Abstract
Sebbene rappresenti solo il preludio di una complessa attività processuale contemplata dalla legge nel rispetto ed a garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo, l’azione penale è autonoma espressione di alcuni dei più importanti principi cui è ispirato il nostro ordinamento. Sintomatico è il costante interesse interpretativo che giurisprudenza e dottrina rivolgono a quest’istituto che, coniugando esigenze di tutela del diritto di legalità e di uguaglianza, rischia, così come disciplinato, di causare inutili ingorghi della macchina giudiziaria con questioni la cui trattazione, sebbene normativamente demandata alla competenza del giudice penale, troverebbe adeguata sede innanzi a ben altri organi giudiziari.
L’attribuzione esclusiva dell’esercizio di questo potere al pubblico ministero, se da un lato garantisce una autonomia volta ad escludere qualsivoglia contaminazione politica ed istituzionale dell’azione penale, dall’altro è foriera di significativi dubbi circa l’effettiva capacità di quest’organo di far fronte al consequenziale enorme carico di cui è gravato. Il rischio è quello di incorrere in possibili valutazioni discriminatorie che, seppur fisiologiche, inducano l’organo inquirente a riservare maggiore attenzione ad alcuni reati piuttosto che ad altri, tacitamente cassati prima ancora che il loro tempo di prescrizione legale sia compiuto.
Il tema dell’azione penale presenta particolare complessità argomentativa oltre che una forte problematicità, laddove investe categorie dogmatiche e scelte ideologiche di più ampio respiro, difficilmente riassumibili in poche battute.
In linea generale è possibile affermare che l’azione penale consiste nella prerogativa del pubblico ministero di richiedere l’intervento dell’organo giurisdizionale allo scopo di ottenere l’emissione di un provvedimento di natura decisoria a definizione del procedimento penale.
Posto che la dinamicità di detto istituto risiede nella sua stessa propulsività(Dominioni,O., L’azione penale, in Dig. pen., IV, Torino, 1999, 401 ss.), è evidente come esso rappresenti lo strumento mediante il quale si è inteso precludere la possibilità che sia l’organo giurisdizionale ad attivare il procedimento penale, onde garantirne la funzione di organo imparziale e super partes. Ne procedat iudex ex officio(Orestano, R.,Azione in generale (storia del problema), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 799 e ss.; Leone,G., Azione penale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 851).
Il pubblico ministero, dunque, una volta espletati tutti gli accertamenti necessari e volti a verificare la attendibilità della notitia criminis e l’ascrivibilità della stessa ad un determinato soggetto, rivolge la propria richiesta al giudice competente, affinché si pronunzi circa la fondatezza della stessa, mediante la proposizione di un formale atto di imputazione contenente l’enunciazione del fatto storico riferito alla condotta dell’imputato, oltre che l’individuazione precisa della norma di legge che si assume violata.
La caratteristica della obbligatorietà dettata – com’è noto – dall’art. 112 della Carta costituzionale e secondo cui «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale», prescinde dalla fondatezza della pretesa penale stessa ed è imperniata proprio sulla esclusiva titolarità del pubblico ministero di esercitarla d’ufficio. In tale ottica, tuttavia, l’art. 50 c.p.p., in ragione della evidente necessità di impedire un inutile quanto gravoso automatismo tra la notizia di reato ed il processo penale, interviene a fissare dei limiti all’applicazione del disposto costituzionale, stabilendo che tale dovere di agire compete al p.m. solo quando «non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione»(speculare al dibattito sui caratteri dell’azione penale è stato da sempre il dibattito sulla opportunità di introdurre il principio di esercizio discrezionale dell’azione penale, proprio di altri sistemi giuridici. A sostegno di questo orientamento si è fatto riferimento ai cosiddetti reati “bagattellari” rispetto ai quali l’attivazione della macchina processuale rappresenta un enorme, quanto ingiustificato, spreco di energie. A riprova della sussistenza di un già consolidato orientamento teso a ridimensionare il principio di cui all’art. 112 Cost., si è osservato come nella prassi si tenda a dare la precedenza alla trattazione di procedimenti più importanti, con la conseguenza che, di fatto, si perviene alla non punibilità di reati più lievi. Così Lozzi, G.,in Lezioni di procedura penale, Torino, 2002, 97, 98. In tal senso si è anche sostenuto che la formalizzazione di tale prassi non rappresenterebbe una violazione dell’art. 112 Cost., poiché essa, prescindendo da una valutazione discrezionale della singola notizia di reato, avrebbe riguardo a criteri generali e troverebbe la propria spiegazione nel limite oggettivo degli Uffici giudiziari a smaltire il carico di lavoro. Così Zagrebelsky, G., in Cass. pen., 1991, 362 ss. In conclusione, al fine di non vanificare l’obbligatorietà dell’azione penale ed i connessi principi di legalità ed uguaglianza, si è a più riprese suggerito un coraggioso quanto necessario processo di depenalizzazione delle fattispecie criminose meno gravi, onde garantire la effettività della sanzione penale, almeno per i reati per i quali essa appaia indispensabile). In tal modo, pur preservando il principio della obbligatorietà dell’azione penale, che nell’ambito del procedimento penale rappresenta un’irrinunciabile garanzia in termini di uguaglianza tra i cittadini, il legislatore ha inteso ridurre il rischio di un ingiustificato aggravio della macchina della giustizia, basato su elementi probatori evidentemente incapaci di sostenere la fondatezza dell’imputazione nel corso dell’accertamento processuale. Né, secondo giurisprudenza costante, risulta foriera di perplessità sul punto la previsione, pur contemplata nella stessa disposizione di legge, di subordinare l’esercizio dell’azione penale per determinati reati a prestabilite condizioni di procedibilità (la regola della officiosità dell’azione penale, priva di valenza costituzionale in quanto enunciata esclusivamente come regola di normazione ordinaria dal comma 2 dell’art. 50 c.p.p., trova le proprie eccezioni legislative nelle cosiddette condizioni di procedibilità che, laddove previste come necessarie per l’inizio del procedimento penale, precludono l’esercizio dell’azione all’Ufficio di Procura). In tal caso, si è infatti osservato, il Legislatore, pur senza contravvenire al principio di obbligatorietà, ha inteso bilanciare il concreto interesse della presunta persona offesa dal reato ad ottenere la persecuzione dello stesso, con l’interesse della collettività a ripristinare l’ordine giuridico eventualmente violato (C. cost., 12.5.1982, n. 89 e 28.12.1984, n. 300).
