Abstract
Il “nuovo” concetto di azione esterna comprende l’insieme delle politiche e delle azioni svolte dall’UE in ambito internazionale. Ciò non equivale a trasformarla in un’entità federale, né a modificare assetti o principi fondanti quest’ultima, tra cui le competenze attribuite. L’azione esterna continua quindi a essere divisa tra PESC (e PSCD) e politiche materiali UE aventi rilevanza internazionale, come la politica commerciale comune. Anche sul piano delle fonti e degli atti di diritto derivato permangono significative differenze, anche per il diverso ruolo svolto dalle istituzioni UE a seconda degli ambiti su cui si svolge l’azione esterna. Questa dicotomia si riflette poi sia sulla delimitazione dell’ambito di operatività delle diverse politiche componenti l’azione esterna, sia sul riparto di competenze tra UE e Stati. Ciò posto, il quadro unificante che si è cercato di realizzare col Trattato di Lisbona appare apprezzabile ed è suscettibile di consentire alla UE di rafforzare la propria posizione sulla scena internazionale, tanto più se le difficoltà ermeneutiche e sistematiche presenti nei testi dei trattati verranno affrontate e risolte con pragmatismo e conformemente all’effetto utile del diritto UE.
Il riordino degli assetti istituzionali e “costituzionali” scaturente dal Trattato di Lisbona ha prodotto effetti significativi anche sulla dimensione internazionale dell’UE: così, all’incorporazione nell’unico soggetto “Unione europea” di tutti i rapporti attivi e passivi precedentemente facenti capo anche alla Comunità europea (art. 1, par. 3, TUE), e all’esplicita attribuzione all’UE della personalità giuridica (art. 47 TUE), con evidenti effetti anche sul piano internazionale, il quadro di riferimento riguardante le relazioni tra l’Unione e il resto del mondo è consolidato dalla scelta di unificare la materia all’interno di un unico complesso di norme, denominato “azione esterna” (artt. 3, par. 5, e 21 ss. TUE e artt. 205 ss. TFUE). A questo si accompagnano, in particolare, a) importanti innovazioni sul piano istituzionale, quali la creazione dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (artt. 18 e 27 TUE) e la previsione di un servizio europeo per l’azione esterna (“SEAE”, art. 27.3 TUE), di cui il primo si avvale; b) una più precisa disciplina, nel TFUE, sia delle politiche aventi rilevanza esterna, integrate anche ratione materiae con l’assegnazione all’UE di nuove competenze, sia degli aspetti esterni delle altre politiche attribuite all’UE stessa; c) un quadro più organico della procedura di stipulazione dei trattati ad opera dell’UE (art. 218 TFUE), nel quale il ruolo attribuito al Parlamento europeo è anche meglio definito e reso coerente col complesso delle attribuzioni e della funzione legislativa “interna” di quest’ultimo.
L’unitarietà dell’azione esterna presuppone poi un suo dispiegarsi secondo principi e obiettivi predeterminati e individuati all’art. 21 TUE: essi racchiudono a) i valori fondanti l’Unione che questa «si prefigge di promuovere nel resto del mondo» (democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale (cfr. l’art. 21, par. 1, TUE); b) le finalità proprie dell’azione esterna, tra cui sicurezza, indipendenza e integrità dell’UE, promozione dei valori dianzi citati, della pace e sicurezza internazionale, dello sviluppo sostenibile, dell’integrazione e progressiva liberalizzazione delle economie mondiali, della solidarietà e cooperazione mondiali (art. 27, par. 2, TUE).
All’unitarietà e complessiva coerenza dell’azione esterna non corrisponde tuttavia il superamento della dicotomia tra politica estera e di sicurezza comune (PESC, artt. 23 ss. TUE), comprensiva della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC, art 42 ss. TUE), e le altre politiche a rilevanza esterna (Parte V del TFUE, artt. 206 ss.), che mantengono competenze, procedure e fonti distinte e di non facile coordinamento. Più in generale, il principio delle competenze attribuite caratterizzante l’Unione (art. 5 TUE), e di converso l’indeterminatezza e la generalità con la quale, essendo relativa a «tutti i settori delle relazioni internazionali» (art. 27, par. 2, TUE), la PESC può dispiegarsi, rende problematico il quadro complessivo di riferimento, e richiede l’approntamento di ipotesi e soluzioni solo in parte già tracciate dalla Corte di giustizia dell’UE.
Tra le politiche tipicamente esterne attribuite all’UE, quella più importante, sotto il profilo storico e materiale, è certamente la “politica commerciale comune” (PCC, artt. 206-207 TFUE). Essa, tradizionalmente, costituisce lo strumento più importante col quale si è data attuazione a una “politica estera” UE, e si è qualificata l’UE come “potenza civile” nel contesto internazionale (Telò, M., L’Europa potenza civile, Bari, 2004): si pensi alla gestione dei rapporti commerciali internazionali in seno all’OMC, ovvero ai rapporti coi cd. Paesi ACP (pur formalmente qualificabili nella politica della cooperazione allo sviluppo, v. infra, § 2.2) e ai sistemi di preferenze generalizzate per garantire l’accesso preferenziale ai mercati UE dei prodotti di Stati terzi, qualificatisi anche per la previsione di clausole di condizionalità funzionali al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani (cd. Special incentive arrangements for sustainable development and good governance, ovvero «GSP+»), ovvero di particolare favore per i Paesi più arretrati (cd. Special arrangements for the least-developed countries, «Everything but Arms» (EBA)).
