azione
Nel suo significato più generale – come attività od operazione posta in essere da un determinato soggetto – l’a. corrisponde al fare (ποιεῖν) aristotelico, che il filosofo greco contrappone al subire, ossia a tutte quelle modificazioni che il soggetto avverte in modo passivo e che danno luogo alle affezioni (sensazioni, passioni, emozioni). Dal punto di vista logico l’a. o l’agire – come il patire – è una delle dieci categorie studiate nell’Organon. Questo significa che può essere predicata di un soggetto, ma che non è un soggetto a sé stante, cioè una sostanza. Aristotele (Etica Nicomachea,VI) distingue l’a. umana in ποιήσις (la produzione di oggetti, propria delle arti e di cui si occupano i saperi tecnici) e πράξις (la sfera dell’agire umano in senso lato, che non si risolve nella creazione di oggetti ma ha il suo fine in sé stessa e di cui si occupano le scienze pratiche dell’etica e della politica). Tale distinzione è ripresa da Tommaso, che parla di a. transitiva, che passa dal soggetto agente nella materia esterna, e di a. immanente, che rimane nel soggetto (come accade nel sentire, nell’intendere, nel volere). Nell’ambito delle a. volontarie Tommaso distingue altresì tra a. elicite (l’atto stesso del volere) e a. comandate (l’attività fisica che si realizza in quanto voluta, come il camminare, il parlare, ecc.).
Se nella metafisica classica l’a. presuppone l’essere – giacché la capacità di essere agenti è un predicato della sostanza – tra il 18° e il 19° sec. si pongono le premesse di una concezione opposta, che fa dell’a. il momento di accesso alla verità. Tali premesse – espresse letterariamente da Goethe (che nel Faust traduce in principio erat verbum con «in principio era l’azione») – sono rintracciabili nel primato dell’a. morale affermato da Kant e soprattutto nella tesi fichtiana secondo cui l’assoluto (l’io) non è una sostanza ma un’attività che pone sé stessa e l’altro da sé, in una infinita lotta contro il non-io e una altrettanto infinita riaffermazione di sé. Al pensiero di Fichte si ispira la «filosofia dell’a.» di von Cieszkowski, esponente della sinistra hegeliana, che nei Prolegomeni alla filosofia della storia (1838) oppose all’essere del presente il dover essere dell’avvenire, che può essere realizzato solo dall’azione. Ma è soprattutto in relazione a determinate correnti della filosofia contemporanea che si può parlare di «filosofie dell’a.». Tale definizione si attaglia, in particolare, alle filosofie di ispirazione religiosa elaborate dai francesi Ollé-Laprune (➔), Blondel (➔) e Laberthonnière (➔), le quali – criticando l’astrazione del sapere intellettualistico – rintracciano nell’a. l’unione di vita e pensiero e quindi la sola dimensione in cui può essere colto l’uomo nella sua realtà (realtà di cui fa parte integrante l’insopprimibile tendenza verso la sfera trascendente). In Blondel tale concezione genera la caratteristica opposizione fra «volontà volente» e «volontà voluta», ed è la prima – mai soddisfatta delle proprie conquiste nella vita di tutti i giorni – che genera una tensione verso la sfera della trascendenza che apre la via alla fede. In Laberthonnière una concezione analoga produce la classica dicotomia fra intellettualismo greco, che considera Dio come un «motore immobile», e realismo cristiano, che invece concepisce Dio come a. eternamente vivificante. Caratterizzato da un chiaro senso del limite è invece il pragmatismo (➔), che può essere considerato una filosofia dell’a. in quanto fa della sfera pratica – la sfera delle azioni umane – il movente della nostra conoscenza e il criterio per stabilire il valore di verità delle nostre idee. La centralità dell’a. riceverà una declinazione socio-politica in Sorel (➔), per il quale l’a. è in grado di creare miti che costituiscono la sua stessa giustificazione: essa, in altre parole, produce autonomamente le condizioni del proprio successo e si svincola da qualsiasi limite razionale e fattuale. Divenuto uno dei teorici del sindacalismo rivoluzionario, Sorel scrisse le Riflessioni sulla violenza (1908), ispirandosi al vitalismo di Bergson, di cui aveva seguito i corsi al Collège de France, e sviluppando parallelamente una polemica radicale contro la democrazia parlamentare che lo spinse gradatamente verso la destra dell’Action française e verso il nascente fascismo italiano.
