AZZONE (Azone, Azzo, Azo; in qualche documento Azzo Soldani, Azzolino; senza fondamento il prenome Domenico; dubbio il cognome Porci, senz'altro erroneo Ramenghi)
Fu sua patria, secondo ogni verosimiglianza, quella stessa città di Bologna nel cui studio insegnò diritto civile per non meno di trent'anni, tra gli ultimi del sec. XII e il principio del XIII, portando la scuola dei glossatori al punto più alto del suo sviluppo scientifico e della sua rinomanza in Italia e fuori. "Civis Bononiensis" si dichiara egli stesso nel proemio della sua Summa Institutionum (è vero però che le due parole mancano a tutte le edizioni più antiche); e che a lui "foecunda Bononia originem contulit" è scritto nella prefazione alla sua Lectura, per mano del suo scolaro Alessandro di Sant'Egidio.
Sono dovute a evidenti equivoci le notizie, ripetute da vecchi eruditi, d'una sua nascita a Montpellier, oppure a Casalmaggiore nel territorio cremonese. A Montpellier lo voleva nato il pur diligentissimo Diplovatazio, che scriveva sui primi del sec. XVI: egli riteneva d'A. la Summa trium librorum composta invece, nella sua parte iniziale, dal Piacentino, e, leggendo nel proemio autobiografico i due passi non troppo chiari (il secondo, anzi, in molte stampe corrotto) in cui l'autore parla del proprio insegnamento "apud Montem Pesulanum", credeva di dover applicare a questa medesima città un accenno alla "patria" che ricorre a poche righe di distanza. Il racconto poi d'un "Azo Porchus ex municipio Casalis maioris agri Cremonen[sis] Iur[is] Cons[ultus]", che, "dum Bononiae publice doceret leges, occiso per eum alio earum lectore fuit decapitatus, et sepultus, composita per eum summa iuris perutile", come si legge sotto l'anno 1247 nei pedestri Annales compilati verso la fine del Cinquecento dal cremonese Lodovico Cavitelli, ai quali attinsero nel Settecento altri eruditi come l'Arisi e il Savioli, è un racconto intessuto di tali inverosimiglianze che la menzione di Casalmaggiore in esso contenuta si scredita da sé, anche se non si riesce a capire di dove possa esser saltata fuori. C'è solo questo di vero, che nel 1243 (non 1247),secondo attesta il Chronicon quasi contemporaneo di Pietro Cantinelli, fu decapitato in Bologna come mandante d'un omicidio uno dei figli d'A., Ameo Soldani; e dalla confusione del figlio col padre nacquero facilmente quel racconto e altri, come vedremo, non meno coloriti. Cremonese, poi (ma della città, non del territorio), era il maestro d'A., Giovanni Bassiano; chissà che proprio di qui qualcuno non abbia incominciato a fantasticare sulla patria del discepolo.
A. compare in documenti tra il 23 nov. 1190 e il 15 luglio 1220. Nei due più antichi, del 1190 e 1194, che non sono a stampa ma si trovano indicati dal Sarti, è nominato come "Azolinus legum doctor"; e nel primo, di cui sempre il Sarti dà un breve estratto sulla fede d'una scheda di Gaetano Monti, si vede citato accanto a lui un suo fratello di nome Rolandino. Sull'identità d'A. con Azolinus" si potrebbe avere qualche dubbio; ma in fondo non è illogica la supposizione del Sarti, che Azzone (anzi Azzo, come certo si diceva in volgare al suo tempo) fosse chiamato col diminutivo in età giovanile, forse con allusione a eleganza di costumi o gentilezza d'aspetto o magari a modesta statura. Del resto, che A. insegnasse nello studio di Bologna almeno fin dal 1191 risulta da un episodio che deve cadere in quell'anno e che è senz'altro il più noto, e insieme il meno incerto, tra quanti si trovano riferiti, per lo più da tradizioni di scuola, sul conto del glossatore.
