AZIONE (V, p. 702)
È nella terminologia romana l'atto col quale il titolare di un diritto lo fa valere quando lo veda rinnegato o non soddisfatto da colui (o da uno di coloro) a cui spetta l'obbligo giuridico corrispondente.
Fra le idee espresse dal verbo agere, piuttosto che a quella alquanto vaga dell'agire o, mettersi in movimento per tutelare i propri interessi, la parola actio sembra riportarsi all'atto della recitazione o rappresentazione: infatti nel diritto repubblicano più antico, ancora vigente nelle parti essenziali quando la dottrina giuridica cominciò a elaborare i suoi concetti, le azioni consistevano in parole e gesti prestabiliti dai pontefici e che ciascun interessato doveva esattamente ripetere. Queste azioni - che più tardi, per la relazione in cui la maggior parte si trovava con la legge delle XII Tavole, si dissero legis actiones - si distinguevano con nomi allusivi alle fasi cerimoniali che erano caratteristiche di ciascuna.
Si chiamava manus iniectio (o legis actio per manus iniectionem) l'azione esecutiva che il creditore iniziava pigliando il debitore per il collo; pignoris capio l'azione, anch'essa esecutiva, consistente nel prendere dall'obbligato un pegno; condictio (da condicere diem = "fissare un giorno") quella per cui era prescritto un termine di 30 giorni fra l'impostazione della contr0versia e l'assegnazione del giudice; legis actio sacramenti quella in cui aveva luogo fra le parti la scommessa (sacramentum) di una somma da pagarsi all'erario in caso di soccombenza; infine legis actio per iudicis postulationem quella che, mancando di parole e gesti paiticolarmente notevoli, metteva in luce la domanda, rivolta al magistrato giusdicente, di assegnare ai contendenti un arbitro. Ma la preponderanza degli elementi formali non toglieva che la preferenza data all'una o all'altra azione s'ispirasse alle caratteristiche dei varî gruppi di rapporti controversi e di violazioni, né che qualche azione (e precisamente quella del sacrammtum, la cui applicazione era più generale) si scindesse in rem e in personam.
Lo svolgimento storico del processo si compie, anzitutto, con il togliere ai pontefici il monopolio della preparazione delle azioni, autorizzando così le parti a farsele preparare da esperti di loro fiducia, salvo al magistrato di accettarle o respingerle secondo che rispondano o meno ai principî del diritto materiale; successivamente (in massima dopo la legge Ebuzia) col consentire alle parti di esporre la loro situazione giuridica nel modo più semplice e confacente, concludendo con lo scegliere in un albo esposto nel tribunale medesimo una delle tante formulae di possibili controversie ivi messe a disposizione. Naturalmente, le formule sono tante quanti i tipi di rapporti giuridici che il diritto protegge (anzi aumentano di anno in anno a causa dei nuovi rapporti di cui il pretore assume la protezione); e la relazione d'interdipendenza che nel pensiero giuridico si stabilisce fra azione e formula fa sì che ci siano tante azioni quante formule si leggono nell'albo, denominate secondo il rapporto giuridico che proteggono o secondo il loro fine (l'actio locati, che il locatore può intentare in forza del contratto; l'a. iniuriarum con la quale chi ha sofferto ingiuria domanda la riparazione pecuniaria; l'a. communi dividundo, con la quale i condomini chiedono la divisione della cosa comune, ecc.).
Il significato della parola actio si fa peraltro in quest'epoca un po' oscillante. Mentre da un canto essa indica, con facile astrazione dal senso originario, l'atto con il quale chi si dice titolare di un diritto inizia il processo, in altri numerosi testi s'identifica con formula, sia considerando questa nella stesura tipica che si legge nell'albo, sia rappresentandosela nell'adattamento che di volta in volta subisce nel singolo processo; ma infine vi è qualche testo nel quale l'azione sembra essere considerata come il diritto (soggettivo) di perseguire giudiziariamente quello che ci è dovuto in forza di un rapporto di diritto materiale. Peraltro, anche in quest'ultimo accenno di costruzione giuridica (non approfondito dalla dottrina), il supposto diritto soggettivo non è considerato come rivolto verso lo stato (nel senso di una pretesa alla protezione giudiziaria), ma contro l'avversario; sicché in fondo va riconosciuto che per i Romani, e fino nello stesso diritto giustinianeo, l'azione è pur sempre, anziché un diritto, una dichiarazione di guerra allo scopo di attuare un diritto preesistente. Un rapporto giuridico nuovo sorge solo più tardi, quando con l'adattamento della formula al caso concreto e con la sua accettazione da parte dei contendenti si celebra la contestazione della lite: allora le pretese che le parti avevano l'una verso l'altra anteriormente al processo si trasformano nel dovere di accettare, in quelle date condizioni, la condanna o assoluzione o aggiudicazione che il giudice pronuncerà: ma il momento dell'azione è già superato a questo punto del processo.
Poco propensi alle classificazioni dei diritti e obblighi, i giuristi romani sono stati invece tratti dalle necessità di applicazione del sistema formulare a classificare in vario modo le azioni.