Una volta esercitata, l’azione penale non rimane nella disponibilità del pubblico ministero, sicché l’unico epilogo che può scaturirne consiste in un provvedimento di natura giurisdizionale, che implica la garanzia di un necessario vaglio da parte dell’organo giudicante, indispensabile a completare il procedimento penale. Detta irretrattabilità, ricavata dal comma 3 dell’art. 50 c.p.p., secondo cui «l’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge», rappresenta un’ulteriore caratteristica dell’istituto in esame ed appare direttamente connessa al suddetto requisito della obbligatorietà, del quale risulta immediata promanazione.
Può ritenersi ormai consolidata la tesi secondo cui il canone della obbligatorietà dell’azione penale rappresenta un fondamento imprescindibile per il rispetto del principio di eguaglianza tra i cittadini (art. 3 Cost.) (C. cost., 12.7.1979, n. 84. Nel disegno del Costituente il principio della obbligatorietà dell’azione penale venne concepito come strumento per conferire il carattere della legalità alla funzione del pubblico ministero: organo destinato ad operare nella sua funzione preminente di accusa nel processo penale, tenuto ad osservare il principio di legalità. Così Calamendrei, P., Commissione per la Costituzione, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, a cura della Camera dei Deputati- Segretariato generale, VIII, Roma, 1971, 1993). Ciò in quanto, in virtù di tale connotato perentorio, la possibilità di valutazioni discrezionali dei fatti di reato attinenti alla gravità, ovvero alla lesività o cronologia delle condotte penalmente rilevanti, sarebbe formalmente preclusa a favore di una titolarità esclusiva ed obbligatoria del pubblico ministero rispetto all’esercizio dell’azione penale, ogni qual volta ve ne siano oggettivamente i presupposti (in senso parzialmente contrario, Dominioni, O., L’azione penale, in Dig. pen., IV, Torino, 1999, 408 ss., secondo cui il significato del principio di obbligatorietà è stato a lungo enfatizzato, sia sotto il profilo dei suoi contenuti politici che per quelli normativi, laddove si è inteso conferirgli una valenza legata all’intera azione di persecuzione penale. Inoltre, attesa la assenza nella legge delega del 1987 di direttive in tal senso, la esclusività dell’azione penale è, evidentemente, espressione di una libera scelta del Legislatore delegato, che non trova immediato avallo neanche nell’orientamento della Corte costituzionale, secondo cui detta esclusività non è conseguenza necessaria del principio di obbligatorietà sancito dall’art. 112 Cost. Così, già sotto la vigenza del codice di rito penale abrogato, C. cost., n. 84/1979). Il condizionale, tuttavia, appare d’obbligo in quanto, benché suggestive, dette osservazioni di fatto postulano che negli ordinamenti degli altri Stati civili, in cui il principio di obbligatorietà risulta talora addirittura negato, il principio di eguaglianza di fronte alla legge penale sia sostanzialmente trascurato (Chiavario, M., Diritto Processuale penale, Profilo istituzionale, Torino, 2007, 118, per il quale «vi sono paesi in cui vige l’opposto principio di opportunità dell’azione penale ... nei quali la risoluzione di esercitare o non esercitare l’azione penale si basa su valutazioni discrezionali nell’interesse pubblico a perseguire un reato in concreto. In altri ordinamenti … si dà per scontato che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale … valga in generale, ma esso non è iscritto come tale nella Costituzione e viene piuttosto ricavato da altri principi ivi contenuti … soprattutto in quanto ricavato dal sistema … esso non costituisce, in quell’ordinamento, una regola rigida ed assoluta, ma conosce parecchi temperamenti e deroghe esplicite a livello di legislazione ordinaria, tanto che spesso si ritiene che esso sia ormai soppiantato, nell’insieme della realtà normativa, dall’opposto principio di ‘opportunità’, soggetto peraltro a condizionamenti e controlli»).