È l'episodio del cavallo donato. Secondo la versione più diffusa, che risale a un passo interpolato della cronaca d'Ottone Morena, l'imperatore Federico Barbarossa, una volta che andava a cavallo avendo ai suoi lati Bulgaro e Martino, chiese ai due glossatori se era o no de iure il padrone del mondo; Bulgaro rispose di no, se per padrone si doveva intendere proprietario; Martino invece disse di sì, e l'imperatore gli regalò il proprio palafreno; a Bulgaro non restò che consolarsi con un gioco di parole: "Amisi equum, quia dixi aequum, quod non fuit aequum". Ora, i fatti si possono ritenere più o meno veri, benché, alcuni storici stimino favoloso tutto il racconto; ma c'è stata a ogni modo una trasposizione di personaggi: al posto del Barbarossa va collocato Arrigo VI, e così A. al posto di Bulgaro, e Lotario a quello di Martino; la domanda dell'imperatore era poi più precisa, a chi spettasse il "merum imperium", se a lui solo o anche ad "alii iudices". Così racconta l'episodio Odofredo (ad Dig., 2, 1, 3); e che le cose andassero così davvero, è confermato da un accenno chiarissimo dello stesso A. nella Summa Codicis: "Hocmerum imperium soli principi competere, et eum solum habere quidam dicunt... Sed merum imperium etiam aliis sublimioribus potestatibus competere dico: licet ob hoc amiserim equum, sed non fuit aequum" (ad Cod., 3, 13, n. 17). Il fatto dev'essere del 1191, quando Arrigo VI fu a Bologna.
In seguito, A. compare come testimone in diversi atti pubblici o privati: 18 luglio 1198, la sottomissione degli uomini di Monteveglio al comune di Bologna; 21 maggio 1203, una concordia tra Bologna e Ferrara; 28 ag. 1203, una quietanza rilasciata al comune di Bologna dal procuratore d'un podestà; 9 maggio 1204, un compromesso tra Bologna e Modena su una questione di confini; 5 luglio 1204, un contratto di vendita; 30 ott. 1216, il giuramento d'un dottore di leggi, Guizzardino da Bologna; 22 genn. 1217, un contratto d'enfiteusi. In altri atti ha una parte di maggior rilievo: il 30 maggio 1208, è tra gli aventi diritti sulle acque del Reno che stipulano diverse convenzioni col comune di Bologna riguardo all'uso delle acque, alle opere di difesa, alle gualchiere, ai mulini; il 20 maggio 1211, è tra gli ambasciatori bolognesi che, a Modena, fanno istanza al legato del papa perché voglia astenersi dall'entrare in Bologna, per evitare discordie; il 1º sett. 1216, a Rimini, è nel gruppo dei cittadini bolognesi che, al seguito del loro podestà, giurano la pace col vescovo di Rimini e con altri signori e comuni; il 15 luglio 1220, è tra i componenti del consiglio di credenza che votano a favore della nomina d'un sindaco, nella persona del notaio Domenico da Ferrara, per parte del podestà di Bologna, Guglielmo Pusterla. In questi documenti dal 1198 in poi (tutti editi o riediti nel Chartularium studii Bononiensis, toltine due che si devono ancora consultare nella settecentesca edizione del Savioli), A. è sempre qualificato, "doctor legum" o "legum doctor", fatta solo eccezione per il primo, dov'è chiamato "iuris professor", e per quello riminese del 1216, dov'è citato come "dominus Azo Soldani". Nella maggior parte dei documenti, di seguito al suo nome si legge quello d'Ugolino, il maggiore, forse, tra i suoi colleghi d'insegnamento.
Sembra che l'anno stesso dell'ultimo documento noto sia stato per A. l'anno della morte; che è narrata appunto tra i fatti del 1220 nella cronaca d'Alberico monaco delle Tre Fontane (Trois-Fontaines nella Sciampagna), fonte unica, per la verità, e non del luogo, ma d'altra parte abbastanza attendibile sia perché contemporanea sia perché fondata su larghissime informazioni di solito esatte.
