Balcani
Dopo il 1989 la storia dei B. è stata segnata da guerre e crisi, connesse soprattutto alla dissoluzione della Iugoslavia.
A mantenere unito quello Stato, che era nato nel 1919, non bastava più il decentramento attuato dopo il 1945 e rafforzato dalla Costituzione del 1974; del resto le ampie autonomie godute dalle sei Repubbliche e dalle due regioni autonome erano compensate dal controllo politico esercitato dalla Lega dei comunisti e dalla guida carismatica e autocratica del maresciallo Tito (J. Broz), segretario generale della Lega e presidente della Repubblica. Ma quest'ultimo morì nel 1980. La crisi precipitò dopo il 1989, nel quadro del risveglio delle nazionalità seguito al crollo del comunismo nell'Europa centro-orientale. I popoli iugoslavi ne furono profondamente coinvolti, e interpretarono il generale revival patriottico secondo le animose modalità che sono tipiche dei Balcani.
Della crisi della Iugoslavia, tuttavia, vi furono anche altre cause. Il nord del Paese, prospero e sviluppato, voleva il distacco dal sud, rurale e arretrato. Da decenni le Repubbliche di Serbia, Montenegro, Macedonia e Bosnia ed Erzegovina drenavano le risorse federali costituite dai maggiori redditi di Slovenia e Croazia. Fra i due popoli più numerosi, il serbo e il croato, le rivalità erano state d'altronde incessanti sin dal 1919: i Croati attendevano da sempre il momento adatto per la secessione. Inoltre va tenuta presente l'esistenza nello spazio iugoslavo di due distinte aree di civiltà, l'asburgica e l'ottomana. Alla prima appartengono storicamente gli Sloveni e i Croati; alla seconda i Serbi, i Montenegrini e i Macedoni. I Bosniaci ebbero il particolare destino di essere sottoposti a una lunga ottomanizzazione, finché nel 1878 passarono sotto il dominio asburgico.
Alle diverse influenze di civiltà corrispondono diverse appartenenze religiose: cattolici gli Sloveni e i Croati, ortodossi o musulmani i popoli fra Sarajevo, Belgrado e Skopje.
Le differenze identitarie erano comunque compensate da alcuni fattori di coesione. Anzitutto la comunanza etnica, perché in gran parte i popoli iugoslavi erano discendenti di antiche tribù per l'appunto slave; la sola eccezione era costituita da alcune minoranze (Albanesi, Ungheresi, Italiani, Ebrei, Rom). Poi la lingua, essendo il serbo-croato parlato correntemente dall'80% dei cittadini dello Stato e ben compreso dai restanti. Per non parlare dei numerosi matrimoni misti, che legavano fra loro le diverse comunità (tranne gli endogamici Albanesi, che si sposavano quasi solo all'interno del loro gruppo).
In ogni caso, la morte di Tito mise in crisi il sistema iugoslavo, basato in larga misura sulla forza della sua personalità. Come immediata conseguenza della scomparsa del leader, nel Paese i fermenti nazionalistici sorsero virulenti. Quando gli Sloveni e i Croati decisero la secessione, la comunità internazionale ebbe, inizialmente, reazioni incerte: tuttavia nel volgere di pochi mesi, soprattutto per la pressione di Germania e Austria, decise il riconoscimento diplomatico di Slovenia e Croazia (prime a proclamare il distacco dalla Iugoslavia il 25 giugno 1991). La Germania lo attuò il 23 dicembre 1991, seguita poco tempo dopo dagli altri Paesi occidentali. Vennero poi i riconoscimenti di Bosnia e Macedonia (apr. 1992), mentre Serbia e Montenegro restarono unite con il nome di Repubblica Federale di Iugoslavia, quasi a rivendicare l'eredità ideale di quest'ultima.
