e collettivi (cfr. Donzelli, R., op. cit., 746 ss.).
Va, infine, segnalato che l’art. 4, co. 1, l. 11.11.2011, n. 180, recante norme per la tutela della libertà d’impresa, prevede espressamente che «le associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, di seguito denominate “camere di commercio”, ovvero nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e le loro articolazioni territoriali e di categoria sono legittimate a proporre azioni in giudizio sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti».
5. I legittimati ad agire
Il tema della determinazione dei legittimati ad agire per la tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali è da sempre tra i più controversi e su di esso influisce ovviamente la disciplina positiva di volta in volta apprestata, nonché la nozione di interesse collettivo che si desideri accogliere.
La soluzione legale prevista nelle disposizioni poc’anzi indicate è costituita dall’attribuire il potere di azione ad enti ritenuti esponenziali dell’interesse protetto sulla base di una valutazione amministrativa che preesiste al processo oppure sulla base di un apprezzamento riservato al giudice: le associazioni professionali nell’art. 2601 c.c.; gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali nell’art. 28 dello Statuto; le associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale ed inserite nell’elenco ex art. 137 c. cons. nelle azioni ex artt. 37 e 139-140 c. cons.; il consigliere di parità, in veste di pubblico ministero specializzato, in materia di discriminazioni tra uomo e donna; le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenchi approvati in via amministrativa nelle azioni previste dagli artt. 5 d.lgs. n. 215/2003, 4 l. n. 67/2006, 55 septies d.lgs. n. 198/2006; le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso in forza dell’art. 5, d.lgs. n. 216/2003; le rappresentanze locali delle associazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale ai sensi del comma 10 dell’art. 44, d.lgs. n. 286/1998.
Posto questo quadro positivo, gli interrogativi che si aprono sono sostanzialmente due: a) se la legittimazione ad agire riconosciuta agli enti esponenziali sia esclusiva; b) quale qualificazione si debba dare a tale potere di azione anche nell’ottica, strettamente dipendente, del coordinamento tra le varie iniziative giudiziali.
Senza entrare in considerazioni di dettaglio, l’orientamento prevalente in dottrina ed in giurisprudenza ritiene che tale legittimazione ad agire sia esclusiva e che ad essa corrisponda un diritto soggettivo sostanziale dell’ente esponenziale (cfr. ad es., in materia di repressione della condotta antisindacale, Cass., S.U., 6.5.1972, n. 1380, in Riv. giur. lav., II, 945; in materia di consumatori, Cass., S.U., 28.3.2006, n. 7036, in Corr. giur., 2006, 737).
Questa impostazione svela un apprezzamento puramente oggettivo dell’interesse (cfr. retro, § 2); un interesse che nel suo essere di tutti non è in fondo di nessuno e che il legislatore è libero di soggettivare come crede; anche attribuendolo in titolarità esclusiva all’ente esponenziale nella forma del diritto soggettivo. Non a caso si parla di diritto «collettivo»; ma tale locuzione è assolutamente inesatta e falsante, poiché, chi si orienta nei termini ora indicati sterilizza ogni rilevanza sovraindividuale dell’interesse. L’interesse collettivo è ridotto puramente e semplicemente ad un diritto soggettivo dell’associazione e sul piano processuale il giudizio collettivo inibitorio può divergere assai poco dal processo individuale tradizionale.
Sul fronte opposto si muovono le tesi che valorizzano la rilevanza sovraindividuale all’interesse collettivo e che ritengono che le previsioni di legittimazione ad agire previste dalla legge abbiano – coerentemente al principio di fondo espresso dall’art. 81 c.p.c. – carattere straordinario e si pongano accanto all’implicita legittimazione ad agire spettante ordinariamente ai singoli.