Malgrado gli orientamenti contrastanti, a sostegno della imprescindibilità del principio di obbligatorietà dell’azione penale si è a più riprese sostenuto che, oltre a rappresentare una garanzia diretta per la collettività sotto il profilo del trattamento procedimentale del singolo individuo, detto principio rappresenta, altresì, fonte di garanzia indiretta per i cittadini, poiché costituisce punto di convergenza di principi basilari del sistema, quali il principio di indipendenza del p.m., dettato dall’art. 101 Cost. (l’indipendenza del pubblico ministero, oltre ad essere stata stabilita dalla Costituente, che ne ha definitivamente escluso il rapporto diretto con il potere esecutivo, sarebbe ulteriormente garantita anche dalla impossibilità per gli altri poteri in genere, di interferire con l’esercizio delle sue funzioni), nonché quello della legalità penale e processuale, distintamente contemplati negli artt. 25, comma 2, e 111, comma 1, Cost., nell’ambito di un sistema di reciproche implicazioni, nel quale il rispetto dell’un principio rappresenta garanzia per il rispetto di tutti gli altri (Conti, C., in Archiviazione, in Trattato proc. pen., III, Torino, 2009, 731, 732).
Tuttavia, come già accennato, benché la norma contempli ineludibilmente l’obbligo per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale senza alcun distinguo nell’ambito della regola generale (obbligo che, inizialmente inteso quale pretesa punitiva dello Stato, è stato, nel tempo, interpretato quale «dovere di punire», «avente il proprio presupposto costitutivo nella fondatezza storica e giuridica dell’accusa». Così, Dominioni, O., Azione penale, cit., 399; nonché Cordero, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, 138 ss.), è ormai dato pacifico che non sussiste alcuna consequenzialità automatica tra l’iscrizione della notitia criminis nell’apposito registro ed il processo. Diversamente opinando si incorrerebbe nell’insopportabile rischio di generare un improbabile sistema giudiziario fatto di procedimenti infondati ed ingiustamente lesivi dei diritti fondamentali dell’individuo, anche in contrasto con il principio di non colpevolezza dettato dall’art. 27, comma 2, Cost. In tal senso, infatti, non è ultroneo evidenziare come il diritto di eguaglianza dei cittadini sarebbe violato anche laddove la norma non imponesse un esercizio dell’azione penale adeguatamente giustificato da elementi probatori utili a dimostrarne la fondatezza (Lozzi, G., L’udienza preliminare, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, 154). Ciò in quanto il riverbero, spesso devastante, del procedimento penale deve essere quanto meno giustificato dall’esistenza di un fumus di colpevolezza fondato e corroborato. Tale interpretazione normativa, tuttavia, seppur non esclude, di fatto, la possibilità da parte delle procure di azioni temerarie scaturenti da presupposti quanto meno opinabili, tenta, se non altro, di limitarne l’incidenza nella regolare amministrazione della macchina della Giustizia.
Dunque, il pubblico ministero ha il “dovere” di esercitare l’azione penale, sempre che ve ne siano i presupposti, intesi non solo quali condizioni di procedibilità e di legittimità in genere, ma anche in termini di presupposti di merito a sostegno della attendibilità delle accuse a carico dell’indagato. La lettura della norma in tal senso, pur senza legittimare ipotesi di inerzie arbitrarie da parte dell’organo dell’accusa (il principio di obbligatorietà trova la propria ratio, infatti, non solo nella esigenza di scongiurare ipotesi di ingiustificate inerzie procedimentali, ma anche di escludere possibili pressioni esterne), se da un lato garantisce i connessi principi di eguaglianza e di legalità affermati in Costituzione, dall’altro, si impone a tutela del corretto funzionamento del sistema Giustizia nel rispetto dei relativi criteri guida di economia e speditezza, sul presupposto per cui un processo infondato rappresenta un’inutile spesa per lo Stato oltre che un ingiustificato appesantimento per gli Uffici giudiziari già in affanno.
Il concreto esercizio dell’azione penale avviene mediante la formalizzazione del capo di imputazione. Tale atto spetta, come detto, al pubblico ministero, il quale deducendo la pretesa punitiva dello Stato, si rivolge al potere giurisdizionale affinché provveda, alla fine del processo, all’emissione di un provvedimento definitorio. Questo atto segna la linea di demarcazione tra la fase del procedimento e quella del processo, nell’ambito del quale il p.m. assume formalmente la qualifica di parte contrapposta all’imputato ed all’ufficio di difesa (la qualifica di “parte” il pubblico ministero la acquisisce solo una volta iniziato il processo penale, poiché nella fase procedimentale delle indagini preliminari questi riveste ancora un ruolo “imparziale”, impegnato a garantire lo svolgimento di indagini coerenti con il fatto storico. Sul punto, tuttavia, la dottrina si pone, da sempre, in posizione contrastante, laddove ritiene che “l’organo dell’accusa” abbia, di fatto, una posizione sempre eccessivamente parziale per poter esser inteso, sia pur solo nella fase embrionale del procedimento penale, quale organo super partes).