La PCC è l’unica delle politiche della pt. V del TFUE di competenza esclusiva dell’UE in base a quanto previsto dall’art. 3, par. 1, lett. e) TFUE, norma che codifica la giurisprudenza della Corte di giustizia (cfr. il Parere 11.11.1975, n. 1/75, Racc. 1355-1363); ferma la sua coerenza coi principi ispiratori dell’azione esterna, la sua attuazione è funzionale allo «sviluppo armonioso del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali e agli investimenti esteri diretti, e alla riduzione delle barriere doganali e di altro tipo» (art. 206 TFUE). Tra i contenuti qualificanti (ma non esaustivi) della PCC, rientrano i tradizionali profili su tariffe e accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione e le misure di contrasto al dumping e alle sovvenzioni.
Anche dopo le modifiche introdotte col Trattato di Lisbona, e ferme le nuove materie espressamente introdotte nell’art. 207 TFUE rispetto al suo antecedente omologo art. 133 TCE, la Corte di giustizia ha continuato a ribadire che «un atto dell’Unione rientra nella politica commerciale comune se verte specificamente sugli scambi internazionali in quanto è sostanzialmente destinato a promuovere, facilitare o disciplinare tali scambi e sortisce su di loro effetti diretti ed immediati» (C. giust, 18.7.2013, causa C-414/11, Daiichi Sankyo, § 51; cfr. pure 12.5.2005, causa C‑347/03, Friuli-Venezia Giulia, Racc., I‑3785, § 75; 3.9.2008, causa C-402/05 P e causa C-415/05 P, Kadi, Racc. I-6351, § 183); tuttavia, il “nuovo” art. 207 TFUE «differisce notevolmente dalle disposizioni da ess[o] sostanzialmente sostituite», e quindi ingloba ad esempio le materie coperte dall’Accordo TRIPS, in precedenza oggetto di competenze ripartite con gli Stati membri (così Daiichi Sankyo, cit.); ancor più recentemente si è precisato che rientrano nella PCC i trattati internazionali volti a estendere la disciplina vigente nel mercato internonei rapporti commerciali con paesi terzi (C. giust., 22.10.2013, causa C-137/2012, Commissione c. Consiglio.; v. anche infra § 4.1).
Particolarmente significativa è quindi l’avvenuta inclusione nell’ambito della PCC degli accordi commerciali sui servizi, sugli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e sugli investimenti esteri diretti. A tale allargamento delle competenze esclusive corrisponde tuttavia la previsione, in alcune circostanze, dell’unanimità del voto del Consiglio per l’autorizzazione alla negoziazione e conclusione di accordi concernenti queste materie, unanimità idonea a coprire anche gli accordi sui servizi culturali e audiovisivi, e quelli in campo sociale, dell’istruzione e della sanità (art. 207, par. 4, TFUE).
La materia degli investimenti esteri diretti qualifica significativamente la PCC, eliminando la precedente distonia che vedeva il commercio e investimenti, profili alquanto connessi nell’economia internazionale, di rispettiva competenza UE e degli Stati. A questi ultimi restano quindi (soltanto) le nazionalizzazioni e le espropriazioni, poiché gli investimenti indiretti (cd. portfolio investments, o di breve termine), risultano già almeno in parte attratti dalle norme sulla circolazione dei capitali (artt. 63 ss. TFUE).
La competenza UE sugli investimenti esteri diretti si sovrappone tuttavia ai circa mille trattati bilaterali in vigore tra Stati membri e Stati terzi, e ai circa 190 trattati in vigore tra Stati membri: mentre questi ultimi ‒ specie se antecedenti all’ingresso nell’UE di alcuni membri ‒ devono ritenersi superati in quanto incompatibili coi Trattati, per i primi vige ora il Regolamento (UE) n. 1219/2012, del 12.12.2012, disciplina transitoria per gli accordi bilaterali conclusi tra Stati membri e terzi in materia di investimenti, e prevede la loro notifica alla Commissione, e in sintesi una successiva “gestione” degli stessi (tramite modifiche o nuova negoziazione) congiuntamente con la Commissione, onde assicurarne un progressivo allineamento alla nuova competenza UE, nelle more della sostituzione del medesimo con un nuovo trattato tra UE e Stato terzo interessato.
Accanto alla PCC coesistono politiche aventi uno spiccato risvolto esterno, a partire dalla cooperazione allo sviluppo (artt. 209-211 TFUE): l’ambito è tradizionalmente occupato dai rapporti con le ex colonie e coi cd. Paesi ACP, e si è concretizzato mediante accordi di partenariato, l’ultimo dei quali firmato a Cotonou (in GUCE n. L 317 del 15.12.2000, 3 ss.); nel tempo esso ha assunto vocazione globale e multidimensionale con tutti i cd. Paesi in via di sviluppo.
Con apprezzabile sforzo di razionalizzazione di questa competenza esterna, l’attuale testo dell’art. 208, par. 2, TFUE ne chiarisce l’obiettivo principale nella «riduzione e, a termine, [nel]l’eliminazione della povertà», connotando quindi in modo più preciso l’ambito di operatività e la corrispondente base giuridica delle misure unilaterali o degli accordi internazionali con cui l’UE sostanzia, ai sensi dell’art. 209 TFUE, le iniziative di cooperazione allo sviluppo. Resta però impregiudicata l’ampiezza della nozione di “sviluppo” (cfr. anche C. giust., 3.12.1996, causa C-268/94, Portogallo c. Cons., Racc., I-6177), e quindi la possibilità di strutturare varie ipotesi di cooperazione allo sviluppo, legate ad es. al rispetto dell’ambiente, dei diritti umani e dello stato di diritto, all’evoluzione sociale, e comprensive quindi di clausole di condizionalità, ferma la coerenza complessiva dell’azione esterna (cfr. l’art. 209, par. 2, TFUE).