Queste tesi sostengono, dunque, una lettura delle varie disposizioni conforme ai principi costituzionali espressi soprattutto dagli artt. 2, 3, co. 2, 24, co. 1, Cost., stando ai quali l’effettività della tutela giurisdizionale collettiva dipende in primo luogo dall’estensione del novero dei legittimati e la dimensione collettiva dei diritti è posta in posizione servente ed accessoria rispetto a quella personale e individuale.
6. L’oggetto del giudizio
Il problema dell’oggetto del giudizio collettivo inibitorio è anch’esso complesso.
Di certo l’accertamento che si ottiene nei giudizi inibitori è relativo all’obbligo di astensione dal comportamento illegittimo tenuto dal convenuto, o, se si preferisce, al diritto a che il convenuto non ponga nuovamente in essere la condotta illecita accertata. La pronuncia giudiziale ha, dunque, una portata senz’altro specificativa rispetto ai doveri di astensione di tenore sovente generico che gravano sulla parte passiva.
Il problema, però, va ulteriormente approfondito in due diverse direzioni.
Da un lato, occorre chiedersi se l’ambito dell’accertamento si estenda all’illecito posto in essere; quell’illecito che ha giustificato la richiesta di tutela; dall’altro, occorre tener conto del fatto che le azioni inibitorie collettive prevedono quasi sempre come contenuto del provvedimento finale, oltre all’ordine inibitorio, anche quello di rimuovere gli effetti della condotta e, in taluni casi, addirittura la possibilità di condannare il convenuto al risarcimento del danno.
Rinviando al prosieguo la trattazione dell’ultimo profilo indicato, è bene, invece, affrontare l’altro quesito, ovvero interrogarsi se la condotta materiale posta in essere dall’autore dell’illecito sia anch’essa oggetto di accertamento autoritativo e non solo logico. Il discorso può peraltro essere riferito anche alle fattispecie in cui il quesito ora proposto riguarda atti giuridici o altre questioni: si pensi al licenziamento antisindacale o alle clausole abusive ex art. 37 c. cons.
A tal riguardo la posizione che gradatamente prende piede è quella favorevole.
In questo senso depone la lettera della legge laddove si riferisce, ad esempio all’art. 140, co. 1, lett. b), c. cons., alle «violazioni accertate»; oppure, all’art. 37, co. 3, del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, alla «sentenza che accerta le discriminazioni». Ma l’espresso riferimento alle «discriminazioni accertate» ricorre anche in altre disposizioni: l’art. 3, co. 3, della recente l. n. 67/2006; l’art. 4, co. 4, d.lgs. n. 215/2003; l’art. 4, co. 5, d.lgs. n. 216/2003; l’art. 44, co. 10, d.lgs. n. 286/1998.
In ogni caso, la stessa rilevanza sovraindividuale della questione giustifica un suo accertamento autoritativo; rilevanza sovraindividuale che ben si apprezza in funzione della seguente esigenza pratica: visto che l’inadempimento dell’obbligo negativo e continuativo (che appunto legittima la tutela inibitoria collettiva) può rappresentare anche un fatto costitutivo di obblighi restitutori o risarcitori a favore dei soggetti singoli la cui sfera giuridica sia stata lesa da tale condotta, il ritenere che l’ambito oggettivo dell’accertamento comprenda anche l’illecito consente, se si vede con favore la possibile estensione ultra partes degli effetti della sentenza, di ammettere che i singoli soggetti pregiudicati possano far valere nei giudizi che li riguardano la dichiarazione di antigiuridicità della condotta ottenuta nel giudizio collettivo.
In questa prospettiva, l’effettività dell’azione inibitoria collettiva si apprezza non solo per la sua funzione preventiva di future violazioni, ma anche – se non soprattutto – in quanto «prepara» i giudizi individuali volti a compensare gli effetti pregiudizievoli che i singoli hanno dovuto subire (cfr. la recente Cass., 18.8.2011, n. 17351, in Corr. giur., 2012, 214). 7. I limiti soggettivi del giudicato
Nell’assenza di una norma che espressamente risolve il problema dell’estensione soggettiva dell’efficacia di giudicato, le tesi formatesi al riguardo sono diverse.
