GIOVANNINI, Baccio
Nacque nel 1550 da Giovanni di Baccio (incerto è il nome della madre, forse tale Lena di Bernardo Guidetti, il cui nome figura nelle carte del canonico Salvini), probabilmente a Castelfranco di Sotto, nel Pisano, nonostante i documenti sembrino talvolta confondere la località con Castelfranco di Sopra, nel Valdarno superiore. Scarsissime sono le fonti che offrono notizie biografiche sul G., in particolare sulla sua giovinezza.
Che il G. fosse originario di Castelfranco lo si deduce dal suo interesse e dalla sua attenzione per quella terra, in particolare dalla sua volontà testamentaria, secondo la quale i frutti di un lascito investito nel Monte Pio, una volta raggiunta la somma di 4000 scudi, dovevano servire a maritare dieci fanciulle originarie di quella podesteria. La cerimonia doveva poi svolgersi il giorno della natività della Madonna nella cattedrale fiorentina di S. Maria del Fiore, di cui il G. fu canonico dal 1585.
Il G. fu estraneo agli ambienti accademici letterari di Firenze; entrò, forse verso i vent'anni, alla corte medicea come semplice palafreniere, grazie all'appoggio della famiglia Concini. Da una lettera dello stesso G. si può fare risalire il suo ingresso nella Segreteria ai primi anni '70. Dal 1572 le notizie su di lui si definiscono meglio grazie a un consistente carteggio con Francesco Gerini, segretario di legazione a Roma mentre era ambasciatore residente Alessandro de' Medici. In questi anni il G. sembra essere stato, oltreché segretario mediceo, l'amministratore in Toscana di alcuni possessi del Gerini, per conto del quale saldò dei debiti e vendette l'olio prodotto nei poderi inviando il ricavato a Roma.
Le lettere spedite a Roma erano quasi esclusivamente relative a negozi privati, in cui il G. si presentava come sollecito protettore dei parenti del Gerini, come quando cercava di appoggiare la candidatura di Antonio - nipote di Francesco - per un posto nell'Archivio Mediceo con la rendita di 120 scudi. Insistentemente in queste missive il G. ricercava appoggi e protezione per sé, in particolare per ottenere una "pensione di due o trecento scudi" (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3706a). Dalle lettere di questi anni emerge, tra l'altro, che il cardinale Ferdinando non aveva una predilezione particolare verso il G., circostanza determinante per le sue sorti future. Tra le missive scritte dal G. ve ne è una curiosa dell'agosto del 1586, in cui egli chiede denari per l'acquisto di polizze del lotto da parte dei membri della famiglia granducale; ciascuno le avrebbe segnate con un motto identificativo: Bianca Cappello si ispirava a s. Francesco ("del presente mi godo, et meglio aspetto"), mentre don Antonio preferiva "si Deus pro nobis, qui contra nos". Anche la giovane principessa Maria partecipava di questa passione per il gioco d'azzardo.
Nei primi anni '70 il G. figura tra i segretari di Cosimo I, e in seguito passò alla Segreteria di Francesco. Nel 1579 percepiva una provvisione di soli 6 scudi, collocandosi in posizione economicamente subordinata ai vari Belisario Vinta, Antonio Serguidi e Francesco Babbi, che beneficiavano di 10 scudi. In particolare il G. sembra essere stato segretario della granduchessa Giovanna d'Austria e di Bianca Cappello. Nel gennaio 1579, mentre svolgeva le sue mansioni presso la granduchessa (dal 1578) Bianca Cappello, la Comunità di Castelfranco di Sotto gli ottenne il rettorato della locale cappella di S. Pietro in Cattedra. Nel 1585 il G. ebbe il ben più prestigioso canonicato della cattedrale di Firenze per rinuncia di Ludovico Martelli, fatto vescovo di Joppe.
Con l'avvento, nel 1587, di Ferdinando I il nome del G. scompare dai ruoli della corte medicea. Ancor prima che si svolgessero le esequie di Francesco I, il G. aveva un chiaro sentore che nella nuova ridistribuzione dei ruoli non avrebbe trovato spazio alcuno. Apparentemente nessun cardinale si mosse in suo favore e probabilmente il G. si ritirò nel suo beneficio di Castelfranco. Nel 1594 commissionò per la locale chiesa la tavola di S. Pietro che risuscita un morto - nella quale è raffigurato un sacerdote in cui andrebbe riconosciuto il G. stesso - e la scalinata dell'altare.