A differenza della PCC, questa politica viene condotta dalla UE in concorrenza e in parallelo con gli Stati, senza quindi alcuna preclusione per questi di concludere accordi internazionali nel medesimo settore, anche dopo l’adozione di iniziative dell’Unione (artt. 4, par. 4 e 209, par. 2, co. 2, TFUE). Tuttavia, fermo il concorso delle competenze (v. già C. giust., 2.3.1994, causa C-316/91, Parlamento europeo c. Consiglio, Racc., I-625), l’art. 210 TFUE richiede un coordinamento delle politiche UE e nazionali «per favorire la complementarietà e l’efficacia delle azioni».
La complementarietà si individua anche rispetto all’altra politica esterna disciplinata agli artt. 212-213 TFUE, e cioè la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi, «diversi dai paesi in via di sviluppo». Pur non potendosi escludere che la norma possa avere anche un ambito applicativo più ampio, gli Stati terzi cui principalmente questa politica intende indirizzarsi sono quelli candidati all’adesione, quelli del Mediterraneo (non in via di sviluppo), dell’Europa orientale, Caucaso, Asia Centrale e Russia, tutti peraltro compresi nella politica di vicinato ex art. 8 TUE.
Il Trattato di Lisbona ha introdotto una competenza UE in tema di aiuto umanitario (art. 214 TFUE), in precedenza sviluppata nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, ma che può attuarsi anche nei confronti di qualsiasi Stato terzo. Le misure oggetto di questa politica, comprensive di trattati internazionali (es., la convenzione sull’assistenza alimentare, in GUUE n. L 330 del 30.11.2012, 1), concernono i casi di «assistenza, soccorso e protezione alle popolazioni dei paesi terzi vittime di calamità naturali o provocate dall’uomo, per far fronte alle necessità umanitarie risultanti da queste diverse situazioni». Inevitabile appare una potenziale sovrapposizione con azioni PESC, e quindi appare particolarmente acuto in questa politica il tema del riparto delle competenze tra PESC e le politiche qui in esame (v. infra, § 4.1). Come per la cooperazione allo sviluppo, anche qui l’UE è titolare di una competenza concorrente parallela ex art. 4, par. 4, TFUE, che non pregiudica quindi le iniziative degli Stati nel medesimo settore, ma va coordinata con queste ultime, e con quelle adottate dalle organizzazioni internazionali (art. 214, par. 7, TFUE).
Un cenno merita infine la politica di vicinato (art. 8 TUE), norma che codifica una prassi della UE e degli Stati di mantenere rapporti particolari con paesi limitrofi (anche non confinanti), nell’ottica, un tempo, di prepararli all’adesione, e più recentemente, raggiunti quasi i confini esterni dell’Europa, di garantirsi relazioni pacifiche e amichevoli ai propri confini esterni. La politica di vicinato, in precedenza realizzata specie con accordi misti, assume contenuti multidimensionali, mirati in funzione del paese terzo interessato (es. stabilizzazione democratica, circolazione delle persone, sostegno sociale, ricerca e sviluppo), è sostenuta da programmi di partenariato e cooperazione pluriennali, e si intreccia con altre iniziative, come il cd. Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo. Le relazioni privilegiate presuppongono la condivisione dei valori su cui si fonda la UE e cioè il rispetto dell’art. 21 TUE.
Il TFUE prevede ulteriori competenze UE in ambito internazionale. Talora trattasi di fattispecie conseguenti a iniziative PESC, come per le misure restrittive (art. 215 TFUE), e cioè, ad es. (ma v. infra, § 3.2), le sanzioni economiche che sono adottate contro Stati o persone fisiche o giuridiche, obbligatoriamente a valle di decisioni PESC adottate ex artt. 25 ss. TUE (cfr. C. giust., 19.7.2012, causa C-130/10, PE c. Cons. e a.), ovvero di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Più spesso, esse rappresentano il coté esterno di politiche materiali, specie quando, ai fini di attuarle, viene attribuito alla UE il potere di stipulare trattati internazionali: al riguardo, oltre agli artt. 3, par. 2 e 216 TFUE, uno specifico potere in tal senso è previsto a) per la riammissione di cittadini di paesi terzi nell’ambito delle competenze su immigrazione e gestione dei flussi (art. 79, par. 4, TFUE), b) all’interno delle competenze su ricerca e sviluppo tecnologico (art. 186, co. 2, TFUE), c) nel settore dell’ambiente (art. 191, par. 4, TFUE), e infine d) in tema di politica monetaria, ove la UE ha il potere di stipulare accordi sui tassi di cambio dell’euro nei confronti di valute terze, nonché accordi sul regime monetario o valutario, per quegli Stati che intendano utilizzare l’euro quale valuta (alcuni cd. micro-Stati, ovvero Stati o territori terzi che hanno adottato l’euro).
La PESC si qualifica in modo alquanto diverso rispetto alle politiche esaminate nel § 2. Infatti, a) molto diverso è il ruolo delle istituzioni, poiché la PESC viene gestita essenzialmente dal Consiglio europeo e dal Consiglio, con un ruolo più marginale di Commissione, Parlamento europeo e Corte di giustizia (ma v. infra, § 4.2); b) gli atti adottati in sede PESC hanno natura diversa dalle altre fonti dell’ordinamento UE, essendo esclusa l’adozione di atti legislativi; c) le procedure per l’adozione degli atti PESC differiscono da quelle degli altri atti di diritto derivato (artt. 288 ss. TFUE), essendo largamente prevista l’unanimità come regola; d) la suddivisione delle competenze tra UE e Stati rimane sui generis, ai sensi dell’art. 2, par. 4, TFUE.