Secondo una prima impostazione, formulata nei primi anni del dibattito, il giudicato collettivo dovrebbe avere efficacia erga omnes.
La deroga ai principi viene giustificata in vario modo: con l’opportunità di un adeguamento dell’ambito soggettivo del giudicato alla dimensione sovraindividuale dell’interesse tutelato o con la pretesa natura oggettiva dell’attività giurisdizionale svolta. Al contempo la compatibilità di tale regime degli effetti con la garanzia costituzionale dei diritti di azione e difesa è stata sostenuta ritenendo di dover adeguare anche tali garanzie alla natura collettiva degli interessi tutelati. È così nata l’idea di un «garantismo collettivo»; un garantismo non fondato sulla partecipazione al processo da parte dei destinatari degli effetti della sentenza, ma sulla rappresentatività dell’ente esponenziale legittimato (Cappelletti, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti la giustizia civile, in Riv. dir. proc., 1975, 401; Vigoriti, V., Interessi collettivi e processo, Milano, 1979, 150 ss.).
All’opposto, secondo un altro orientamento, anche il giudizio collettivo inibitorio risponderebbe al tradizionale principio di relatività del giudicato. Qualora, dunque, la legge preveda più soggetti legittimati ad agire, ad esempio più enti esponenziali, il coordinamento delle varie iniziative dovrebbe essere risolto seguendo la teoria del concorso soggettivo di azioni. Seguendo questa linea interpretativa, l’esercizio infruttuoso dell’azione da parte di uno dei legittimati non avrebbe alcuna efficacia preclusiva nei confronti degli altri. Di contro, l’eventuale accoglimento della domanda con conseguente accertamento delle violazioni poste in essere non potrebbe avvantaggiare i soggetti (ad esempio i consumatori danneggiati) interessati ad avviare i giudizi individuali sugli obblighi risarcitori o restitutori conseguenti.
Le letture più recenti ammettono peraltro che i soggetti rimasti estranei al giudizio possano giovarsi del giudicato senza – di contro – esserne pregiudicati (cfr. Cass., 18.8.2011, n. 17351, in Corr. giur., 2012, 214).
Questo regime di effetti trova fondamento, secondo alcuni, nel coordinato disposto degli artt. 1306, 1316 e 1317 c.c., in materia di obbligazioni indivisibili, per altri, nello stesso art. 2909 c.c. In particolare quest’ultima norma, nel prescrivere che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, indicherebbe chiaramente che colui che ha preso parte al processo è vincolato al giudicato, ma non il terzo; con la conseguenza che quest’ultimo potrebbe in un successivo giudizio avvantaggiarsi del giudicato reso inter alios, opponendolo a colui che è stato parte del processo senza che ciò comporti una lesione del suo diritto di difesa.
Si pensi, dunque, al consumatore che, nel giudizio individuale di risarcimento del danno, si avvantaggia del giudicato che accerta in sede collettiva inibitoria l’abusività della clausola apprestata dall’imprenditore (cfr. in tema Cass., 21.5.2008, n. 13051, in Foro it., 2008, I, 2474, s.m.).
8. Le misure di rimozione degli effetti
Come già poc’anzi anticipato discorrendo dell’oggetto del giudizio, le azioni collettive inibitorie previste nel nostro ordinamento completano il fronte della tutela con previsioni che riconoscono al giudice il potere di disporre, oltre la cessazione del comportamento illegittimo, anche la rimozione degli effetti prodotti dalle violazioni accertate.
L’ampio tenore di queste norme ha, peraltro, sollevato due diversi interrogativi.
In primo luogo, se la rimozione degli effetti possa dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno o alla restituzione di somme di denaro a favore di soggetti individuali.
In secondo luogo, se con tale previsione si attribuisca al giudice anche un potere di procedere in via costitutiva ai sensi dell’art. 2908 c.c.