Orbene, se è vero che unico titolare di detto potere di azione è il pubblico ministero, va da sé che questi possa provvedervi in qualunque forma ritenga opportuno; anche mediante una richiesta preliminare di riti alternativi, il cui atto formale deve contenere, a pena di nullità, la formulazione del capo di imputazione così come ascritto all’imputato. Rispetto a dette iniziative, tuttavia, il giudice per le indagini preliminari detiene un diretto potere di controllo (il gip, investito della richiesta di patteggiamento prim’ancora che il p.m. abbia formulato richiesta di rinvio a giudizio, ai sensi dell’art 447 c.p.p., può emettere sentenza di non luogo a procedere, sussistendone i presupposti ai sensi dell’art. 425 c.p.p.; Cass. pen., sez. I, 13.7.2004, n. 30465), che non consiste nell’apprezzamento circa la fondatezza delle pretese accusatorie, bensì nella verifica della sussistenza dei presupposti necessari per la modalità di azione prescelta (Cass. pen., sez. II, 27.3.2009, n. 13680; Cass. pen., sez. V, 3.2.2003, n. 4883, per cui il rigetto da parte del gip della richiesta di decreto penale di condanna avanzata dal p.m. comporta una regressione alla fase delle indagini preliminari. Sicché, quand’anche l’organo giurisdizionale chiamato a decidere abbia rigettato le richieste dell’accusa, quest’ultima detiene la facoltà di avanzare una successiva richiesta di archiviazione, non potendo la richiesta rigettata dal gip valere quale formale istruzione dell’azione. Di qui l’abnormità del provvedimento con cui l’organo giurisdizionale rigettasse la avanzata richiesta di archiviazione sul presupposto della irretroattività dell’azione penale).
Con la richiesta di rito alternativo, quindi, il pubblico ministero pone in essere un atto che è manifestazione di esercizio dell’azione penale, rivolto al giudice. Questo non incide direttamente su diritti sostanziali delle altre parti, sicché lo stesso deve ritenersi sottratto a strumenti di impugnazione diretta alla stregua del decreto con il quale il giudice dispone, in qualsiasi forma, il giudizio perché, quale che sia l’atto, esso ha una funzione di spinta processuale (Cass. pen., sez. VI, 18.9.2012, n. 35779, secondo cui, una volta intervenuto l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., la competenza passa in capo al gup doverosamente chiamato alla celere decisione) ed appartiene alla sfera potestativa del giudice investito della richiesta di vocatio in iudicium, non potendo in tal senso determinare alcuna regressione né alcuna situazione di stallo (così Cass. pen., sez. II, 18.9.2012, n. 35613 che, intervenendo sul potere del p.m. di avanzare richiesta di rito immediato per un indagato sottoposto a custodia cautelare, alla luce della nuova formulazione dell’art. 453, comma 1 bis, c.p.p. introdotto dall’art. 2, comma1, lett. g, d.l. 23.5.2008, n. 92, conv. in l. 24.7.2008 n. 125, ha affermato che il sindacato del gip attiene alla sola sussistenza delle condizioni della scelta del rito. Ma, per consolidato principio giurisprudenziale, un ipotetico errore nella scelta del rito non comporta – né ha mai comportato – nullità assoluta per violazione delle regole che preludono all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e ciò alla stregua dell’art. 178, comma 1, lett. b, c.p.p., in riferimento all’art. 179 vigente codice. Così anche Cass. pen., S.U., 26.3.2009, n. 25957).
Gli articoli 516 c.p.p. ss., inseriti sotto la rubrica «Nuove contestazioni», disciplinano l’esercizio dell’azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza.
Il pubblico ministero interviene sull’imputazione enunciata nell’atto che instaura il giudizio per adeguarla a quanto emerge dalle prove assunte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta, all’uopo corretta ed eventualmente ampliata. Ciò in quanto di scarsa utilità sarebbe la regressione alla fase delle indagini preliminari, tenuto conto che la retrocessione del procedimento si ridurrebbe a mera formalità con il solo scopo di riproporre l’accusa debitamente corretta, restando comunque irretrattabile l’azione esercitata. Detta modalità di azione non contrasta con il diritto di difesa nel corso del dibattimento, posto che in caso di nuove contestazioni il potere del p.m. viene subordinato al consenso dell’imputato, ai sensi dell’art. 518 c.p.p. nonché, nelle ipotesi di contestazioni di reato concorrente o circostanza aggravante, resta salvo il diritto dell’imputato di far ammettere le prove a discarico, o di chiedere un termine a difesa (art. 519 c.p.p.) (Cass. pen., sez. I, 16.10.2012, n. 40878 che afferma che: la locuzione “fatto nuovo”, di cui all’art. 518 c.p.p., denota un accadimento assolutamente difforme da quello contestato, e l’emergere in dibattimento di accuse in nessun modo rintracciabili nel decreto di rinvio o di citazione a giudizio. Per “fatto diverso” – che, ai sensi dell’art. 516 c.p.p., consente la modifica dell’imputazione – deve, invece, intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato).
Orbene, posto che la modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento mediante la imputazione di una nuova contestazione rientra nel potere esclusivo del pubblico ministero, in quanto promanazione del potere di esercizio dell’azione penale, diverse sono le ipotesi di nuova contestazione che vengono contemplate nel codice di rito. Rispetto all’ipotesi di fatto diverso (art. 516 c.p.p.) o di reato concorrente connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. a, c.p.p. (art. 517 c.p.p.), la norma non prevede né il consenso dell’imputato né l’autorizzazione del giudice.
Proprio in relazione a detta ultima ipotesi la Consulta, con sentenza del 26.10.2012, n. 236, è intervenuta a scardinare un sistema normativo secondo cui l’imputato, nel caso gli venga contestato un reato concorrente nel corso del dibattimento, non ha, rispetto a detto reato che forma oggetto della nuova contestazione, il diritto di richiedere al giudice del dibattimento la celebrazione del giudizio abbreviato.
