baby talk
L’espressione baby talk (prestito composto da baby «bambino piccolo» e talk «parlata», attestato in inglese dal 1836) designa il modo di rivolgersi a bambini in tenera età da parte degli adulti che si prendono cura di loro e, spesso, da parte di altri bambini a partire dai tre anni di età. Al termine inglese è stato contrapposto l’italiano «linguaggio bambinesco» (come nel titolo del volume di Savoia 1984); la resa italiana non si è però imposta (Bertinetto 2009: cap. 2). Accanto a baby talk si ritrovano anche i termini inglesi motherese, talvolta reso in italiano con «maternese», caretaker speech «linguaggio di chi si prende cura (di altri)», e il più esplicito child directed speech «linguaggio indirizzato a bambini» (Snow 19862).
Le peculiarità del baby talk sono il risultato di due componenti principali che caratterizzano la comunicazione verso il bambino, relativa la prima all’emittente e la seconda al codice (Brown 1977):
(a) una componente affettiva (e protettiva) sul piano del rapporto sociale, contraddistinto dalle necessità di sostentamento del bambino;
(b) una componente linguistica derivata dall’asimmetria nella padronanza della lingua utilizzata, piena per l’adulto e solo agli esordi nel bambino.
La prima componente caratterizza anche i rapporti comunicativi verso piccoli animali domestici (e cosa fa quetta piccoLIIIIIssima gattina?), nonché verso persone bisognose di cura e talvolta tra innamorati. La seconda componente accomuna il baby talk alle varietà utilizzate dai nativi nei confronti di stranieri per superare le potenziali incomprensioni derivanti dalla diversa padronanza del codice.
Le caratteristiche del baby talk sono il risultato dell’applicazione di strategie di modificazione del modo di parlare adottato di consueto con interlocutori di pari padronanza della lingua utilizzata. L’applicazione delle strategie è variabile in funzione dell’età del bambino e delle caratteristiche dell’adulto (Calleri 1987). Il picco nell’uso di baby talk si ha verso bambini tra i 12 e i 16 mesi, agli inizi del loro apprendimento linguistico; prima di quell’età l’uso del baby talk è saltuario, mentre dopo i 16 mesi diminuisce gradualmente fino ai sette-otto anni di età del bambino, quando il modo di parlare ad esso non si distingue da quello adottato nei confronti di adulti. Più propensi all’uso di baby talk sono adulti di sesso femminile e di età avanzata in contesti sociali tradizionali. In conseguenza di questi parametri di variabilità, i tratti caratteristici del baby talk si possono addensare o rarefare, dando luogo a un continuum di modi di esprimersi più o meno divergenti dal linguaggio usato nei confronti di adulti.
Rispetto al linguaggio usato nei confronti di adulti, il baby talk mostra le seguenti caratteristiche:
(a) Livello prosodico: volume relativamente alto, modulazione più alta della voce, articolazione lenta e accurata delle sillabe con enfatizzazione della curva intonativa;
(b) Livello fonologico: riduzione di nessi consonantici e vocalici, tendenza alla costituzione di sole sillabe CV e CVC, abbreviazioni (baccio «braccio», quetto «questo», pangere «piangere», cappa «scarpa», elicotto «elicottero»);
(c) Livello morfosintattico:
(i) diffusa presenza di suffissi diminutivi coi nomi (acquina, cagnolino, lattuccio, orsettino) e, in Toscana, desinenza -i per nomi masch. sing. (chichi «dolce», cicci «carne»);
(ii) riduzione preferenziale della morfologia verbale alla terza pers. sing. e alla prima plur. del pres. e dell’imperf. indicativo:
(1) Laura [la bambina destinatario del messaggio] schiaccia quello col ciufciuf «Laura! Schiaccia il tasto dove è raffigurato un treno!»
(2) prendiamo quetto e facciamo una torre alta alta; voleva il dolcino il mio bambino?
(iii) talvolta, omissione di elementi grammaticali (bae fine / bae finito «Vale ha finito»; male manina? «[ti sei fatto] male [alla] mano?»);
(d) Livello lessicale: gli elementi lessicali sono riferiti agli ambiti rilevanti per il bambino (le parti e le funzioni del corpo, i rapporti di parentela, il cibo, i giochi, gli animali, certe qualità). Certi elementi lessicali sono costituiti dal raddoppiamento della stessa sillaba (pappa, popò, pipì) anche con valore iconico rispetto al referente, di cui riproducono proprietà sonore (ciufciuf «treno», brumbrum «automobile», baubau «cane»). Tra i verbi sono preminenti quelli più generici, come fare (fare la nanna, fare la pipì, fare ciao ciao «salutare»);
(e) Livello discorsivo: frequenza di elementi deittici che collegano il discorso all’ambiente in cui esso è prodotto (avv. e pron. dimostr.); espressioni di rinforzo delle verbalizzazioni del bambino (sì, bravo) e di guida della sua attenzione (guarda, senti); ridondanza (dov’è la palla? ecco la palla, tirala qui).