Tutto ciò non stupisce, poiché, fermo il principio delle competenze attribuite (artt. 4, par. 1 e 5, par. 1, TUE), la politica estera appare difficilmente razionalizzabile alla stregua delle altre politiche UE, essendo per sua natura programmatica, non prevedibile e dipendente dall’azione di soggetti e attori sui quali né la UE, né gli Stati possono esercitare un potere, giurisdizionale o sovrano: ciò rende anche difficile prevedere le azioni che la UE dovrà intraprendere per garantire la sicurezza nello spazio europeo e per contribuire a farlo nel resto del mondo.
Corretto, quindi, appare l’art. 24, par. 1, co. 1, TUE, secondo cui la PESC «riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune». Parimenti corretto, e consequenziale, è il co. 2, stabilente che la PESC «è soggetta a norme e procedure specifiche».
Quanto sopra non significa che la PESC possa svolgersi in un vuoto normativo, a ciò ostando, da un lato, l’art. 23 TUE che àncora saldamente l’azione esterna UE all’art. 21 TUE, contenente, come abbiamo visto (sopra il § 1) i principi e gli obiettivi che tale azione deve rispettivamente rispettare e perseguire; dall’altro lato, una volontà della Corte di giustizia di mantenere più che saldo, anche in questa materia, il principio secondo cui tutte le istituzioni dell’Unione agiscono nel quadro delle competenze loro attribuite e nel rispetto dei trattati e dei principi generali di diritto (infra, il § 3.2).
Il Trattato di Lisbona introduce significative modifiche in relazione alle misure PESC, semplificando il novero degli strumenti. Al di là degli orientamenti generali e le linee strategiche adottabili dal Consiglio europeo è la decisione l’atto tipico PESC, alla quale l’art. 25 TUE riserva più funzioni: definire le azioni da intraprendere, le posizioni da assumere, e le relative modalità di attuazione. Più in dettaglio, i contenuti e le finalità delle diverse decisioni PESC sono declinate in successive disposizioni della parte quinta del TUE, specialmente gli artt. 28, 29 e 39.
Non è agevole identificare la natura giuridica di questi atti: per quanto riguarda in particolare quelli adottati dal Consiglio europeo, essi svolgono comunque la funzione di presupposto sul quale poi costruire azioni (e norme) cui il Consiglio e gli Stati si conformano ex artt. 22, par. 1, co. 3 e 24, par. 3, TUE. Essi sono pure obbligatori all’interno del sistema UE, conformemente ai principi di leale cooperazione (art. 4, par. 3, TUE), e di quelli propri dell’azione esterna (art. 21 TUE), e della loro coerenza complessiva, quindi, anche con le misure adottate nell’ambito di politiche materiali dal TFUE (infra, il § 4).
Gli atti PESC, e specialmente le decisioni, non possono tuttavia avere natura di atti legislativi, a ciò ostando l’art. 24, par.1, co. 2, TUE. Quanto sopra dovrebbe impedire a questi atti di produrre effetti normativi generali, in particolare diritti od obblighi, poiché diversamente verrebbero violati i principi di democrazia e dello Stato di diritto, atteso che gli atti PESC sono adottati senza la partecipazione del PE e il sindacato giurisdizionale su di essi è limitato dall’art. 275 TFUE alle sole decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche, quelle cioè adottate ex art. 215 TFUE. Una tale tesi trova conferma nella giurisprudenza (C. giust., 27.2.2007, causa C-354/04 P, Gestoras pro Amnistìa, Racc. I-1631, § 52), ma non consente di fornire adeguate risposte nel caso in cui, come talora avviene, comunque siano adottati atti PESC idonei a incidere su posizioni soggettive individuali. Al riguardo, visti i limiti «politici» – e dunque testuali – dei trattati sul punto, la Corte di giustizia sembra voler risolvere le questioni che attengono alla natura e agli effetti giuridici degli atti PESC sulla base di un approccio pragmatico, piuttosto che proporre una soluzione di respiro generale e sistematico: così, si è ripetutamente precisato che tutte le istituzioni sono soggette al controllo di conformità dei loro atti ai trattati e ai principi generali di diritto, e quindi che «tutte le disposizioni del Consiglio dirette a produrre effetti nei confronti dei terzi, a prescindere dalla loro natura o dalla loro forma», devono essere suscettibili di ricorso in via pregiudiziale; in questo contesto si valorizza il ruolo dei giudici nazionali, presso cui può porsi, anche incidentalmente, la questione della validità di un atto PESC, e la possibilità di attivare il rinvio pregiudiziale presso la Corte di giustizia (Gestoras pro Amnistìa, cit., §§ 53 ss., anche per riferimenti); inoltre, si invitano i giudici nazionali ad applicare e interpretare il proprio diritto interno in modo da assicurare la sindacabilità di tutti i provvedimenti interni attuativi di atti PESC, e di garantire ove del caso agli individui un diritto di agire per il risarcimento del danno (ibidem); infine, in chiave evolutiva rispetto a precedenti pronunce rese peraltro sulla base dei testi dei trattati ante-Lisbona (cfr. Kadi, cit.), la Corte di giustizia si esprime a favore di un’interpretazione estensiva dell’art. 215 TFUE, norma da utilizzarsi come base giuridica per qualunque misura restrittiva adottata nell’ambito di obiettivi PESC (C. giust., 19.7.2012, causa C-130/10, cit., §§ 55 ss.), così da ampliare indirettamente anche il controllo giurisdizionale nella materia ex art. 275 TFUE. Incerti sono tuttavia i confini della nozione di “misura restrittiva”; peraltro, la lesione delle prerogative del PE (e indirettamente, del principio di democrazia), insita nell’opzione a favore dell’art. 215 TFUE come base giuridica per norme di diritto derivato scaturenti da atti PESC, non sembra preoccupare la Corte di giustizia, la quale precisa chiaramente che, da un lato, è chiara la scelta del Trattato di Lisbona, «di conferire un ruolo più limitato al PE riguardo all’azione dell’Unione nel contesto della PESC»; dall’altro lato, che adeguate protezioni anche «costituzionali» sussistono in forza della soggezione di tutti gli atti del Consiglio all’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta UE») e dell’obbligo quindi, sindacabile dalla Corte di giustizia UE, di adottare atti «che contengono le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche» (C. giust., 19.7.2012, causa C-130/10, cit., §§ 82-83).