Secondo il Savigny, seguito da molti, la data sarebbe da spostare d'almeno una diecina d'anni; e questo perché A. nella sua Lectura ricorda, disapprovando, il caso d'un "dominus Iacobus qui Ianuae in equo armatus tulit sententiam" (ad Cod., 7, 44, 1), il quale dovrebb'essere il suo scolaro e collega Iacopo Baldovini, podestà di Genova nel 1229. Osserva però il Genzmer che il "dominus Iacobus" potrebbe bene essere un altro; sicché nel dubbio conviene attenersi alla cronaca del monaco Alberico, come alla sola che dia una notizia esplicita. Si può aggiungere che, sempre tra i contemporanei d'A., vi fu veramente un altro podestà di Genova di nome Iacopo: il milanese Iacopo Maineri, nel 1195.
Raccontano alcuni vecchi scrittori che A. sarebbe finito decapitato per avere ucciso un collega: chi dice Bulgaro, chi Martino, e il racconto è allora impossibile per il fatto stesso che questi due maestri erano già morti molti anni prima che A. cominciasse a insegnare; i più dicono Ugolino del Prete, suo collega e rivale, e anche con questo nome il racconto, meno inverosimile a prima vista, sarebbe ugualmente impossibile, non tanto perché l'ultimo documento che ci mostra in vita Ugolino e il primo in cui sia menzionato A. come già defunto sono tutt'e due dei 1233, quanto perché Iacopo d'Ardizzone attesta, nel proemio della Summa feudorum, d'aver seguito le lezioni d'A. e "post eius mortem" quelle d'Ugolino. C'è chi aggiunge un particolare umoristico: A., portato in catene - davanti ai giudici, si sarebbe messo a gridare "Ad bestias", intendendo citare con le parole iniziali, com'era l'uso, un testo romano (Dig., 48, 19, 31) che vieta di mettere a morte senza autorizzazione sovrana le persone altamente utili alla comunità; e i giudici, credendosi che l'imputato volesse dar loro di bestie, non avrebbero avuto nessuna pietà di lui. Tutti questi racconti sono smentiti recisamente non solo dal silenzio delle fonti contemporanee, ma anche dalla contraria testimonianza d'Odofredo, secondo la quale A., come non s'ammalava mai fuori dei giorni di vacanza, così in tempo di vacanza morì, e in onore suo l'inizio delle lezioni fu ritardato quell'anno dalla festa di san Luca alla festa d'Ognissanti: un onore, certo, che non si sarebbe reso a un omicida morto sul patibolo. La notizia, che si legge per la prima volta nel Diplovatazio, ma risale a un'opera perduta di Baldo e attraverso questa a Bartolo, sarà nata da una confusione d'A. con suo figlio Ameo, che fece quella triste fine, come s'è veduto, nel 1243.
Della famiglia si conoscono alcuni nomi, alcune date, e poco più. Il padre d'A. si chiamava Soldano; da lui il patronimico Soldani, che nei discendenti diventò cognome, ma fu presto soppiantato da quello di Azzi, tratto dal nome del giureconsulto. Questi ebbe un fratello, Rolandino, e cinque figli che gli sopravvissero, Rolandino, Ameo, Landolfo, Alberto, Iacopino. Della loro discendenza si possono seguire le tracce fino a tutto il Trecento. Fu una famiglia di modeste condizioni; alcuni fecero i miniatori.
La vera famiglia d'A. fu la scuola; e alla scuola si collegano più o meno strettamente tutti gli episodi, veri e leggendari, che la tradizione riporta sul suo conto. S'è già veduto della sua disputa con Lotario sul mero imperio, della sua rivalità con Ugolino (da cui forse la favola dell'omicidio), del suo non ammalarsi mai in tempo di lezioni. Nelle pagine d'Odofredo, ch'è il nostro maggiore informatore, troviamo ancora A. che reagisce "incurialibus verbis" al sentirsi attribuita un'interpretazione errata d'una certa legge da Iacopo Baldovini, e gli dà (a voce, pare, e poi nella Summa) del mentitore (ad Cod., 4, 21, 14): quello stesso Baldovini, suo vecchio scolaro, che in altre occasioni l'attaccò a fondo (ad Cod., 3, 36, 24) e l'accusò perfino d'eresia (ad Cod., 6, 9, 1). Ma troviamo anche A. che accetta, a lezione, una disputa con uno sconosciuto uditore, in cui non aveva ravvisato un suo compagno di studi degli anni giovanili, e nella discussione se ne riconosce vinto, e non esita a rendergliene ampia e pubblica lode (ad Cod., 3, 1, 1). E con questo suo carattere fiero e generoso non contrasta una certa propensione allo scherzo, mai però volgare, che traspare da vari luoghi delle sue opere ed è confermata da quel che racconta sempre Odofredo, che una volta, invitato a pranzo da uno scolare arcidiacono, egli vi si recò in compagnia del bidello e di molti altri scolari, scusandosi col dire che non gli era lecito andare per la città "nisi cum honesta comitiva", onde chi l'invitava a pranzo si doveva intendere che invitasse lui "cum suis praecedentibus et subsequentibus" (ad Cod., 2, 1, 3).
