BACCHILIDE (Βακχυλύδης, Bacchylĭdes)
Sino a una trentina d'anni fa, di questo poeta, che pure ebbe fama presso gli antichi, non possedevamo che pochi frammenti. Ma nel 1896, furono scoperti in Egitto, in due rotoli di papiro del sec. I o II d. C., diciannove composizioni più o meno integre, che ci consentono una idea abbastanza precisa della sua arte.
Per la sua vita dobbiamo tuttora accontentarci delle notizie che possedevamo prima della scoperta.
Nacque a Ceo. E poiché Eusebio pose il suo "fiore" (ἀκμή) nel 468 a. C., dovremo supporre che nascesse intorno al 503. Ma non possediamo la data precisa né della sua nascita, né della morte. Fu nipote del poeta Simonide; e suo nonno fu atleta: era così quasi predestinato a divenir cantore di epinici.
Della sua vita sappiamo assai poco: cioè che fu, al pari di Simonide e di Pindaro, ospite, forse per lungo tempo, di Ierone di Siracusa (Eliano, Var. Hist., IV, 15), e che fu esiliato nel Peloponneso (Plut., De exilio, 14, p. 605). E forse l'esilio, che sembra cadesse nell'ultima parte della sua vita, non fu breve.
Uno dei due rotoli di papiro contiene tredici epinici; quattro per compatrioti del poeta, nove per atleti di Fliunte, Atene, Metaponto, Egina, Tessaglia. Gli elementi informatori di questi epinici sono, su per giù, quelli stessi che troviamo in Pindaro: menzioni del vincitore, della vittoria di lui, delle circostanze che l'accompagnarono, dei giuochi in cui fu conseguita; ringraziamenti e preghiere ai numi protettori della città e della famiglia del vincitore; glorificazione della stirpe e della patria di lui; consigli ed elogi; espressione dei sentimenti personali del poeta; narrazione di qualche mito. Ma questi sono schemi. Il tono fa la musica; e s'intende bene che, anche adoperando i medesimi elementi, ciascun poeta può riuscir differente da ciascun altro. Come, appunto, Bacchilide è differentissimo da Pindaro.
Il secondo rotolo contiene sei canti corali composti in onore di numi e di eroi. Essi hanno ciascuno un titolo corrispondente al contenuto: Gli Antenoridi, Eracle, I giovani, Teseo, Io, Ida. Nel testo i titoli risultano disposti in ordine alfabetico; e poiché giungono a metà circa dell'alfabeto, si può supporre che appartenessero a una raccolta circa doppia di quella pervenuta sino a noi.
Parecchi filologi, e dei più autorevoli (p. es., Comparetti e Blass), fondandosi su indici esterni, ritennero che tutti dovessero chiamarsi ditirambi. Ma se vediamo che il XVI (I giovani) si chiude con un'invocazione ad Apollo, difficilmente possiamo sottrarci all'idea che sia un peana.
Di questi sei canti corali, quattro sono assai mutilati: integri invece il XVI e il XVII, che sono anche le gemme di tutta la raccolta. Il primo espone, con gran vivacità e ricchezza di colori, una leggenda che non conoscevamo se non dagli accenni di tardi scrittori (Pausania, I, 17, 2, 3; Igino, Poet. Astron., II, 5). Minosse, mentre conduceva a Creta la nave che portava il tributo dei quattordici giovinetti d'Atene, fra i quali Teseo, fu preso d'amore per una delle fanciulle, Peribèa, e l'accarezzò. Teseo insorse fieramente a difesa, protestando che se Minosse era figlio di Giove, egli era figlio di Posidone. E poiché Minosse lo sfidò a provarlo, si precipitò nel mare; e giunse al fondo, dove Anfitrite lo accolse e gli donò una veste purpurea e un serto di rose. E con queste certe prove della sua origine tornò alla superficie del mare, oggetto di sbigottimento a Minosse, di esultanza ai compagni.