È ragionevole dunque attendersi che l’art. 215 TFUE possa diventare il perno per l’attuazione di atti PESC aventi effetti giuridici nei confronti di individui. In questa prospettiva, e salve le altre politiche “minori” previste nel TFUE (sopra, il § 2.2), l’art. 215 e l’art. 207 TFUE appaiono in prospettiva i due fondamenti normativi su cui realizzare iniziative di azione esterna, benché con sfumature e implicazioni differenziate, derivanti dal diverso riparto di competenze rispettivamente previste nelle due norme, e dal diverso ruolo svolto dal PE e dalla Commissione nell’uno e nell’altro caso.
Per altro verso, va sottolineato che l’art. 352, par. 4, TFUE esclude espressamente la possibilità di ricorrere alla clausola di flessibilità «per il conseguimento di obiettivi riguardanti la PESC» (v. già Kadi, cit., §§ 197 ss. e 235), onde non alterare i meccanismi decisionali previsti in ambito PESC.
L’azione esterna concernente la PESC si attua largamente sul piano intergovernativo, e la sua personificazione viene soprattutto realizzata attraverso l’Alto rappresentante e il SEAE. L’Alto rappresentante è figura di raccordo tra Consiglio e Commissione (è «mandatario del Consiglio» nell’attuazione della PESC ed è «uno dei vicepresidenti della Commissione» ex parr. 2 e 4 dell’art. 18 TUE), ed è chiamato a contribuire allo sviluppo della PESC mediante un potere di proposta, talora condiviso con la Commissione (art. 22, par. 2, TUE), e a dare attuazione alle decisioni assunte da Consiglio europeo e Consiglio in ambito PESC (art. 27 TUE). Egli, inoltre, quale presidente del Consiglio «Affari Esteri», può convocarlo e stabilirne l’agenda, riferendo poi al medesimo della sua attività e sottoponendo alla sua attenzione qualsiasi questione rilevante (art. 30, par. 1, TUE). Ha inoltre la rappresentanza dell’Unione per le materie rientranti nella PESC (art. 27, par. 2, TUE), e vigila sulla coerenza complessiva dell’azione esterna (art. 18, par. 4, TUE). Considerato poi che la PESC viene attuata anche «ricorrendo ai mezzi nazionali» (art. 26, par. 3, TUE), l’Alto rappresentante può rapportarsi anche con le missioni diplomatiche nazionali, benché un assetto dei rapporti tra Alto rappresentate/SEAE, delegazioni diplomatiche UE e ambasciate nazionali sia tuttora ampiamente da costruire e definire (v. infra).
Il SEAE, istituito con Decisione del 26.7.2010, n. 427 (in GUUE n. L 201 del 3.8.2010, 30) che ne fissa l’organizzazione e il funzionamento, è posto sotto l’autorità dell’Alto rappresentante, gode della piena autonomia funzionale rispetto alla Commissione e al Consiglio, e ha una piena capacità giuridica. Tra i suoi compiti principali vi è il supporto all’Alto rappresentante nell’espletamento del suo mandato: verso l’esterno, nell’attuazione della PESC e della PSDC (infra, § 3.4); verso l’interno, nei rapporti tra questi e la Commissione e il Consiglio. Il SEAE assiste tuttavia anche il presidente del Consiglio europeo, ovviamente per quanto concerne il suo ruolo di rappresentanza esterna dell’Unione (art. 15, par. 6, co. 2, TUE).
Il SEAE è composto da funzionari del Consiglio e della Commissione con precedenti competenze esterne (PESC, PSDC, Relazioni esterne e sviluppo), ovvero da diplomatici degli Stati. La sua struttura è articolata in modo capillare: al vertice, a Bruxelles, un segretario generale esecutivo e diverse direzioni competenti per materia, che coordinano gli uffici diplomatici (delegazioni) siti nei diversi paesi e regioni del mondo. Resta tuttora molto vaga la relazione tra delegazioni UE e missioni diplomatiche nazionali, sia presso Stati terzi, sia presso organizzazioni internazionali: la coesistenza, inevitabile, dell’azione esterna UE con la politica estera degli Stati rende difficile immaginare una sostituzione delle ambasciate nazionali (soprattutto quelle degli Stati più importanti) ad opera delle delegazioni UE, resta quindi un coordinamento di iniziative nazionali e UE, da gestire caso per caso.
Il SEAE funziona mediante risorse ad hoc inserite nel bilancio UE (v. il regolamento UE/Euratom n. 1081/2010, in GUUE n. L 311 del 26.11.2010, 9); l’esecuzione degli stanziamenti amministrativi del bilancio delle singole delegazioni può essere delegata ai capi missione, ma Commissione e PE possono condizionarne almeno in parte l’azione rispettivamente per effetto della responsabilità della prima di esecuzione del bilancio (v. Pugliese, S., Il finanziamento della PESC tra tendenze all’integrazione e istanze centrifughe, in Dir. UE, 2013, 363-372), e del secondo in sede di controllo di gestione delle risorse finanziarie.