Questo secondo quesito era particolarmente attuale in riferimento alle disposizioni che seguivano la formulazione letterale dell’art. 28 st. lav., che tuttora prevede che il giudice «ordina … la rimozione degli effetti», ma il recentissimo art. 28 d.lgs. n. 150/2011, intervenendo su molte di esse, ha in gran parte risolto il problema ed anche le disposizioni non soggette a novellazione pare difficile possano sfuggire ad una dovuta lettura costituzionalizzatrice-adeguatrice (v. Tutela contro le discriminazioni - dir. proc. civ.).
In ogni caso non pongono problemi le norme che attribuiscono al giudice il potere di adottare «ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti» delle violazioni accertate. Si pensi all’art. 37, co. 4, d.lgs. n. 198/2006, nonché al poc’anzi menzionato art. 28, co. 5, d.lgs. n. 150/2011, a cui ora rinviano anche le azioni collettive previste dai decreti legislativi nn. 286/1998, 215/2003, 216/2003, 198/2006 (ma solo in riferimento all’azione ex art. 55 septies), nonché dalla l. n. 67/2006. Stesso discorso vale per l’art. 140, co. 1, lett. b), c. cons., stando al quale il giudice «adotta le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate».
In tutte queste ipotesi al giudice è riconosciuto il potere di utilizzare tutti gli strumenti decisori idonei a ricondurre la situazione allo stato precedente alla violazione: anche, dunque, la tutela costitutiva.
Ben più controversa è, invece, la possibilità di condannare l’autore dell’illecito al risarcimento del danno.
La lettera, nella sua chiara direzione teleologica, non dovrebbe escluderlo. Tuttavia, come abbiamo evidenziato in precedenza, la violazione di un obbligo negativo e continuativo, posto indifferenziatamente a tutela di interessi collettivi, può dar luogo a lesioni di entità differenziata, sicché, nel passaggio dalla tutela inibitoria a quella ripristinatoria-riparatoria, gli interessi da tutelarsi – da collettivi che erano – divengono necessariamente individuali.
Per questa ragione la giurisprudenza ha escluso la possibilità di ottenere il risarcimento del danno (o in ogni caso la condanna al pagamento di somme di denaro) sin dalle prime decisioni in materia di repressione della condotta antisindacale, ove l’esigenza di rendere autonoma l’iniziativa sindacale rispetto a quelle dei singoli lavoratori ha indotto i giudici a separare l’inseparabile; e così si è sostenuto che l’azione speciale ex art. 28 st. lav. tutela solo interessi collettivi di natura non patrimoniale, mentre gli interessi individuali patrimoniali del lavoratore possono essere tutelati esclusivamente con le azioni individuali (cfr. le note Cass., S.U., 6.5.1972, n. 1380; e poi Cass., 24.5.1976, n. 1050, sulla scorta di C. cost., 6.3.1974, n. 54; per osservazioni critiche, v. Donzelli, R., op. cit., 594 ss.).
In materia di consumatori, il problema si è posto in riferimento all’art. 140, co. 1, lett. b), c. cons. e, ancor prima dell’introduzione dell’azione collettiva risarcitoria di classe, la giurisprudenza ha negato la possibilità di condannare il convenuto al risarcimento dei danni o alla restituzione di somme di denaro rilevando – anche qui – la natura individuale e non collettiva di tali interessi.
Con l’inserimento di uno specifico rimedio collettivo a contenuto risarcitorio-restitutorio questa soluzione pare obbligata: nella nozione di «misure idonee» vanno – allora – ricondotte tutte le misure che non consistono nell’accertamento effettivamente condannatorio di diritti individuali al risarcimento o alla restituzione di somme (come ribadito da Cass., 18.8.2011, n. 17351).