S'è rammentato il bidello d'A.: ecco un personaggio secondario il cui nome non può mancare in una biografia del maestro. Questo medesimo e altri glossatori ci danno molte notizie su di lui. Si chiamava Gallopresso (ma sarà com'è stato supposto, una storpiatura di Calabrese, giacché veniva di là); passò in proverbio per la sua sgraziata figura, per le burle che gli giocarono gli scolari e per i danari che seppe mettersi da parte.
Ma di là dagli aneddoti e dalle note di colore, ben altro discorso meriterebbe la scuola d'A. nel senso più austero del termine. Nella catena che lega idealmente le varie generazioni dei glossatori da Irnerio ad Accorso, A. rappresenta uno degli anelli più forti, uno dei più necessari. Discepolo per quel che si sa d'un solo maestro, Giovanni Bassiano, alle opinioni del quale rade volte s'oppose, egli fu il tramite per cui le dottrine della più vigorosa corrente dei glossatori, quella che attraverso Giovanni fa capo a Bulgaro, s'imposero alla generazione seguente e furono accolte nella Glossa ordinaria. La sigla d'A. (Azo, Az., A.), o che confermi solo interpretazioni di scuola o che contraddistingua, come pure è frequente, un pensiero personale, è la sigla che nella Glossa ordinaria s'incontra di gran lunga più spesso d'ogni altra.
Il compilatore della Glossa,Accorso, fu tra i più illustri discepoli d'A.; e con lui sono da ricordare Iacopo Baldovini, Roffredo Beneventano, Martino da Fano, Iacopo d'Ardizzone, Goffredo da Trani, Bernardo Dorna, Giovanni Teutonico. Altri scolari gli sono attribuiti, ma non sono sicuri; tra questi, Sinibaldo Fieschi, che sarebbe poi divenuto papa col nome d'Innocenzo IV.
Oltre che per qualità, gli allievi d'A. spiccano per numero. Non si può più ripetere che A. ne avesse fino a diecimila per volta: il testo a stampa delle lezioni d'Odofredo (ad auth. Habita, post Cod., 4, 13, 5) dice solo che "erant hic tunc temporis [cioè a Bologna al tempo d'A.] bene X millia scholarium" ripartiti tra i vari corsi e tra i vari maestri, e sarebbe sempre un numero incredibile, in rapporto alla popolazione bolognese d'allora; ma Odofredo non dovette dire nemmeno questo: un manoscritto parigino, con X cancellato e sostituito da bene, mostra come poté nascere l'errore. Gli scolari insomma erano migliaia; ed è già quanto basta per concludere che il tempo d'A., e probabilmente in gran parte per effetto della fama del maestro, lo studio di Bologna conobbe il più alto concorso di scolari d'ogni parte d'Europa. A. personalmente ne aveva molti, e si racconta che una volta lo pregarono di far lezione in piazza S. Stefano: così, ancora una volta, Odofredo (ad Dig., 27, 1, 6). Vogliono alcuni che il passo sia da intendere in senso letterale, altri nel senso che gli fu chiesto di far lezione in una nuova e più grande sala situata in piazza S. Stefano, non in mezzo alla piazza. A. a ogni modo non avrebbe acconsentito, perché la sede propostagli era di là dall'Aposa, dove non valevano più i privilegi riconosciuti allo studio bolognese.