Il baby talk concorre allo sviluppo dei processi di socializzazione del bambino codificando in forme anche stereotipate e rituali il suo ruolo nell’ambito familiare e riflettendo così le aspettative del gruppo sociale (Savoia 1984: 15-18; Calleri 1987). La sua funzione sociale è riflessa nel frequente riferimento ai ruoli dei parlanti (bello di nonna, gioia di mamma), che in varietà meridionali traspare anche nell’allocuzione inversa, in cui al bambino viene rivolta l’espressione della figura parentale che gli parla (ti voglio bene, papà tuo; vieni qua, mammà).
La funzione sociale è favorita dal fatto che l’adulto adatta i propri enunciati allo stadio di sviluppo linguistico, cognitivo e sociale del bambino e dall’impiego di processi affettivi che ne attirano l’attenzione. L’adattamento linguistico è evidente nei processi di semplificazione della forma fonologica delle parole per adeguarla allo stadio di acquisizione del bambino; l’adattamento cognitivo nel fatto che sono evitati i pronomi di prima e seconda persona sing. e nella limitazione al tempo pres. (e imperf. cortese) del verbo, che non implicano lo sviluppo di nozioni deittiche e, insieme ai pron. dimostr., mantengono il riferimento al ‘qui e ora’ dell’esperienza del bambino.
La semplificazione è accompagnata da tecniche di chiarificazione che tramite la prosodia, la ridondanza e le sequenze di conferma aiutano la percezione di segmenti significativi nel discorso dell’adulto, delimitando le parole e contribuendo a maggiore stabilità di significato. In situazione di contatto tra dialetto e italiano la chiarificazione può anche comportare la scelta del secondo codice, considerato meno opaco rispetto al primo (cfr. Moretti 1999: 265-272 per il Canton Ticino: sü nini … che ta fò un bón risotto).
Ancorché mediati dalle convenzioni sociali delle singole comunità di parlanti, i princìpi che sottostanno alle modificazioni del modo di rivolgersi ad adulti che caratterizzano il baby talk hanno carattere universale (cfr. Owens 1992: 46-64 per l’Irlanda; Ochs 1988: 128-130 per le isole Samoa; Ferguson 1978 in prospettiva tipologica).
La capacità di variare il modo di rivolgersi ad adulti e a bambini è parte della competenza acquisita con la struttura grammaticale della propria lingua. Inoltre, per ciascuna lingua, i tratti del baby talk sono trasmessi di generazione in generazione e sono soggetti ai cambiamenti linguistici al pari di altri elementi di una lingua. La diffusione pressoché universale della semplificazione fonologica è provata dal ricorrere di parole simili per i termini di parentela in lingue diverse. Queste mostrano reduplicazione (➔ raddoppiamento espressivo) della medesima sillaba costituita da una consonante bilabiale o dentale e da una vocale di massima apertura (➔ vocali), e riproducono così le prime fasi di acquisizione fonologica dei bambini (mamma, mama, mommy; papà, pappy, pop, dada, dad, daddy; Jakobson 1971).
La stabilità diacronica delle forme di baby talk è attestata per l’italiano dall’ammonizione di Dante (De vulg. eloquentia II, vii, 3-4) a evitare i vocaboli «puerilia» mamma, babbo, mate, pate, che si sono tramandati fino ad oggi, nonché da pappa, già presente in latino come parola di bambini per chiedere cibo (secondo Varrone in Nonio Marcello).
Bertinetto, Pier Marco (2009), Adeguate imperfezioni. Sulla scelta di una lingua comune per l’Europa federata e altri saggi di linguistica, Palermo, Sellerio.
Brown, Roger (1977), Introduction, in Talking to children. Language input and acquisition. Papers from a conference sponsored by the Committee on Sociolinguistics of the Social Science Research Council (USA), edited by C.E. Snow & C.A. Ferguson, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 1-27.
Calleri, Daniela (1987), Il mondo parlato dai bambini, «Italiano e oltre» 2, pp. 5-7.
Ferguson, Charles A. (1978), Talking to children. A search for universals, in Universals of human language, edited by J.H. Greenberg et al., Stanford, Stanford University Press, 4 voll., vol. 1° (Method and theory), pp. 203-224.
Jakobson, Roman (1971), Perché ‘mamma’ e ‘papà’?, in Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia, Torino, Einaudi, pp. 129-141 (ed. orig. Kindersprache, Aphasie und allgemeine Lautgesetze, Uppsala, Almquist & Wiksell, 1941).
Moretti, Bruno (1999), Ai margini del dialetto. Varietà in sviluppo e varietà in via di riduzione in una situazione di ‘inizio di decadimento’, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana.
Ochs, Elinor (1988), Culture and language development. Language acquisition and language socialization in a Samoan village, Cambridge, Cambridge University Press.
Owen, Máire (1992), The acquisition of Irish. A case study, Clevedon, Multilingual Matters.
Savoia, Leonardo M. (1984), Grammatica e pragmatica del linguaggio bambinesco (baby-talk). La comunicazione ritualizzata in alcune culture tradizionali, Bologna, CLUEB.
Snow, Catherine E. (19862), Conversation with children, in Language acquisition. Studies in first language development, edited by P. Fletcher & M. Garman, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 69-89.