Dopo quasi dieci anni di lontananza dalla corte, periodo sul quale non si dispone di altre notizie, il G. fu riammesso alla Segreteria, probabilmente per intercessione di Belisario Vinta - l'antico e più fortunato compagno di Segreteria - e delle sue istanze presso Cristina di Lorena. Nel 1596 il G. servì a corte per un periodo limitato, tre mesi, e nel dicembre del 1597, nell'imminenza di un suo ancora non notificato reimpiego a tempo pieno, già chiedeva una provvisione fissa per far fronte ai suoi debiti.
Lo angustiavano gli arretrati di una pensione di 50 scudi d'oro annui, non pagati da due annate, ma soprattutto un debito di 1700 scudi sul Monte di pietà, per saldare il quale aveva già impegnato le sue entrate (200 scudi), che avrebbe perso se fosse tornato a servire la Segreteria (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3706a, lettera al Vinta, 4 dic. 1597).
Il 17 giugno 1599 il G. prese possesso della diocesi di Pistoia per conto di Fulvio Passerini di Cortona. Sul finire dell'anno il G. fu nuovamente impiegato dai Medici, stavolta come residente alla corte di Francia: doveva curare gli ultimi preparativi delle nozze tra Maria de' Medici, nipote di Ferdinando, e il re di Francia Enrico IV. Il suo primo compito consisteva nel definire i termini di questo matrimonio, offrendo una dote di 500.000 scudi, poi pattuita definitivamente in 700.000. In secondo luogo doveva proporre una lista di servitori italiani con cui il granduca intendeva circondare la nipote alla corte di Francia. Tra questi figurava il nome di Concino Concini. Nonostante i Francesi non gradissero la presenza di italiani a corte - da loro visti come possibili spie, tanto più pericolosi quanto più erano vicini alle persone dei sovrani -, il G. riuscì a ottenere l'inserimento per alcuni di loro, tra cui appunto il Concini, successivamente divenuto suo aperto nemico a corte.
Quando Maria raggiunse la Francia, l'incombenza del G. consistette, piuttosto che nello svolgere funzioni di diplomazia attiva, soprattutto nel seguire la corte e la regina negli spostamenti tra Parigi, Fontainebleau e Saint-Germain, ricoprendo la carica di elemosiniere. Durante gli anni dell'ambasceria (1599-1607), il segretario Belisario Vinta fu l'interlocutore privilegiato del G. a Firenze. Dalle lettere del G. emerge, tra l'altro, che Enrico IV non stimava né lui né il suo segretario, Raffaello Romena, peraltro non certo affiatato con il Giovannini. Il Romena, da parte sua, non si faceva certo alcuno scrupolo a descrivere l'avarizia dell'ambasciatore. La venalità del G. irritava, del resto, lo stesso Ferdinando.
Il suo principale compito era quello di dare informazioni sulle giornate della regina Maria, sulle supposte gravidanze e sul suo matrimonio, circostanza che destava le massime preoccupazioni della corte di Toscana.
Così, ad esempio, il Vinta poteva rallegrarsi della notizia che il re aveva aumentato le entrate della regina di 15.000 scudi annui "per le spese delli suoi minuti piaceri" (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 4857). Ma il G. dedicava le sue attenzioni anche agli incontri del re con dignitari e prelati, nonché ai suoi spostamenti attraverso il Regno. Particolare attenzione la riservava alla politica economica del monarca, alle ultime vicende belliche nelle Fiandre o ai rapporti politici tra Francia e Spagna. Se dunque il ruolo diplomatico del G. era programmaticamente passivo - e lo confermano gli inviti a lui rivolti da Firenze a una estrema prudenza e silenzio - ben più dinamico appariva quello di informatore, verificabile attraverso lettere talvolta completamente cifrate, ma anche missive, dove l'oscurità delle cifre lascia il posto a idilliache scene di vita di corte sul battesimo del delfino a Fontainebleau (settembre 1606), cui seguono, senza soluzione di continuità, note sulla peste che si andava diffondendo in tutto il Regno.