Al riguardo, presupponendo la sostanziale equipollenza della contestazione del reato concorrente, operata ai sensi dell’art. 517 c.p.p., con gli atti tipici di esercizio dell’azione penale indicati dall’art. 405, comma 1, c.p.p., la Consulta ha ritenuto la illegittimità della norma, rinvenendo in essa un evidente contrasto con il principio di diritto di difesa dettato dall’art. 24 Cost. E detta posizione appare in linea con quella giurisprudenza costituzionale che, pur senza dimenticare il binomio “premialità-deflazione”, già con le sentenze n. 265, 30.6.1994 e n. 333, 18.12.2009 aveva, tuttavia, rinunciato alla indissolubilità del binomio ammettendo l’imputato a fruire del patteggiamento e del rito abbreviato nell’ambito di fasi processuali avanzate, sul presupposto che la logica dello scambio fra la riduzione della pena ed il risparmio di energie processuali dovesse comunque cedere di fronte all’esigenza di tutelare la pienezza delle garanzie difensive e l’osservanza del principio di eguaglianza. In sostanza, pur condividendo le esigenze di economia processuale da cui prende le mosse la disciplina dei riti alternativi nel codice di rito, l’orientamento della Corte è volto a sostenere che l’esigenza di corrispettività tra riduzione della pena e snellimento del procedimento non possa essere intesa come fine preordinato al diritto di difesa costituzionalmente sancito.
L’attuale codice Vassalli del 1989 non contempla alcuna ipotesi che riconosca all’organo giurisdizionale il potere di esercitare l’azione penale (nell’abrogato codice Rocco, invece, tali deroghe venivano contemplate sia con riguardo al processo pretorile, in cui nella fase anteriore al dibattimento non era prevista la figura del pubblico ministero, sia nel caso in cui il giudice istruttore, laddove non ritenesse di accogliere la richiesta di archiviazione avanzata dal p.m., aveva diretta facoltà di disporre l’istruzione formale del processo). Tuttavia, la disposizione di cui all’art. 409 c.p.p., in materia di imputazione coatta, parrebbe consentire una sorta di “ingerenza” da parte del gip rispetto alle scelte del p.m., provocando in tal modo una violazione del principio di autonomia del pubblico ministero (così Lozzi, G., Lezioni di procedura penale, cit., 105, secondo cui il pubblico ministero viene in tal modo costretto a formulare un’imputazione contro la propria volontà).
Tale previsione normativa, infatti, nel consentire al gip di imporre l’azione penale al p.m., presta il fianco a legittime critiche anche in ragione della declaratoria di incostituzionalità espressa dalla Corte costituzionale con sentenza 20.4.2009, n. 121 avente ad oggetto il comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p. Detto comma, invero, introdotto dalla l. 2.2.2006, n. 46, prevedeva l’obbligo per l’organo inquirente di avanzare richiesta di archiviazione in relazione ai procedimenti per i quali la Corte di cassazione, intervenendo sulle misure cautelari richieste dall’Ufficio della Procura, avesse rilevato l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e, successivamente a detta pronuncia, non fossero poi stati acquisiti nuovi elementi a carico del soggetto indagato (C. cost., n. 121/2009, afferma l’illegittimità dell’art. 405, comma 1 bis, c.p.p., rilevando che l’anomalia della norma non risiede nel solo fatto che i gravi indizi di colpevolezza individuano un quid pluris rispetto alla sostenibilità dell’accusa in giudizio, ma anche nel senso che si tratta di due valutazioni essenzialmente distinte e fondate su grandezze disomogenee. Invero, la diversità dei criteri di giudizio adottati nella valutazione prognostica, che deve essere condotta ai fini dell’applicazione della misura cautelare personale e in sede di chiusura delle indagini preliminari, rappresenta il momento di maggiore impatto costituzionale della norma. A parere della Consulta, invero, il legislatore, nel pretendere di sovrapporre giudizi tra loro diversi sotto più profili,non ha adeguatamente valutato le prerogative del giudizio cautelare teso ad operare una valutazione prognostica di elevata probabilità di colpevolezza basata sui soli elementi già acquisiti dal p.m. Un giudizio valido solo rebus sic stantibus. A differenza del giudizio spettante al p.m. il quale, onde esercitare l’azione penale deve compiere una valutazione «di utilità del passaggio alla fase processuale: valutazione a carattere ‘dinamico’, che tiene conto anche di quanto può ritenersi ragionevolmente acquisibile nella fase dibattimentale». Sul punto, più di recente, C. cost., ord. 26.2.2010, n. 78 rimarca come la norma in questione sia stata già rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc dalla ricordata declaratoria di incostituzionalità n. 121/2009). La motivazione a fondamento della pronuncia della Consulta, per le argomentazioni in essa esposte, risuona come una indiretta valutazione di illegittimità anche con riguardo alla disposizione del citato art. 409 (in dottrina vedasi anche Conti, C., Incostituzionale la richiesta coatta di archiviazione: la Consulta tra principio di incidentalità e di preclusione, in Dir. pen. e proc., 2009, 11, 1367. Invero, con la sentenza in parola la Corte ha affermato la sostanziale non sovrapponibilità del giudizio rimesso alla Corte di Cassazione ex art. 273 c.p.p. e quello sul fumus commissi delicti spettante al pubblico ministero all’esito delle indagini preliminari. Essi, infatti, presentano differenze strutturali imprescindibili, posto che il metro di accertamento utilizzato dalla suprema Corte è evidentemente eterogeneo «per certi aspetti anche più rigoroso, per certi altri più debole», rispetto al giudizio di sostenibilità dell’accusa in giudizio, la cui valutazione, da un lato, si pone più rigorosa, poiché tesa ad una prognosi di condanna, ma al tempo stesso più debole, perché fondata su elementi parziali e non sottoposti alla verifica del contraddittorio. Così Bonini, V., Illegittimo l’obbligo di richiesta di archiviazione derivante dal giudicato cautelare sull’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: ancora un colpo di scure sulla "legge pecorella" (a proposito della sent. 121/2009 della Corte costituzionale), in Legisl. pen., 2009, 3, 541 e ss.).