Occorre, allora, ben valutare la giurisprudenza che da tempo ha inteso in senso particolarmente ampio i limiti di applicazione dell’art. 140, co. 1, lett. b), c. cons., dando luogo a pronunce a contenuto positivo con le quali si ordinava al convenuto di informare personalmente i consumatori dell’esistenza dei loro diritti derivanti dall’illecito accertato (cfr. Trib. Torino, 17.5.2002, in Foro it., 2002, I, 2899; Trib. Torino, 20.11.2006, in Foro it., 2007, I, 1298; cfr. anche Trib. Roma, 23.5. 2008, ivi, 2008, 2795) o addirittura di non rifiutare le richieste di risarcimento o restituzione avanzate dai singoli consumatori sulla base di argomentazioni già ritenute infondate o illegittime in sede giudiziale (soluzione frequente in tema di interessi anatocistici, v. ad es. Trib. Milano, 15.9.2004, in Foro it., 2004, I, 3481; Trib. Palermo, 29.5.2006, ivi, 2006, I, 2542; Trib. Palermo, 22.6.2006, in Banca borsa, 2008, 367; Trib. Palermo, 26.10.2007; Trib. Palermo, 28.2.2008, in Corr. giur., 2008, 1006); pervenendo, talvolta, a dispositivi dal tenore effettivamente condannatorio, ma dal contenuto generico (Trib. Roma, 30.4.2008, in Giur. it., 2008, 2795).
È difficile dare ricostruzione sistematica a tali pronunce giudiziali.
Da un lato, pare certo che la sentenza collettiva non abbia ad oggetto l’accertamento specifico dei diritti individuali spettanti ai singoli consumatori.
Dall’altro, pare che la strada seguita dai giudici sia quella di procedere in via costitutiva determinando obblighi sostanziali tesi alla rimozione degli effetti prodotti dall’illecito; obblighi che, pur potendo ricevere ulteriore specificazione riguardo ai singoli consumatori e in riferimento alle specifiche circostanze che li riguardano, vengono presentati in sentenza nella loro dimensione globale, aggregata e dunque generica ed i cui destinatari rimangono gli enti esponenziali che hanno agito in giudizio.
Va peraltro rilevato che in materia antidiscriminatoria la possibilità di procedere anche alla condanna al risarcimento del danno è espressamente ed indiscutibilmente prevista da una serie di disposizioni. Esemplificativo al riguardo è l’art. 37, co. 3, del Codice delle pari opportunità, ma il recente art. 28, co. 5, d.lgs. n. 150/2011, dispone in egual maniera in riferimento alle azioni collettive previste dai decreti legislativi nn. 286/1998, 215/2003, 216/2003, 198/2006 (ma solo in riferimento all’azione ex art. 55 septies), nonché dalla l. n. 67/2006 (per approfondimenti, v. Tutela contro le discriminazioni -dir. proc. civ.).
Sempre sul piano delle misure di rimozione degli effetti prodotti dal comportamento illecito vanno annoverate le disposizioni che prevedono la pubblicazione del provvedimento giudiziale su uno o più quotidiani (cfr., ad es., gli artt. 140, co. 1, lett. c, c. cons. e 28 d.lgs. n. 150/2011) o la possibilità – come misura di azione positiva a carattere giurisdizionale – che il giudice disponga la predisposizione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate (cfr., ad es., art. 37, co. 3 e 4, d.lgs. n. 198/2006; art. 28, co. 5, d.lgs. n. 150/2011; v. Tutela contro le discriminazioni -dir. proc. civ.).
9. Le misure coercitive
Come è noto la natura infungibile degli obblighi a contenuto negativo esclude la possibilità di accedere alla tutela esecutiva diretta, sicché l’effettività dei rimedi inibitori collettivi viene in genere garantita mediante l’applicazione di misure di coercizione indiretta.
Dette misure hanno talora rilievo penale. Un esempio è offerto dall’art. 28 st. lav., stando al quale l’inottemperanza al provvedimento di repressione deve punito ai sensi dell’art. 650 c.p.