La più importante è la distinzione fra azioni in rem e in personam (reali e personali). In origine, l'azione in personam è un attacco alla persona, l'azione in rem un attacco alla cosa: la forma primitiva dell'una è la manus iniectio, dove il debitore è preso per il collo dal creditore; quella dell'altra è la vindicatio, apprensione contemporanea della cosa controversa da parte dei due contendenti. Oltre la proprietà, sono protetti da azioni in rem tutti gli altri diritti che noi chiamiamo assoluti: le servitù, l'usufrutto, l'appartenenza di un'eredità, le potestà familiari, perfino la libertà di chi è ingiustamente trattenuto come schiavo. Sono invece protetti da azioni in personam i diritti relativi, cioè essenzialmente i crediti da contratto e da delitto. L'idea che le azioni del primo tipo siano dirette contro la cosa e quelle del secondo contro la persona dà luogo anche in epoca avanzata a conseguenze notevoli: ad es., mentre il convenuto di un'azione in personam, se non è disposto a contestare la lite con l'attore, subisce senz'altro il procedimento fallimentare della bonorum venditio, il convenuto dell'actio in rem può sempre liberarsi consegnando la cosa o lasciando ristabilire l'esercizio del diritto controverso.
Altra distinzione è quella fra le azioni reipersecutorie (quibus rem persequimur) e le penali. Con le prime si vuole ricuperare quel che è nostro o avere quel che ci è stato promesso; con le seconde si pretende, da chi ci ha fatto torto, una pena pecuniaria, a titolo di vendetta e di riparazione. Le conseguenze sono notevolissime, per es., in tema di trasmissibilità delle azioni contro gli eredi e di concorso (elettivo o cumulativo) fra le azioni nascenti da una stessa situazione di fatto.
Altre classificazioni ancora si riportano alla struttura della formula, questa dipendendo a sua volta dalla fonte prima della protezione giuridica: se il rapporto è di quelli noti al diritto civile puro, la formula menziona un diritto (soggettivo) o un obbligo, e si dice, quindi, in ius concepta; se invece il rapporto non è protetto che dal pretore, la formula ne descrive i presupposti in termini di mero fatto, e si dice in factum concepta. Al pretore appartengono anche quelle imitazioni e adattamenti delle formule del diritto civile, che si chiamano actiones ficticiae o utiles o similmente.
Siamo rimasti nel campo del processo privato civile (secondo la terminologia attuale), perché nel processo pubblico (o penale) romano la parola actio, quantunque usata talvolta a indicare l'accusa intentata da qualsiasi cittadino, non ha mai avuto un deciso riconoscimento come termine tecnico. Talvolta è chiamata actio anche l'arringa pronunciata dall'accusatore (o dal suo patrono) davanti alla giuria criminale.
Bibl.: F. L. von Keller, Der römische Civilprocess und die Actionen, 6ª ed., a cura di A. Wach, Lipsia 1883; M. Wlassak, Actio, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, Stoccarda 1894, col. 303 segg.; L. Mitteis, Römisches Privatrecht, I, Lipsia 1908, p. 89 segg.; E. Betti, Il concetto dell'obblig. costruito dal punto di vista dell'azione, Pavia 1920; L. Wenger, Instit. des röm. Zivilprozessrechts, Monaco 1925, p. 10 segg.; B. Biondi, Diritto e processo nella legisl. di Giustiniano, in Conferenze p. il XIV Centen. delle Pandette, Milano 1931, p. 129 segg.; V. Arangio-Ruiz, Istit. di dir. rom., 4ª ed., Napoli 1934, p. 107 segg.
Azione penale (V, p. 703).
Secondo la nuova legislazione italiana, l'azione penale è iniziata ed esercitata dal Pubblico Ministero o dal pretore per i reati di sua competenza (art. 74 cod. proc. pen.); come tale essa è pubblica e viene iniziata d'ufficio (art. 1 cod. proc. pen.). In casi eccezionali però, il promuovimento dell'azione penale da parte dell'organo pubblico è subordinato alla presentazione della querela (art. 120-126 cod. pen.; art. 9-14 cod. proc. pen.), della richiesta (art. 127-129 cod. pen.; art. 5 cod. proc. pen.), dell'istanza (art. 130 cod. pen.; art. 6 cod. proc. pen.). Sono queste delle condizioni di procedibilità.
L'azione penale è iniziata in seguito a rapporto, referto, denuncia o ad altra notizia del reato. Però, se il Pubblico Ministero (o il pretore) ritiene che non si debba procedere per la manifesta infondatezza del rapporto, del referto, della denuncia, della querela o dell'istanza, e non ha già fatto richiesta per l'istruzione formale o per il decreto di citazione a giudizio, può ordinare la trasmissione degli atti all'archivio. Di questa trasmissione devono essere informati il procuratore generale e il procuratore del re, i quali possono richiedere gli atti e disporre invece che si proceda (art. 74, II cap.). Questa possibilità di archiviazione degli atti rappresenta un'importante innovazione sulla legislazione processuale precedente.
L'azione penale è irretrattabile: una volta iniziata, deve procedere sino al suo esaurimento e superare ogni ostacolo che non sia dalla legge espressamente preveduto (art. 75 cod. proc. pen.).
Le principali eccezioni alla regola dell'irretrattabilità sono date dal diritto di remissione, da quello di oblazione volontaria, dalla potestà di amnistia e dagli altri casi di rinunzia, assoluta o condizionata, totale o parziale, dello stato alla pretesa punitiva.
Bibl.: V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, I, Torino 1931; E. Massari, Il processo penale, Napoli 1932.