La PSDC è “parte integrante” della PESC (art. 42, par. 1, TUE) ed è quindi servente la stessa, in senso anche più marcato rispetto al rapporto tra PESC e altre politiche esterne, soprattutto per la condivisione del medesimo carattere intergovernativo e l’esclusione di atti legislativi ai fini della loro attuazione. Gli obiettivi della PSDC sono declinati in modo preciso, e sono quelli di dotare la UE di una capacità operativa composta da mezzi civili e militari, funzionale a consentirle di poter inviare «missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite», secondo le modalità e le procedure previste negli artt. 43 ss. TUE, e con l’ausilio dell’Agenzia europea per la difesa (v. Stärkle, G., L’Agence européenne de défense. Régime juridique, organisation et réalisations, Bruxelles, 2010). La capacità operativa viene fornita dagli Stati e messa a disposizione della UE (art. 42, par. 3, TUE). Restano problemi non banali di funzionamento del sistema, dovuti alla difficoltà di individuare strumenti appropriati per il finanziamento delle operazioni. Così, ferma l’unanimità in seno al Consiglio delle decisioni relative a quest’ultima, nei fatti sono poi le specifiche disponibilità di (alcuni) Stati membri a realizzare specifiche iniziative di difesa comune a condizionarne l’avvio e l’attuazione, le quali risultano poi facilitate dall’esperienza di cooperazione sviluppatasi in ambito NATO, col quale la stessa PSDC deve coordinarsi e coerenziarsi (cfr. l’art. 42, par. 2, co. 2, TUE).
PSDC non significa ancora istituzione di un “esercito europeo”, scelta di ben altro momento anche sul piano del diritto costituzionale interno. Tale evenienza, peraltro, non viene esclusa dal TUE, che tuttavia la consegna a un (eventuale) voto unanime del Consiglio europeo (art. 42, par. 2, co. 1, TUE).
Altra ipotesi è infine la cooperazione strutturata permanente tra le forze armate di alcuni Stati ex art. 46 TUE, costitutiva di una cooperazione rafforzata sui generis.
La PSDC non serve tuttavia solo a operazioni di peace-keeping o peace-enforcement internazionali: infatti, delle tre missioni per ora adottate, la EUNVAFOR-Atalanta, per il contrasto alla pirateria, è marcatamente rivolta a proteggere gli interessi commerciali della UE con Stati terzi.
L’unificazione delle relazioni tra UE e resto del mondo nella categoria “azione esterna”, e la previsione di un criterio di coerenza complessiva tra PESC e altre politiche esterne del TFUE, integra un’apprezzabile indicazione per le istituzioni UE nel senso di coordinare tutti i profili rilevanti nella materia. È un’indicazione dalla portata tuttavia limitata, valida sul piano politico, sussistendo precisi limiti testuali nel sovrapporre alla PESC le altre politiche esterne UE (cfr. l’art. 40 TUE). La “trasversalità” della PESC, scolpita nell’art. 24, par. 1, TUE rispetto alla configurazione di tipo materiale e teleologico caratterizzante le altre politiche UE, insieme con l’assoggettamento di queste ultime, per effetto dell’art. 205 TFUE, ai principi e agli obiettivi di cui agli artt. 21 e 22 TUE, non può tuttavia implicare una prevalenza della prima rispetto alle seconde, ciò essendo ancora impedito dall’art. 40 TUE, e in generale dall’esigenza di equilibrio istituzionale e costituzionale incompatibile con la marginalizzazione di Commissione e PE quale effetto di una “prevalenza” della PESC sulle altre politiche (v. anche C. giust., 20.5.2008, causa C-91/05, Comm. c. Cons. (ECOWAS), Racc. I-3651).
Dato quindi atto della difficoltà di trovare un nucleo della PESC mancando tuttora la UE di una sua chiara identità internazionale, ci si era sforzati di connotare la PESC almeno come volta ad assicurare pace e sicurezza (Koskenniemi, M., International Law Aspects of the Common Foreign and Security Policy, in Koskenniemi, M., (a cura di), International Law Aspects of the European Union, Dordrecht e a., 1998, 27-36). Col (nuovo) art. 21, par. 2, TUE, che elenca una pluralità di obiettivi PESC, una tale impostazione parrebbe indebolita. Quand’anche fosse ancora praticabile, nel senso per lo meno di connotare un baricentro per la base giuridica degli atti PESC, l’ampiezza degli obiettivi riguardanti “pace e sicurezza internazionale” lascerebbe comunque molte zone grigie, come confermato dalla giurisprudenza sopra ricordata.
Meglio quindi prendere atto della difficoltà di individuare una soluzione sistematica ai problemi di coordinamento e ripartizione delle competenze tra PESC e altre politiche UE, e propendere per approcci più pragmatici: in primis, si dovrebbe valorizzare al massimo l’ambito di operatività delle politiche materiali quali lex specialis rispetto alla PESC; in subordine, attesa la difficoltà di immaginare che uno stesso atto possa essere adottato con una base giuridica plurima, congiuntamente utilizzando quella PESC e quella di una o più politiche materiali (cfr. Poli, S., La base giuridica delle misure dell’UE di congelamento dei capitali nei confronti di persone fisiche o giuridiche o entità non statali che appoggiano il terrorismo, in Riv. dir. int., 2012, 89-102), si può perseguire una data azione esterna mediante più atti, coordinati e adottati rispettivamente nell’ambito della PESC e di altre politiche, magari accompagnate da forme di consultazione preventiva. La stessa, peraltro, potrebbe facilitare possibili allargamenti delle competenze materiali, talora utilizzate quale veicolo per il perseguimento di finalità più prettamente di politica estera. Tanto più alla luce del già ricordato pragmatismo della Corte di giustizia nell’interpretazione degli artt. 207 o 215 TFUE (sopra, § 3.2), quest’ultima soluzione parrebbe anzi poter trovare frequente applicazione, quanto meno per le ipotesi in cui gli obiettivi di politica estera da realizzarsi non siano estranei a quelli di altre politiche materiali (ambiente, commercio, lotta alla povertà), o siano facilmente condivisi da tutti gli Stati membri (tutela dei diritti umani, sviluppo e stabilizzazione democratica). Quando tuttavia l’azione esterna si concretizza in accordi internazionali, possono venire in rilievo ulteriori profili problematici (v. infra).