Tale modifica, invero, aveva quale lapalissiana finalità quella di responsabilizzare maggiormente l’Ufficio del pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni, allo scopo di combattere una malsana prassi, diffusa presso alcuni uffici delle Procure (per analoghe considerazioni, Garuti, G.,Dall’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento ai nuovi “vincoli” in punto di archiviazione e di condanna dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2006, 811) caparbiamente adusi a promuovere dibattimenti inutili la cui infondatezza indiziaria risultava già conclamata dall’acquisito quadro indiziario (Bricchetti, R.-Pistorelli, L., Suprema Corte: vincolo inedito del p.m., in Guida dir., 2006, 10, 62.) La pur valida ragion d’essere di tale introduzione normativa non ha, tuttavia, soddisfatto il Giudice delle leggi, il quale ha ritenuto che detto comma fosse causa di evidente violazione dei principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di obbligatorietà (art. 112 Cost.) (sul punto Ferrua, P.,La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2007, 617) ed avesse, oltretutto, gravi ripercussioni anche sull’indipendenza del pubblico ministero, la cui attività sarebbe stata, così, fortemente vincolata dalla volontà del Supremo Organo giurisdizionale, senza avere neanche la possibilità di dolersi del provvedimento del giudice teso ad ottenere, conseguentemente, l’archiviazione del procedimento (secondo la sentenza in parola, infatti, ciò che si evinceva nettamente dal disposto normativo introdotto era una «ingiustificata disparità di trattamento fra fattispecie identiche sul piano sostanziale», poiché a parità di condizioni, le scelte del pubblico ministero in punto di iniziative cautelari e la motivazione del provvedimento de libertate possono condizionare l’assetto del potere di azione. In tale ottica, a parere della Corte, la norma censurata rischiava di trasformarsi in una sorta di sanzione extra ordinem per le iniziative cautelari inopportune dell’organo dell’accusa, la cui inaccettabilità sul piano costituzionale nasceva proprio dal suo fungere da discriminante tra le posizioni degli indagati, in rapporto ad attività addebitabili all’organo dell’accusa).
Orbene, pur condividendo le ragioni della pronuncia costituzionale in punto di legittimità, laddove esse hanno riguardo alla differente consistenza probatoria degli indizi necessari per l’applicazione della misura cautelare rispetto a quelli utili per la richiesta di rinvio a giudizio, pervenendo alla conclusione per cui la valutazione degli uni non può fungere anche da possibile filtro per eventuali imputazioni infondate, le perplessità riguardo il diverso apprezzamento giurisprudenziale delle norme in esame nasce sulla affermazione della illegittimità dell’ingerenza che la Corte di cassazione avrebbe, in tal modo, avuto in un’attività di esclusiva competenza del pubblico ministero. Sul punto, invero, potrebbe osservarsi che, in entrambi i casi normativi, il Legislatore ha contemplato una sorta di controllo sull’esercizio dell’azione penale che, nel caso di cui all’art. 409 c.p.p., tende a preservare il principio di obbligatorietà, mentre in quello di cui all’abrogato art. 405, comma 1 bis, c.p.p., pareva volervi derogare, seppur sul presupposto dell’inesistenza dei gravi indizi di colpevolezza emergenti dal fascicolo delle indagini (Cass. pen., sez. VI, 8.3.2007, n. 9943 afferma che in tema di impugnazioni riguardanti provvedimenti su misure cautelari personali, allorché queste siano successivamente revocate nelle more del procedimento incidentale, non é configurabile un interesse alla impugnazione in funzione del conseguimento della pronuncia della Cassazione sulla insussistenza degli indizi di colpevolezza ex art. 405, comma 1 bis, c.p.p., in quanto il giudice di legittimità non si pronuncia sulla mancanza di indizi, bensì il suo sindacato – salvo che non sia dedotta la violazione di legge sostanziale, ai sensi dell’art. 606, lett. b, c.p.p. – riguarda, di regola, il difetto di motivazione sul fumus commissi delicti). In entrambi i casi, tuttavia, immediata conseguenza del dettato normativo in esame è l’evidente ingerenza del potere giurisdizionale nell’attività del p.m. Con l’aggravante che, a differenza di quanto accadeva in vigenza del citato comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., che attribuiva al pubblico ministero l’obbligo di formulare la richiesta di archiviazione solo ove, successivamente all’intervento della Corte, non fossero poi stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini, l’art. 409 c.p.p. non consente alcuna alternativa al p.m. rispetto all’imputazione coatta impostagli dal gip. Il che non appare giustificabile neanche in considerazione del rilievo per cui il giudice per le indagini preliminari è preposto proprio al controllo giurisdizionale dell’attività della pubblica accusa. Ciò in quanto, da un’analisi prima facie della normativa che ne disciplina le funzioni, sembra potersi evincere la volontà del legislatore di escludere questo organo giurisdizionale dalla categoria dei giudici che procedono, rimarcando volutamente la natura prettamente incidentale del suo intervento (Giannone, A., Sub art. 279 c.p.p., in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, Torino, 1990, 93 e ss.), e conferendogli, in tal modo, la chiara veste di giudice ad acta, “senza fascicolo”, il cui intervento resta vincolato alla concreta investitura del procedimento ad iniziativa di una delle parti e la cui posizione di imparzialità e di equidistanza, in particolare dall’accusatore, funge da garanzia soprattutto in caso di applicazione di provvedimenti restrittivi a carico dell’indagato (sul punto Ferrua, P., Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini e nell’udienza preliminare, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, III, Il nuovo processo penale. Studi di diritto straniero e comparato, Milano, 1991, 55, 56, afferma che la presunta terzietà del giudice rispetto all’oggetto della convalida, invero, non potrà non essere compromessa significativamente dal legame organico che questi ha con l’accusatore, con il quale condivide la modalità del reclutamento, mediante il medesimo concorso ed appartiene al medesimo corpo. A parere dell’Autore l’unica reale soluzione al difficile problema della distinzione funzionale tra giudice ed accusatore risiede nella netta separazione della magistratura requirente da quella giudicante. Grevi, V., Funzione di garanzia e funzione di controllo del giudice nel corso delle indagini preliminari, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, 27).