Le lettere riportano inoltre le continue lagnanze del G. per la cattiva situazione finanziaria, invero motivata: temeva che il nuovo aiuto-segretario a lui assegnato nel febbraio 1603, Ottaviano Lotti, gli avrebbe aggravato le spese. E questo nonostante l'anno precedente il granduca avesse concesso al G. un aumento della provvisione annua, portata a 2500 scudi di moneta fiorentina, con cui avrebbe dovuto far fronte alle spese dei viaggi.
Alla corte francese pessimi furono i rapporti personali tra il G., Concino Concini e Leonora Dori (o Galigai, come talvolta viene chiamata), la dame d'atour che fin dall'infanzia aveva accompagnato la principessa Maria e che in seguito divenne moglie del Concini. A detta di Cosimo Baroncelli, Leonora aveva grande ascendente su Maria. Proprio a tale influenza, e al favore del re verso il Concini, il G. attribuiva la cattiva disposizione della regina e del sovrano nei suoi confronti. Tuttavia Ferdinando non richiamò il suo agente, come questi aveva richiesto, sebbene la posizione del G. a corte peggiorasse progressivamente a causa di quell'inimicizia.
Per questi anni sono interessanti, oltre alle lettere del G., quelle che Belisario Vinta gli scriveva da Firenze, non solo per comunicargli le direttive del granduca o per tutelare gli interessi familiari del G., bensì anche per informarlo, attraverso i fogli delle gazzette allegate alle lettere, su quanto accadeva nella penisola e, soprattutto, a Roma. Il G. venne a sapere così della morte del cardinale Anton Maria Salviati, ex vescovo di Saint-Papoul in Francia, come di quella del musicista Emilio Cavalieri. Dalle lettere del Vinta risulta che i progetti personali del G. non sempre raggiungevano l'obiettivo desiderato.
Nel maggio del 1602 il segretario lo informava sulla sorte della pieve di S. Stefano in Pane, di cui al G. fu negata la piena titolarità a causa dell'opposizione fatta da Roma al conseguimento di una dispensa alla residenza. In questo caso il G. si vide riconosciuta soltanto una pensione sullo stesso beneficio e la facoltà di resignarlo, cosa che fece sollecitamente in favore di Giovan Simone Tornabuoni.
Dopo quasi sette anni in Francia, nel febbraio del 1607 il G. ottenne di poter tornare in Toscana. L'ultimo periodo è poco noto, e quel poco attiene alla carica di canonico di S. Maria del Fiore e al beneficio di S. Pietro. Nel 1617 il G. dette il suo assenso alla Comunità di Castelfranco affinché la cappella fosse smembrata in tre diversi benefici con rendita annua di 500 scudi, nell'intento di dotare i giovani della comunità che intendevano studiare.
Le ultime notizie sul G. provengono dal suo testamento rogato dal notaio fiorentino Leonardo Bigazzi il giorno prima della morte. Il G. si spense a Firenze il 12 sett. 1619. Nel testamento lasciava al cugino Zanobi una casa in Firenze, ai servi il libero usufrutto di un podere a Castelfranco di Sopra, nel "popolo" di S. Jacopo a Montecarelli; tutto il resto, debiti compresi, sarebbe spettato a tale reverendo Simone Giovannini, probabilmente un nipote.
Il Salvini, scrivendo alla metà del '700, afferma che un ritratto del G. era conservato nella casa di Carlo Fortebracci, un discendente della famiglia Giovannini.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, filze 3706a, 4615, 4615a, 4616 s., 4617a, 4857 s.; Ufficio delle tratte, 1139 (nonostante il nome del G. sia indicato nel repertorio, non risulta l'atto di concessione della cittadinanza); Notarile moderno, 2033/8; Miscellanea Medicea, 458; Manoscritti, 313; Firenze, Arch. del Capitolo della Curia fiorentina, Carte Salvini, t. III (1500-1600); t. IV (1600-1700); S. Salvini, Catalogo cronologico de' canonici della Chiesa metropolitana fiorentina compilato l'anno 1751, Firenze 1782, p. 105; M. Paiter, Toscani alla corte di Maria dei Medici regina di Francia, in Arch. stor. italiano, XCVIII (1940), 2, pp. 93-99; M. Del Piazzo, Gli ambasciatori toscani del principato (1537-1737), Roma 1953, p. 142; F. Diaz, Il Granducato di Toscana, I, IMedici, Torino 1976, p. 250; J.F. Dubost, La France italienne (XVIe-XVIIe siècle), Paris 1997, pp. 73, 138, 432.