Deve ora analizzarsi il riparto delle competenze esterne tra Unione e Stati. In passato, l’argomento veniva declinato in relazione alla competenza della (allora) CE a stipulare trattati internazionali, e all’esistenza di un parallelismo tra competenze interne ed esterne.
La rilevante giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 31.3.1971, causa 22/70, Commissione c. Consiglio.(AETS), Racc. 263; parere 26.4.1977, n. 1/76, ibidem, 741; 19.3.1993, n. 2/91, ibidem, I-1061) viene oggi codificata negli artt. 3, par. 2 e 216 TFUE, che attribuiscono alla UE competenza esclusiva a stipulare trattati con Stati terzi, se ciò è previsto in un atto legislativo UE o è necessario per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno, ovvero, come si diceva, nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Pertanto, non vi è coincidenza tra competenze esclusive interne ed esterne ai sensi rispettivamente dei parr. 1 e 3 dell’art. 3 TFUE, potendo le seconde individuarsi anche aliunde rispetto all’elencazione delle prime.
Quando tuttavia la competenza interna è concorrente, e non è possibile ravvisare una delle ipotesi idonee a conferire alla UE una competenza esterna esclusiva, anche sul piano esterno resta una potestà concorrente (o ripartita) a stipulare trattati (C. giust., 30.5.2006, causa C-459/03, Commissione c. Irlanda (Mox Plant), in Racc. I-4635, §§ 90-93). Il che in aggiunta ai casi in cui il TFUE attribuisce alla UE una competenza concorrente parallela (sopra § 2.2), il cui esercizio da parte UE non determina quindi effetti preclusivi sugli Stati, neppure a concludere accordi internazionali.
La prassi dei cd. “accordi misti” (stipulati, cioè, da UE e Stati) risponde all’esigenza di coordinare, all’interno di un unico trattato con un paese terzo, l’esercizio di competenze esterne concorrenti, dando luogo così a una disciplina internazionale idonea a creare diritti e obblighi vincolanti per UE, Stati membri e terzi, a prescindere dalla complessità dei rapporti tra i primi due, comunque obbligati a una “stretta cooperazione” (C. giust., 20.4.2010, causa C-246/07, Comm. c. Svezia, Racc. I-3317).
Oggi l’art. 218 TFUE introduce finalmente una procedura organica per la stipulazione dei trattati da parte della UE (Gatti, M.-Manzini, P., External Representation of the European Union in the Conclusion of International Agreements, in C.M.L. Rev., 2012, 1703): accanto al ruolo decisionale del Consiglio, e propositivo/negoziale della Commissione o dell’Alto rappresentante, aumenta quello del PE, cui spetta l’approvazione di diversi tipi di accordo, e il diritto di essere consultato negli altri casi, salvo che il trattato non «riguard[i] esclusivamente la PESC». La Corte ha chiarito che tale eccezione riguarda più precisamente gli accordi validamente fondata su una base giuridica sostanziale in ambito PESC, anche se comprensivi di elementi marginali afferenti ad altre politiche (C. giust., 24.6.2014, causa C-658/11, non ancora pubblicata, §§ 58-59). Comunque, col Trattato di Lisbona si rafforza il ruolo nell’azione esterna del PE, che ha saputo adoperare efficacemente i poteri conferitigli dal nuovo art. 218 TFUE (v. il caso del cd. Accordo SWIFT tra UE e Stati Uniti sul trasferimento di dati personali relativi alle transazioni finanziarie internazionali, finalizzato alla lotta al terrorismo, che il PE ha ritenuto incompatibile con la tutela dei dati personali dei cittadini europei). Donde pure un recupero, mediante l’attivismo del PE, dei principi di democrazia in politica estera.
Il riparto delle competenze tra UE e Stati non concerne semplicemente la stipulazione degli accordi internazionali, ed è innegabile che, per come è articolata nei trattati, l’azione esterna e soprattutto la PESC lascino spazi più o meno ampi in capo ai secondi per proprie iniziative nella materia. Esse, peraltro, conformemente all’art. 24, par. 3, TUE, debbono aver luogo in modo rispettoso dell’azione dell’Unione nel settore PESC, e anzi è fatto obbligo per gli Stati di sostenere attivamente e senza riserve la PESC stessa. Ulteriori obblighi di consultazione e di convergenza nelle iniziative statali che possano interferire con la PESC sono poi previste in altre disposizioni del TUE, segnatamente nell’art. 30.
Pur caratterizzate da contenuti molto ampi e programmatici, le norme sopra evidenziate assicurano comunque un parallelismo di azione tra UE e Stati membri nelle questioni relative alla PESC. E in questa prospettiva, va anche ridimensionata la ricorrente critica di coloro che vedono in questa coesistenza di competenze un elemento di incompiutezza dell’Unione: un tale approccio sconta forse l’errore di voler assimilare la UE a modelli di integrazione sovranazionale che si sono evoluti verso strutture federali, ma non è questa la struttura attuale dei Trattati.