La titolarità delle indagini da parte del pubblico ministero non implica la amovibilità del procedimento dalla competenza del magistrato cui è stato assegnato al momento della iscrizione nel registro generale. Invero, mediante l’istituto dell’avocazione delle indagini, il legislatore ha inteso riconoscere una sorta di potere disciplinare interno alle procure, finalizzato alla sola redistribuzione di competenze tra gli uffici dell’accusa ed, in tal senso, applicabile nei soli casi di inerzia del pubblico ministero ed a mezzo di decreto motivato. Istituto tradizionale in applicazione del quale la procura generale, nella fase anteriore al giudizio, si sostituisce alla procura di primo grado, l’avocazione è stata tenuta in vita anche nel vigente codice di procedura penale, pur nella convinzione che la sola applicazione ristretta dello stesso sia in grado di escluderne una gestione patologica. Sul punto, infatti, durante la vigenza del codice Rocco, che riconosceva ampia discrezionalità, al riguardo, alle procure generali, non poche polemiche furono sollecitate proprio dall’uso talora opinabile che ne veniva fatto (Chiavario, M., in Diritto processuale penale, cit., 137). Al riguardo, posto che nel nostro ordinamento vige il principio del favor actionis, che tende a favorire l’esercizio dell’azione penale, è evidente come la formale richiesta di archiviazione da parte del p.m. non sia sufficiente ad escludere l’intervento della procura generale (il potere di avocazione del procuratore generale presso la Corte di appello, previsto dall’art. 421 bis c.p.p., assume un valore definibile sanzionatorio, poiché interviene allorquando, in seguito alle richieste di integrazione probatoria avanzate dal gup, il p.m. perseveri nella sua condotta omissiva ovvero parzialmente satisfattiva delle richieste del giudicante. Così Caraceni, L., in Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Milano, 2007, 311) tanto più allorquando sorge contrasto sull’accoglimento di una richiesta di archiviazione (secondo Cass. pen., sez. V, 25.7.2011, n. 29846, «l’ingiustificata richiesta di archiviazione, comportando una rinuncia all’esercizio dell’azione penale, è considerata come ipotesi di inerzia del p.m., che legittima il Procuratore Generale della Corte di Appello a disporre l’avocazione delle indagini»).
Il decreto di avocazione, emesso all’esito delle indagini da svolgersi a cura del procuratore generale, presenta il carattere della inoppugnabilità, trattandosi di atto interno al rapporto gerarchico che informa l’Ufficio del pubblico ministero e, quindi, sottratto al controllo giurisdizionale (Cass. pen., sez. I, 31.3.2008, secondo cui qualora il pubblico ministero rimanga inattivo, occorre avvalersi del rimedio dell’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale ex art. 412 c.p.p., ma va esclusa l’impugnabilità dei provvedimenti del p.m. attesa la loro natura non giurisdizionale, bensì di atti di parte). Esso, quand’anche emesso all’esito della comunicazione disposta dall’art. 409 c.p.p., così come sancito dall’art. 412, comma 2, c.p.p., non contempla quale presupposto ineludibile il contraddittorio tra le parti, sicché, non genera alcun tipo di invalidità la mancata fissazione di una nuova camera di consiglio in seguito all’esito infruttuoso dell’indicazione di ulteriori indagini da parte del gip al pubblico ministero (Cass. pen., sez. V, 10.7.2008, n. 28636). Diversamente, invece, l’omesso avviso al procuratore generale dell’udienza camerale disposta a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione integra la specifica nullità contemplata dall’art. 127, comma 5, c.p.p., a sua volta richiamata dall’art. 409, comma 6, c.p.p. Essa, infatti, in quanto tesa a rendere possibile la valutazione circa l’opportunità dell’esercizio del potere di avocazione delle indagini, comporta la imprescindibilità dell’avviso al p.g., quale “persona interessata” alla camera di consiglio, ai sensi del citato art. 127 c.p.p. (in tal senso, Cass. pen., sez. VI, 24.11.2011, n. 43656; Cass. pen., sez. VI, 2.12.2010, n. 42940; Cass. pen., sez. VI, 23.4.2003, n. 19052). Tale interpretazione della norma, inoltre, ancor più appare condivisibile in quanto rafforza l’idea secondo cui l’istituto dell’opposizione alla richiesta di archiviazione configura un sistema equilibrato, in forza del quale si vuole rendere effettivo il principio di obbligatorietà dell’azione penale in caso di inerzie e lacune investigative del pubblico ministero (Cass. pen., sez. I, 20.1.2010, n. 2473, secondo cui, nel contempo, il legislatore con detta previsione normativa ha inteso anche evitare istanze di prosecuzione delle indagini meramente pretestuose o dilatorie, offrendo al giudice, in tale evenienza, lo strumento per disporre de plano l’archiviazione).