Con quest'ultima parte del racconto è in aperta contraddizione la notizia d'un suo insegnamento a Montpellier. Ripetuta dagli autori che fanno A. nativo di quella città, e anche da altri, fu scartata recisamente dal Savigny. Tornò a insistervi lo Schulte, avendo trovato menzione d'un insegnamento d'A. "in provincia", posteriore a quello di Bologna, in un passo del canonista provenzale Bernardo di Montmirat, noto come l'Abate Antico, che scriveva tra il 1261 e il 1275. Ma il passo si riferisce al più tardo civilista Baziano; e l'equivoco nasce da un manoscritto dove si legge "Az." in luogo di "Baz.". Delle opere d'A. è da dire anzitutto che una parte notevole è costituita dai contributi alla Glossa d'Accorso: circa un terzo delle glosse particolari attribuite espressamente ad autori preaccursiani portano la sigla d'A., che come s'è detto è di gran lunga più frequente d'ogni altra; e, pure sfuggendo a una precisa valutazione quantitativa, l'influsso dell'insegnamento d'A. nelle dottrine elaborate o ridotte a sistema dal suo maggiore discepolo si fa sentire in ogni parte dell'opera di questo. In secondo luogo è da osservare che, se molto del pensiero d'A. è stato ed è conosciuto per il tramite della Glossa, non per questo le sue opere personali ebbero a soffrire, nell'età del diritto comune, di quella dimenticanza che colpì per ragioni pratiche gli scritti dei glossatori preaccursiani in generale: furono esse le sole, fra tutte le opere uscite dalla scuola civilistica di Bologna, che nel mercato librario e nella pratica del foro poterono sostenere validamente la concorrenza del grande apparato d'Accorso. E una di esse, la Summa, restò per vari secoli come il manuale del giurista, per eccellenza. Autori del sec. XV e XVI informano che in diverse città italiane (Milano, Verona, Padova...) nessuno poteva essere accolto nel collegio dei dottori di legge se non aveva tra i suoi libri la Summa d'A.; e la norma doveva essere di quelle che si rispettavano, se tra le Cautelae di Bartolomeo Cipolla ce n'è una, la CCXLIII, che insegna un sotterfugio per eluderne l'applicazione, ricavato dall'esperienza "de facto" dell'autore. Il proverbio ripeté: "Chi non ha Azzo non vada a Palazzo". Dell'autorità, poi, che gli scritti d'A. si conquistarono anche fuori d'Italia, la testimonianza più eloquente è data dall'uso larghissimo che fa della Summa Enrico di Bracton (m. 1268) nel suo classico trattato De legibus et consuetudinibus Angliae.
La Summa è l'esposizione sistematica di tutto il diritto civile sulla base e secondo l'ordine di quelle due parti del Corpus iuris che la scuola dei glossatori aveva fin dalle origini considerato le più adatte a questo genere di lavoro: il Codice, ridotto ai primi nove dei dodici libri, come sempre nella tradizione medievale, e le Istituzioni.Nel pensiero d'A. l'opera è una sola: sono chiaramente separate nell'interno di essa la Summa Codicis e la Summa Institutionum, che si sogliono anche citare distintamente, ma nel proemio della prima e nelle parole di chiusura della seconda il lavoro è presentato come l'attuazione d'un unico programma. La Summa Codicis,alla quale A. si preparò con la rielaborazione d'una opera analoga di Giovanni Bassiano (perduta nella forma originale), ha un proemio, dovuto, come stesura, alla penna del rinomato dettatore Boncompagno da Signa, che ha molto interesse per le osservazioni che contiene e per i propositi che esprime in fatto di metodo. Ormai da un secolo la scuola bolognese si viene affaticando intorno ai testi romani; ma le glosse che si sovrappongono alle glosse e sommergono sempre di più, anche materialmente, i testi, hanno finito col portare confusione e contraddizioni là dove, nell'intenzione dei loro autori e nel desiderio degli studiosi in genere, dovrebbero portare chiarimento; A. si rende conto che non si può continuare così, e fin dal proemio promette agli studenti, agli "amabiles et praeclarissimi socii", che nella sua opera non troveranno "nihil obscurum, nihil dubitabile, nihilque contrarium legibus": si sente nelle sue parole quello stesso bisogno di chiarezza che di lì a pochi anni spingerà il suo scolaro Accorso alla scelta e revisione definitiva delle glosse. Definitiva è, nel suo genere, la stessa Summa d'A., che concluse una nutrita serie di somme uscite dalla scuola dei glossatori civilisti e fece cadere in dimenticanza tutte le precedenti, comprese la Summa Codicis e la Summa Institutionum del Piacentino, anteriori di non molti anni e sempre notevoli per eleganza e originalità di dottrina. A. le tiene per costante punto di riferimento: ne dà nel proemio un giudizio d'insieme, facendo caute riserve su certi loro punti che non danno piena soddisfazione, riserve attenuate però da una generica lode che le precede e da una serena giustificazione che le segue; e al suo predecessore fa poi l'onore di citazioni numerosissime, benché destinate non di rado a esprimere un dissenso, e qualche volta a esprimerlo in forma assai vivace. Di circa 350 citazioni di glossatori contenute nella Summa Codicis, più di 150 sono, del Piacentino; non ne uguagliano il numero quelle di Giovanni, Bulgaro, Martino e Imerio messi insieme, che lo seguono in ordine di frequenza.