Anche più interessante è il XVII, Teseo. Il coro è diviso in due semicori, l'uno costituito da Egeo (corifeo) e dal suo seguito, l'altro da una schiera di cittadini ateniesi, guidati anch'essi da un corifeo. Questi ultimi sono accorsi perché hanno udito uno squillo di tromba; e chiedono informazioni ad Egeo, che narra le notizie meravigliose diffuse dalla fama intorno a un giovane eroe (Teseo) che si appressa ad Atene compiendo straordinarie prodezze.
B. non possiede profondo sentimento religioso: il suo sguardo non sembra attratto né abbagliato dal mondo olimpio come dalla visione d'un ordine sovrannaturale, magnifico e più alto e perfetto, né riesce possibile definire quale idea personale nutrisse intorno alla divinità.
Così pure non approfondì i problemi della vita in guisa da intenderli con una filosofia propria. Le sue massime sono attinte all'eterno repertorio della gnomica usuale, e ripetute con perfetta obiettività, senza visibile interesse: sicchè la sua perfetta ortodossia coincide, pare, con una perfetta indifferenza.
Indifferenza che si estende ad ogni problema di vita civile: concetti proprî, esposti con fervore e convinzione, mancano nell'opera sua: una sola volta lo troviamo veramente ispirato da una idea politica: nella nota vaghissima descrizione della pace. Della pace, per il cui beneficio il canto spiega sicuro le ali. Insomma, il suo estetico scetticismo ionico che si rifugia nell'arte, si oppone recisamente alla dorica serietà riflessiva di Pindaro.
Così mancano a B. le più alte facoltà dei veri temperamenti lirici. Mancano gli spunti impreveduti, remoti dall'argomento, che dànno vera idea d'una voce misteriosa favellante nel cantore. Mancano fra i varî nuclei, i legami ideali, tanto più mirabili quanto meno palesi, che stringono e riducono a unità omogenea le varie parti dell'ode pindarica. Manca, o quasi, la facoltà di concepire per via d'immagini. Manca la fantasia che sappia variare il piano delle odi. Ma accanto a queste lacune, vi sono qualità di prim'ordine.
B. possiede, innanzi tutto, una sensibilissima retina di pittore. Le scene di vita reale eccitavano mirabilmente la sua fantasia. Ecco Delfi con le strade formicolanti di stranieri, le are rigurgitanti di vittime, i fitti tripodi d'oro sfavillanti sul verde cupo del bosco sacro (ode III): l'atleta Automede che fra innumerevoli spettatori mostra il guizzo dei muscoli superbi, scagliando il disco, lanciando nell'etere il ramo di sambuco dalle brune foglie, divincolandosi nella lotta (XIII): l'ateniese che balza, come procella, primo alla meta (IX): gli spettatori che fanno piovere nell'arena, su Alessidamo vincitore, ghirlande di fiori: le vergini, che, intrecciate le chiome di fiori di fresco giunco, muovono contro a Pitea. Egli vede e osserva con rapimento, e se ne inebria, l'azzurro del cielo, la verzura delle foreste, il glauco del mare; i capelli dei giovani, inghirlandati, quasi germoglianti, di fiori; i visi di giglio delle fanciulle; le folgori che spandono per l'etere una chioma di fuoco le fronde che mulina tristamente il vento d'autunno sulle pendici dell'Ida: tutti, insomma, gli spettacoli gai, malinconici, tremendi, che dànno un vario piacere alla vista; e, poiché non può riprodurli con segni e colori, s'industria a farlo con le parole e con il verso.
E come il pittore che abbia molto studiato la natura sa, e solamente egli sa, lavorando poi di maniera, rappresentare scene che gareggino in evidenza con la realtà stessa: così B. sembra ricordarsi dei suoi studî dal vero nelle raffigurazioni di fatti mitici, che per i particolari e gli sfondi, riescono pertanto a dare una perfetta illusione
L'altra sua facoltà mirabile è di scolpire caratteri. Le sue figure sono ciascuna come vaso d'una passione che ne determina le azioni o le parole.