I caratteri essenziali dell’azione penale costituiscono oggetto di approfondimenti e critiche da parte della dottrina (da ultimo Valentini, C.,Azione penale, in Dig. pen., Torino, 2013) e della giurisprudenza, in ragione della diretta connessione dell’istituto ai fondamentali principi sanciti nella nostra Carta costituzionale, a tutela della persona oltre che della collettività.
L’importanza stessa dell’istituto rende, tuttavia, particolarmente complesso il raggiungimento di possibili soluzioni, tutte finalizzate al raggiungimento di traguardi solidalmente condivisi, ma spesso oggetto di stigmatizzazioni operate a vantaggio dell’una o dell’atra esigenza giudiziaria. Sicché, se da un lato la Corte costituzionale, sapientemente, afferma che il principio di obbligatorietà dell’azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice, (C. cost., 28.1.1991, n. 88) di contro, appare altrettanto condivisibile l’orientamento che vuole adeguatamente tutelato anche il diritto dell’indagato a non essere sottoposto ad inutili procedimenti penali, a garanzia del principio di presunzione di innocenza (Sammarco, A.A., La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, 161 ss.). Ed allo stesso modo, se per un verso appare sacrosanto il principio della titolarità esclusiva dell’azione penale da parte del pubblico ministero, dall’altro è indispensabile individuare una adeguata modalità di controllo che ne garantisca la corretta ed equa gestione a tutela, certamente, dell’obbligatorietà dell’azione, ma al tempo stesso anche del diritto di uguaglianza, nella sua accezione positiva ma anche negativa. Dunque una forma di controllo che non privi l’organo giudiziario della sua indispensabile discrezionalità, ma che al tempo stesso prescinda da presunzioni proprie di un sistema foriero di pericolosi automatismi.
L’auspicio resta, evidentemente, che le costanti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali conducano, infine, ad un sistema normativo satisfattivo delle comuni esigenze, nel rispetto dei principi e dei diritti fondamentali sanciti nel nostro ordinamento.
Art. 405 c.p.p.; art. 112 Cost.
Bonini, V., Illegittimo l’obbligo di richiesta di archiviazione derivante dal giudicato cautelare sull’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: ancora un colpo di scure sulla "legge pecorella" (a proposito della sent. 121/2009 della Corte costituzionale), in Legisl. pen., 2009, 3, 541 e ss; Bricchetti, R.-Pistorelli, L., Suprema Corte: vincolo inedito del p.m., in Guida dir., 2006, 10, 62; Calamendrei, P., Commissione per la Costituzione, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, a cura della Camera dei Deputati-Segretariato generale, VIII, Roma, 1971, 1993; Caraceni, L.,in Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Milano, 2007, 311; Chiavario, M., Diritto Processuale penale, Profilo istituzionale, Torino, 2007, 118; Conti, C., in Archiviazione, in Trattato proc. pen., III, Torino, 2009, 731, 732; Conti, C., Incostituzionale la richiesta coatta di archiviazione: la Consulta tra principio di incidentalità e di preclusione, in Dir. pen. proc., 2009, 11, 1367; Cordero, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, 138 ss.; Dominioni,O., L’azione penale in Dig. pen., IV, Torino, 1999, 401 ss.; Ferrua, P.,La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2007, 617; Ferrua, P., Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini e nell’udienza preliminare, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, III, Il nuovo processo penale. Studi di diritto straniero e comparato, Milano, 1991, 55, 56; Garuti, G.,Dall’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento ai nuovi “vincoli” in punto di archiviazione e di condanna dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2006, 811; Giannone, A., Sub art. 279 c.p.p., in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, Torino, 1990, 93 e ss.; Grevi, V., Funzione di garanzia e funzione di controllo del giudice nel corso delle indagini preliminari, in Il nuovo processo penale dalle indagini preliminari al dibattimento, AA.VV., Milano, 1989, 27; Leone,G., Azione penale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 851; Lozzi, G.,in Lezioni di procedura penale, Torino, 2002, 97, 98; Lozzi, G., L’udienza preliminare, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, 154; Orestano, R.,Azione in generale (storia del problema), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 799 e ss.; Sammarco, A.A., La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, 161 ss.; Valentini, C.,Azione penale, in Dig. pen., Torino, 2013; Zagrebelsky, G., in Cass. pen., 1991, 362 ss.