La Summa d'A., che dovette essere scritta tra il 1028 e il 1210 ed era certamente già in circolazione nel 1211, fu arricchita d'aggiunte, nel corso del sec. XIII, per opera d'Ugolino del Prete, d'Odofredo e di Guido da Suzzara (perdute quelle del primo, tuttora inedite quelle degli altri due); ed ebbe anche una traduzione francese, la Somme Acé,conservata nel cod. Vaticano Reginense 1063 del sec. XIV. Ma quello che veramente contò molto nelle successive vicende dei manoscritti e delle edizioni fu il suo completamento, pare fin dal sec. XIII, con tre appendici, che furon chiamate nell'uso corrente extraordinaria: 1)la somma del Digesto attribuita generalmente dai manoscritti e dalle edizioni a Giovanni Bassiano, dal Savigny ritenuta opera d'Ugolino, e oggi considerata come un'opera di formazione, per dir così, alluvionale, in cui dovettero aver parte Bulgaro, Giovanni, lo stesso A., e a cui diede l'ultima mano Ugolino; 2) la somma dei Tre libri cominciata dal Piacentino e continuata, ma non portata a termine, da Pillio; 3) la somma delle Autentiche scritta da Giovanni e accresciuta d'addizioni da Accorso. Questa Summa Azonis cum extraordinariis, come si trova chiamata in vecchi cataloghi e atti di compravendita, veniva a comprendere tutte quante le parti del Corpus iuris, anche se una, il Digesto, non aveva per la verità una trattazione proporzionata alla sua importanza e alla sua mole. Si spiega bene, quindi, come questa Summa ampliata, che dava nella forma migliore e definitiva un'esposizione più o meno sistematica, titolo per titolo, di tutti i testi giustinianei, poté esser considerata come un blocco e, in quanto tale, esser messa accanto e alla pari della Glossa d'Accorso, che dava, pure in forma definitiva, l'esegesi analitica, legge per legge, parola per parola, di quei medesimi testi.
Nella maggior parte dei manoscritti la Summa d'A. è completata con gli extraordinaria, tutti o parte. Così pure nelle edizioni, che furono moltissime, sorte che non ebbe nessun'altra opera di glossatore anteriore ad Accorso: il Savigny ne cita 31,e cioè quelle di Spira 1482 (l'unica con la sola Summa Codicis e Institutionum), di Pavia 1484 (la prima comprendente anche gli extraordinaria), di Venezia 1489, 1498,1499,di Pavia 1506, di Milano 1513 (sul frontespizio 1514), di Lione 1514, di Trino 1519, di Lione 1523, 1530, 1533, ancora 1533, 1537, 1540, ancora 1540, 1550, 1557 (la prima che attribuisca ad A. gli extraordinaria, seguita in questo dalle edizioni successive), di Basilea 1563, di Lione 1564, di Venezia 1566 (la prima che porti in appendice anche i Brocarda d'A.), di Basilea 1572, di Lione 1576, 1580, di Venezia 1581, di Lione 1582, 1585, 1593, di Ginevra 1596, di Lione 1596, di Venezia 1610.