Particolarmente articolato il regime di misure sanzionatorie contemplate per l’azione collettiva dal Codice delle pari opportunità. L’art. 37, co. 5, prevede infatti che l’inottemperanza dell’ordine giudiziale comporti: l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi; il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento da versarsi al Fondo per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità; la revoca dei benefici previsti dall’art. 41 del Codice.
Il codice del consumo, invece, all’art. 140, co. 7, prevede che il giudice fissi un termine per l’adempimento degli obblighi stabiliti ed eventualmente anche d’ufficio disponga il pagamento di una somma di denaro rapportata alla gravità del fatto e compresa tra 516 a 1.032 euro per ogni inadempimento ovvero giorno di ritardo; somma da versarsi alle entrate del bilancio dello Stato per essere poi riassegnate al Ministero delle attività produttive per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori.
Il discorso diviene, invece, particolarmente delicato nelle azioni ora regolate dal d.lgs. n. 150/2011.
Il più volte menzionato art. 28 d.lgs n. 150/2011, infatti, non si è occupato di eliminare talune aporie che già in precedenza affliggevano taluni rimedi collettivi antidiscriminatori.
L’art. 44, comma 8, d.lgs. n. 286/98, anche dopo la recentissima novellazione continua a prevedere l’applicazione dell’art. 388, co.1, c.p.
Similmente, come il poc’anzi menzionato art. 37, l’art. 55 quinquies, co. 9, del codice delle pari opportunità, applicabile anche nel caso di azioni collettive, punisce l’inottemperanza dell’ordine giudiziale con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi.
Per il resto, salvo quanto disposto dal comma 7 dell’art. 28 con riguardo alla perdita dei benefici, il comma 6 riproduce alla lettera quanto già previsto dai d.lgs. nn. 215/2003 e 216/2003, nonché dalla l. n. 67/2006, ovvero che «ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento».
È dubbio peraltro che tale disposizione costituisca una vera e propria misura sanzionatoria e occorre di conseguenza chiedersi se sia applicabile – ed entro quali limiti – la misura coercitiva generale ora prevista dall’art. 614 bis c.p.c. (v. Tutela contro le discriminazioni - dir. proc. civ.)
Fonti normative
Art. 2601 c.c. in materia di repressione della condotta sleale; art. 28 st. lav. in materia di repressione della condotta antisindacale; art. 37, d.lgs. n. 206/2005, Codice del consumo, in materia di condizioni generali di contratto abusive; artt. 139-140 c. cons. in materia di tutela degli interessi collettivi dei consumatori; art. 37 d.lgs. n. 198/2006, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna; art. 55 septies d.lgs. n. 198/2006, ancora in materia di discriminazioni uomo-donna; art. 4, co. 10, d.lgs. n. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione, in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi; art. 5, co. 3, d.lgs. n. 215/2003, in materia di discriminazione per motivi razziali e di origine etnica; art. 5, co. 2, d.lgs. n. 216/2003, in materia di discriminazione per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento religioso; art. 4, co. 3, l. n. 67/2006, in materia di discriminazione dei disabili; art. 4, co. 1, l. 11.11.2011, n. 180, recante norme per la tutela della libertà d’impresa.
Bibliografia essenziale
La bibliografia in materia è amplissima ed inizia a svilupparsi con intensità sin dagli anni Settanta del Novecento; prima con riguardo al tema della tutela collettiva in generale e poi in riferimento più specifico ai diversi rimedi collettivi progressivamente introdotti nel nostro ordinamento: per le dovute indicazioni bibliografiche, v. Donzelli, R., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008.
Tra i lavori più recenti a carattere generale, v. Lanfranchi, L., (a cura di), La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Torino, 2003; Belli, C., (a cura di), Le azioni collettive in Italia, Profili teorici ed aspetti applicativi, Milano, 2007; Giussani, A., Azione collettiva, in Enc. dir., Annali, Milano, 2007, 132 ss.; Menchini, S. (a cura di), Le azioni seriali, Napoli, 2008; Donzelli, R., Interessi collettivi e diffusi, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2008.