Ecco Creso, lo sdegnoso: insofferente della servitù, ascende il rogo; e le lagrime delle figliuole lo inducono, non già al pianto, ma ad un fiero rimbrotto contro i numi. Sopra le donne piegate nel dolore, la sua figura si leva con piglio veramente dantesco Meleagro, invece, l'eroe colpito da morte prematura, si mostra malinconicamente rassegnato alla ineluttabilità del fato, o, meglio, alla inflessibile non equa tenacia delle sanzioni divine. L'impeto che nella vita bella lo aveva spinto alle imprese eroiche, è adesso tutto illanguidito. Contro Eracle che veemente si prepara a trafiggerlo, non ha che miti e concilianti parole; e certa dolcezza fondamentale del suo carattere traspare dalla rassegnazione con cui accenna all'ingiusto procedere d'Artemide, che nei figli punisce le colpe dei padri, nel ricordo degli zii uccisi, velato d'un'ombra di rimorso, della madre spietata, di Deianira, rimasta tenera verginetta nella casa paterna. Di Teseo e I giovani appena occorre parlare qui non v'hanno solo i due caratteri spiccatissimi di Teseo, cavalleresco e temerario, di Minosse, superbo e ironico, ma anche il loro urto drammatico, sostenuto abilmente fino alla catastrofe.
E questi, come gli altri caratteri rappresentati nelle odi, emergono non per quanto dica il poeta, ma per ciò che i personaggi stessi favellano. B. ha esuberanza di discorsi, e riduce sovente la parte propria a una semplice didascalia (vedi, p. es., tutto il mito della ode V). Si è quasi concordemente osservato che di fronte alla maniera di rappresentare pindarica, procedente per scorci, B. rammenta invece l'epica. Questo può essere per talune composizioni, soprattutto per l'epinicio XI; ma la maggiore e miglior parte della produzione di lui fa piuttosto pensare al dramma. V'ha del drammatico in codesta scultura di caratteri, nel quasi autonomo dialogare dei personaggi innanzi ai quali il poeta stesso si annichila, e nel colorito dei loro discorsi, in cui suonano qualche volta esclamazioni assolutamente tragiche (p. es., III, 37, V, 153; Cfr. XV, 30). E specialmente notevoli sono i ditirambi XVI e XVII. Nel primo, oltre al contrasto dei caratteri di Minosse e Teseo, v'hanno i movimenti patetici dei giovinetti e della ciurma, i quali hanno quasi sentimento corale. Nel secondo, la vecchia forma è franta, quei lambelli onde il poeta introduceva e mandava innanzi l'azione sono caduti, e i personaggi, divisi in semicori, parlano per conto proprio. Questi due deliziosi canti corali sono composizioni drammatiche in miniatura, e in essi palpita veramente l'anima della tragedia. Si aggiungano le attrattive d'uno stile sempre limpido, agile, e fresco.
Certo è impossibile qualsiasi confronto con Pindaro - e fu pur tentato -. Massime negli epinici, in cui le sue facoltà venivano ad urtare contro presupposti inevitabili e contrarî alla sua indole, il poeta di Ceo rimane senza confronto inferiore al poeta di Tebe.
Ma i canti corali in cui può muoversi con tanto maggior libertà, sono composizioni stupende; e il XVI e il XVII arricchiscono di due impareggiabili tesori l'universale patrimonio dell'arte.
Edizione principe: F.G. Kenyon, Londra 1897. - Altre edizioni: V. Festa, Firenze 1898 e 1916; F. Blass, Lipsia 1898; H. Jurenka, Vienna 1898; R. C. Jebb, Cambridge 1905; A. Taccone, Torino 1906. Alcuni framm. più recentemente scoperti presso Diehl, Suppl. Lyricum, 3a edizione, Bonn 1917, pp. 78-82. Versione italiana con saggio critico di E. Romagnoli, Roma 1899; G. Fraccaroli, I Lirici greci, II, p. 414 seg.
Bibl.: Wilamowitz, Bakchylides, Berlino 1898; id., Sappho und Simonides, Berlino 1913, p. 183 segg. Per una compiuta bibliografia, cfr. W. Schmid e O. Stählin, Geschichte der griech. Literatur, I, Monaco 1929, pp. 523-40.