Molto meno felice fu la sorte della Lectura, ossia delle lezioni d'A. sul Codice,raccolte per mano d'uno scolaro di cui non si conosce praticamente altro, Alessandro di Sant'Egidio. Ed è un'opera d'altissimo pregio intrinseco, accresciuto dalle informazioni che ci dà implicitamente sul metodo d'insegnamento dei glossatori (essendo, insieme con quella molto più ampia d'Odofredo, l'unica raccolta di lezioni che ce ne sia stata conservata) e dalla frequente citazione e discussione delle dottrine d'altri giuristi (qui citati in complesso forse il doppio di volte che nella Summa, con netta prevalenza quantitativa di Giovanni, il maestro d'A., seguito di lontano dal Piacentino e dagli altri). In ordine di tempo, la Lectura è l'ultima opera d'A., che vi cita spessissimo la Summa Codicis e qualche volta la Summa Institutionum, i Brocarda, le proprie glosse al Digesto, i propri consilia.
La Lectura si trova ricordata da un solo giureconsulto, Giovanni d'Andrea (sec. XIV), e non è più conservata in nessun manoscritto. Ne trovò uno il giurista francese Antoine Le Conte verso il 1557a Orléans, e vent'anni più tardi lo passò alle stampe; questa prima edizione di Parigi 1577 fupoi ripubblicata col solo frontespizio cambiato nel 1581e nel 1611; una ristampa fu fatta a Lione nel 1596. Queste edizioni, in cui s'alternano i titoli di Lectura e di Commentarius, danno un testo che espone, stranamente, tutt'e dodici i libri del Codice;ma è un equivoco degli editori, perché quello degli ultimi tre libri è in realtà l'apparato d'Ugolino, che nel manoscritto si sarà trovato di seguito alla lettura d'Azzone.
Tra i lavori esegetici sono ancora da ricordare le glosse alle varie parti del Corpus iuris, riportate sparsamente in parecchi manoscritti. Quelle del Codice costituiscono un apparato, cioè una serie organica; sul Digesto vecchio e sul Digesto nuovo si hanno addirittura due apparati di glosse, uno minor e l'altro magnus o maior, diversi tra loro non solo come mole ma anche, pare, come struttura. Si tratta di glosse inedite, salvo modesti frammenti pubblicati a titolo di saggio dal Savigny e dal Genzmer, e salvo naturalmente il cospicuo numero di glosse che Accorso incorporò nel suo grande apparato.
Fuori dell'esegesi dei testi, A. scrisse brocardi, questioni, distinzioni, consulti. Gli stazionari bolognesi avevano inoltre le Definitiones Azonis,ma sono perdute.
I Brocarda o Brocardica, editi di seguito alla Summa nelle edizioni del 1566, 1581, 1593 e 1610, e separatamente a Basilea nel 1567,sono, come dice il titolo, una serie di brevi regole di diritto, spiegate con esempi tratti dal Corpus iuris e con osservazioni intese principalmente a conciliare le regole tra loro in contraddizione. Nacquero dalla rielaborazione dei Generalia d'Ottone da Pavia. Ai Brocarda fece aggiunte, poi, un Cacciavillano, forse scolaro d'Azzone.
Delle Quaestiones, cioè delle dispute scolastiche, che. A. teneva di sabato e che perciò son dette pure Quaestiones Sabbatinae, esiste un'edizione critica, dei Landsberg, oggetto d'alcune riserve poiché nei manoscritti sono confluiti testi di varia paternità. Pare certo che delle 19 questioni pubblicate si debbano fare diversi gruppi: sette questioni di Giovanni, riportate dal suo scolaro A.; sette d'A., riportate da un suo sconosciuto allievo; tre redatte in iscritto da A. direttamente; una questione d'attribuzione errata (di Pillo, benché, firmata da A.); una d'attribuzione non chiara. A quelle azzoniane vere e proprie appartiene la questione X, che contiene una sarcastica, significativa presa di posizione in favore d'un metodo d'argomentazione rigorosamente giuridico, esente dalle contaminazioni rettoriche care ad altri maestri come Bernardo Dorna. Del secondo gruppo è invece la questione XIII, che offre un termine post quem ricordando la pace tra i re d'Inghilterra e di Francia dell'anno 1200, e che ha attirato l'attenzione degli storici del diritto pubblico per essere il più antico testo in cui si legga un principio che sarebbe diventato famoso: "Quilibet rex hodie videtur eandem potestatem habere in terra sua, quam imperator".