Del resto, non sempre appare necessaria un’unica politica estera con riguardo a specifici temi. Ad esempio, nei rapporti tra UE e Stati terzi sul controllo dei flussi migratori, ha prodotto risultati positivi la scelta talora di far gestire in capo a singoli Stati membri la definizione dei rapporti bilaterali con gli Stati di provenienza dei flussi. Risultati che forse non si sarebbero raggiunti se si fosse dovuta attendere una decisione in seno al Consiglio, e che comunque sono coerenti con gli interessi comuni, atteso che gli accordi bilaterali entrati in vigore in questa materia riprendono una matrice comune a tutti i paesi UE.
Del resto, appare legittima la pretesa tuttora forte degli Stati membri di riservarsi spazi di autonomia decisionale, in funzione non solo del rispetto di esigenze di politica interna, ma anche di posizioni storiche su scacchieri internazionali e nei rapporti con Stati terzi, che non possono essere obliterati mediante un tratto di penna, ovvero una dichiarazione di principio secondo cui, a partire da una certa data, la UE deve assumere monoliticamente ogni decisione di politica estera.
Una simile idea non solo è velleitaria, e non è comunque coerente col diritto positivo, ma come detto non necessariamente risponderebbe agli interessi degli Stati europei e della stessa UE: i rapporti con l’estero, a differenza delle politiche interne all’Unione, si fondano e si costruiscono nel lungo periodo, e sono il frutto di rapporti diplomatici e relazioni storiche consolidate, che anche con le migliori intenzioni non possono – né verosimilmente debbono – essere variate unilateralmente, imponendo agli Stati terzi un nuovo interlocutore (la UE) rispetto ai singoli Stati membri.
Artt. 3, par. 5, 18, 21-47 TUE; artt. 3, 4, par. 4, 205-222 TFUE.
Amadeo, S., Unione europea e treaty-making power, Milano, 2005; Baratta, R., La Politica Commerciale Comune dopo il Trattato di Lisbona, in Dir. comm. int., 2012, 403; Id., Le principali novità del Trattato di Lisbona, in Dir. UE, 2008, 21; Bartoloni, M.E., Politica estera e azione esterna dell’Unione europea, Napoli, 2012; Cannizzaro, E., Le relazioni esterne della Comunità: verso un nuovo paradigma unitario?, in Dir. UE, 2007, 221; Cannizzaro, E.-Bartoloni, M.E., Unità e frammentazione nel sistema dell’azione esterna dell’Unione, in Dir. UE, 2013, 531; Cremona, M., (a cura di), Developments of EU External Relations, Oxford, 2008; Cremona, M.-De Witte, B., (a cura di), EU Foreign Relations Law: Constitutional Fundamentals, Oxford, 2008; Cremona, M., Defining competence in EU external relations: lessons from the Treaty reform process, in Dashwood, A.-Maresceau, M., (a cura di), Law and Practice of EU External Relations, Cambridge, 2008, 34; Id., The Two (or Three) Treaty Solution: The New Treaty Structure of the EU, in Biondi, A.-Eeckhout, P.-Ripley, S., (a cura di), EU Law after Lisbon, Oxford, 2012, 40; Curti Gialdino, C., (a cura di), Codice dell’Unione europea, Napoli, 2012, ed ivi i commenti agli articoli del TUE e del TFUE sopra indicati; Dashwood, A., Art. 47 TUE and the relationship between first and second pillar competences, in Dashwood, A.-Maresceau, M., Law, cit., 70; De Baere, G., Constitutional Principles of the EU External Relations, Oxford, 2008; Id., EU External Relations Law, Oxford, 2011; Eeckhout, P., The EU’s Common Foreign and Security Policy after Lisbon: from Pillar Talk to Constitutionalism, in Biondi, A.-Eeckhout, P.-Ripley, S., EU Law, cit., 267; Hillion, C.-Koutrakos, P., (a cura di), Mixed Agreements Revisited The EU and its Member States in the World, Oxford-Portland, 2010; Hilpold, P., Die EU im GATT/WTO-System, 3a, Baden-Baden, 2009; Krajewski, M., The Reform of the Common Commercial Policy, in Biondi, A.-Eeckhout, P.-Ripley, S., EU Law, cit., 292; Lannon, E., (a cura di), The European Neighbourhood Policy’s Challenges, Bruxelles, 2012; Larik, J., Much More Than Trade: The Common Commercial Policy in a Global Context, in Evans, M.-Koutrakos, P., (a cura di), Beyond the Established Legal Orders. Policy Interconnections between the EU and the Rest of the World, Oxford-Portland, 2011, 13; Mendez, M., The Enforcement of EU Agreements: Bolstering the Effectiveness of Treaty Law?, in C.M.L. Rev., 2010, 1719; Müller-Graff, P.C., The Common Commercial Policy Enhanced by the Reform Treaty of Lisbon?, in Dashwood, A.-Maresceau, M., Law, cit., 188; Munari, F., La Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e il sistema delle fonti ad essa relative, in Dir. UE, 2011, 941; Tizzano, A., La personalità internazionale dell’Unione europea, in Dir. UE, 1998, 377; Id., (a cura di), Trattati dell’Unione europea, II, Milano, 2013, ed ivi i commenti agli articoli del TUE e del TFUE sopra indicati; Van Elsuwege, P., External action after the collapse of the pillar structure: in search of a new balance between delimitation and consistency, in C.M.L. Rev., 2010, 987; Pocar, F.-Baruffi, M.C., (a cura di), Commentario breve ai trattati dell’Unione europea, Padova, 2014, e ivi commenti agli articoli del TUE e del TFUE sopra indicati.