Il concetto di a. ha suscitato particolare interesse, sul finire del 20° sec., nell’ambito della filosofia analitica, dando vita a una «teoria dell’a.» che mirava a una soddisfacente definizione del concetto di a. umana e all’individuazione di modelli esplicativi cui sono riconducibili le correnti spiegazioni motivazionali dell’azione. Più che al tradizionale problema del determinismo etico, la riflessione contemporanea sull’a. rappresenta un «capitolo» della discussione sui rapporti mente-corpo. I due problemi presi soprattutto in cosiderazione sono: (1) come definire le azioni umane distinguendole dai movimenti corporei involontari; (2) come descrivere la struttura logica delle spiegazioni delle azioni umane. Il punto di partenza è dato dalle dottrine antimentalistiche di Ryle e Wittgenstein, i quali contestano la tesi (presente in Cartesio, Hume, Bentham e S. Mill) secondo la quale le a. umane sarebbero determinate da cause mentali (volizioni, desideri, intenzioni, motivi). Secondo la dottrina non causale dell’a. – che verrà ripresa ed elaborata da Anscombe, Peters, Hampshire, A. Melden, A. Kenny, von Wright – intenzioni e motivi non sono cause occulte dei comportamenti manifesti, bensì categorie linguistiche mediante le quali un movimento corporeo viene interpretato come a., cioè in termini di volontarietà e direzione verso uno scopo. Le a. sono così, per questi autori, comportamenti finalizzati o intenzionali che ricevono il loro senso dalle convenzioni linguistico- social i entro cui s i è stati educati, ossia in un contesto ermeneutico estraneo a quello naturalistico-meccanicistico (causale) a cui il positivismo ottocentesco e novecentesco avevano cercato di ricondurle. Per Anscombe e von Wright, in particolare, un movimento corporeo è un’a. solo se viene descritto come intenzionale. Tale descrizione, conseguentemente, diventa parte costitutiva dell’a. stessa. Per quanto influenti, le teorie non causali o ermeneutiche dell’a. ispirate alla filosofia della mente wittgensteiniana sono state spesso criticate per i loro presupposti eccessivamente culturalistici. Alla interpretazione di ispirazione wittgensteiniana si oppone quella «causalistica», che annovera tra i suoi maggiori sostenitori Davidson, Danto, Goldman, B. Brand. Tra le alternative a tali teorie la più influente è quella di Davidson (➔), il quale sostiene una teoria causale senza avallare una forma di dualismo cartesiano: le ragioni e le intenzioni sarebbero cause non in quanto eventi mentali ma in quanto eventi neurofisiologici di cui si danno descrizioni mentalistiche.
Aspetto dell’a. studiato soprattutto dalla sociologia. L’a. s. è l’a. che si svolge in concomitanza e intrecciandosi con quella di altre persone. Tale a. può essere istituzionale o extraistituzionale. Il primo modello è stato studiato soprattutto da Durkheim (➔) nelle Regole del metodo sociologico (1895), dove vengono evidenziati gli aspetti oggettivi dell’a. s., ossia quelli esercitati da entità dotate a qualsiasi titolo di potere coercitivo; il secondo da Weber in Economia e societa (1922), che evidenzia gli aspetti soggettivi dell’ a. umana dal punto di vista del calcolo razionale dei fini. Una sintesi dei due punti di vista è stata proposta da T. Parsons (La struttura dell’azione sociale, 1937; Il sistema sociale, 1951), secondo il quale l’a. s. deve essere studiata a vari livelli che sostanzialmente interagiscono fra di loro, creando una continua osmosi fra le motivazioni psicologiche e soggettive dell’a. e i rapporti oggettivi entro i quali essa viene necessariamente a manifestarsi. In questo contesto la classica distinzione di Weber fra «a. razionale rispetto allo scopo» e «a. razionale rispetto al valore» è apparsa non più sufficiente a descrivere la crescente complessità dell’azione sociale. F. Znaniecki in Azione sociale (1936) ha proposto una concezione «evoluzionistica» dell’a. s., secondo la quale essa rappresenta un adattamento progressivo verso fini stabiliti di volta in volta in relazione ai mezzi disponibili. Diversi tipi di approccio, ancora, sono offerti dalla teoria dei sistemi e dei gruppi sociali di W. Buckley (Sociologia e teoria dei sistemi, 1968) o dall’analisi di tipo statistico di A. Touraine (Sociologia dell’azione, 1965; Produzione della società, 1973).