Dell'esistenza di Distinctiones d'A. diede notizia per primo il Savigny, sulla base di due citazioni d'A. stesso e d'Ugolino; ma ritenne che l'opera fosse perduta. In seguito furono scoperte in un manoscritto brussellese dal D'Ablaing: la raccolta comprende 100 distinzioni, di cui 53 con la sigla d'A., 12 con sigle d'altri autori, 35 non siglate; alcune delle azzoniane sono state poi ritrovate anche in altri due manoscritti. Le Distinctiones, descritte e analizzate dal Seckel, sono tuttora inedite.
Ultima opera sicura d'A. è un parere legale del 3 dic. 1205, pubblicato nel 1888 dal Chiappelli e dallo Zdekauer come il più antico saggio conosciuto di scritture di pratica forense dei glossatori bolognesi. Il parere è in favore della canonica di S. Andrea di Mosciano (presso Firenze), contro la badia di Settimo, per la proprietà di certe terre. Altri consulti non pare che si conservino.
Resta a parlare di vari scritti attribuiti ad A. per errore. Il Savigny cita un Tractatusde interesse, una Summa de usuris, una Summa de praescriptionibus (questa, anche stampata in raccoltine di trattati di tale argomento) e una Summa de arbitris, che sono semplicemente titoli staccati della Summa Codicis non opere indipendenti (vi si può aggiungere una Summa de acquirenda et retinenda possessione, esistente anche in una redazione più breve); e poi questioni di diritto canonico, spettanti ad Azzone Lambertazzi; note alla Summa dell'Ostiense, attribuite ad A. in vecchie bibliografie, con evidente anacronismo, per un equivoco nella lettura del frontespizio di certe edizioni dell'opera in questione; ripetizioni sul Decreto di Graziano, spettanti ad Azzone Ramenghi; una somma delle Decretali, che sarà pure d'un canonista, forse d'uno degli omonimi ora nominati.
L'omonimia col canonista Ramenghi, vissuto un secolo e più dopo di lui, fece sì che anche al grande glossatore alcuni vecchi eruditi attribuissero lo stesso cognome, senza fondamento. E l'altro cognome di Porcus o Porcha o Portius si trova riferito a scritti così dell'uno come dell'altro, in vari codici.
Generalmente parlando, tutto ciò che di canonistico si vede attribuito ad A. va spiegato con l'esistenza dei due omonimi più recenti. A. non era molto esperto del diritto canonico; e un episodio, poco più che un gioco di parole, narrato dall'Ostiense nella sua Lectura (ad Extra,1, 29, 19), è passato poi da un autore all'altro ingigantendosi, e ingrandendo la fama di quella scarsa esperienza. A ogni modo A. sapeva maneggiare anche canoni e decretali, che cita e discute nelle sue opere. E due glosse con la sua sigla sono state notate dal Kuttner nel cod. Vaticano latino 1367 contenente la glossa ordinaria al Decreto con molte aggiunte tutte dello stesso periodo e di mano coeva.
Fonti: Alberico (Albricus) delle Tre Fontane, Chronica, ad a. 1220, a cura di P. Scheffer-Boichorst. in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XXIII, Hannoverae 1874, pp. 910 s.; P. Cantinelli, Chronicon, ad a. 1243, a cura di F. Torraca, in Rer. Italic. Scriptores, 2 ediz., XXVIII, 2, Città di Castello 1902, p. s; L. Savioli, Annali bolognesi, II, a, Bassano 1789, pp. 209-212, 233-236, 247, 255-258, 293-296, 311 s., 370-375, 435-439; L. Nardi ed E. Orioli, Registro grosso, in Chartularium studii Bononiensis, I, Bologna 1909, pp. 4-6, 10-16, 21, 31-33; G. Cencetti, Archivio dei canonici regolari lateranensi di San Giovanni in Monte e San Vittore, ibid., XI,. Bologna 1939, pp. 110 s., 126. Tutte le altre fonti sono già indicate dagli autori citati qui di seguito.
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