I nuovi Stati vennero riconosciuti, con frettolosa leggerezza, sulla facile base delle linee di demarcazione delle Repubbliche esistenti nello Stato iugoslavo, disegnate da Tito nel 1945 con criteri che tenevano solo secondariamente conto della distribuzione in esse dei diversi popoli. Dei confini amministrativi interni divennero così frontiere statuali che non rispettavano la diffusione delle nazionalità sui vari territori. Nel 1991 soltanto la Slovenia (due milioni di abitanti) poteva sostenere di essere omogenea dal punto di vista etnico, essendo abitata prevalentemente da Sloveni. Altrove si rifletteva la struttura multinazionale di uno Stato, come la Iugoslavia, derivato dall'assemblaggio di territori collocati per secoli all'interno di grandi imperi, la cui natura era tale da far mescolare e fondere i diversi popoli tra loro. In Croazia (quattro milioni e mezzo di abitanti) il 12% della popolazione era serbo. In Bosnia (quattro milioni) il 42% era musulmano (qui la religione fa la nazionalità), il 33% serbo, il 17% croato, e vi erano ulteriori minoranze. In Serbia (dieci milioni) il 20% era albanese, come albanese era il 10% dei 600.000 abitanti del Montenegro e il 21% dei due milioni della Macedonia. Musulmani erano sparsi ovunque nella Federazione, come anche Serbi, Croati, Albanesi, in nuclei di varia entità secondo le Repubbliche. Le vicende belliche coinvolsero, dal 1991 al 2001, tutte le ex Repubbliche iugoslave, una dopo l'altra, con una progressione geografica da nord a sud. Il nodo del contendere fu dapprima il mantenimento o meno della Iugoslavia: presto tuttavia ciascun belligerante combatté per tutelare spazi e frontiere del proprio popolo, nella generale consapevolezza che l'idea iugoslava fosse definitivamente tramontata e convenisse tutelare l'estensione del proprio Stato-nazione.
Nell'estate 1991 s'iniziò a combattere in Slovenia, dove gli scontri con l'esercito federale, deciso a impedire la secessione, furono brevi e poco cruenti: non più di sessanta furono le vittime da ambo le parti prima del ritiro delle truppe iugoslave. La guerra in Croazia, che scoppiò subito dopo, fu ben più lunga e sanguinosa. Nell'aprile 1992 iniziarono le ostilità in Bosnia, dove lo scontro non fu solo tra Bosniaci musulmani e Serbi: tutti e tre i popoli di quella Repubblica si combatterono l'un l'altro per tre anni; vi fu persino un periodo in cui i Croati, entrati in conflitto con i musulmani, furono alleati dei Serbi, loro avversari invece in Croazia, dove la guerra nel frattempo continuava. In seguito i Croati stabilirono un'alleanza con i musulmani, patrocinata dagli Stati Uniti, per sconfiggere i Serbi. L'esito finale del conflitto in Croazia e in Bosnia, segnato da una progressiva internazionalizzazione (dovuta soprattutto alla spettacolarizzazione mediatica dell'assedio di Sarajevo), fu la sconfitta serba.
Imposti dall'intervento della NATO, gli accordi di pace furono firmati il 21 novembre 1995 a Dayton (negli Stati Uniti) dai tre presidenti che condividevano le massime responsabilità degli avvenimenti sin dallo scoppio della crisi iugoslava, ossia il serbo S. Milošević, il croato F. Tudjman e il bosniaco musulmano A. Izetbegović. Tali accordi costituirono un compromesso: sancirono l'integrità territoriale della Croazia, ma non permisero ai Croati di Bosnia di unirsi ai compatrioti di Zagabria, com'era invece nei progetti di Tudjman; per la Bosnia stabilirono la creazione di unà musulmano-croata e di una serba, che godevano di larghe autonomie. Era stato proprio per non sottostare a un governo musulmano, oltre che per preservare il sogno panserbo della Iugoslavia, che i Serbi s'erano ribellati all'indipendenza della Bosnia nel 1991. A Dayton si previde anche la punizione dei criminali di guerra e lo stazionamento in Bosnia di forze armate internazionali per tutelare la pace.
Le vittime delle guerre in Croazia e Bosnia, classificate di 'bassa intensità' dagli osservatori malgrado il verificarsi di feroci crudeltà anche verso i civili, furono circa 130.000. Altre stime ne calcolano invece 250.000 o più, ma si tratta di contabilità poco credibili, che scontano la spinta di ciascuna parte belligerante ad aumentare i propri morti. Almeno tre milioni furono i profughi, prevalentemente Bosniaci musulmani, e in misura minore Serbi. Le pulizie etniche furono un tratto caratterizzante delle ostilità, come regolarmente avviene tra popoli balcanici in armi almeno dagli inizi del 19° sec., ossia dalle guerre d'indipendenza dei diversi popoli 'cristiani' dal dominio ottomano.
La crisi iugoslava, tuttavia, non si concluse nel 1995. Restava il focolaio del Kosovo, già regione autonoma della Repubblica di Serbia entro lo Stato federale iugoslavo. Il Kosovo era abitato da una schiacciante maggioranza albanese (oltre l'80%), ma l'amministrazione era in mano alla minoranza serba sin dal 1990, quando Milošević aveva imposto con la forza che l'autonomia della regione venisse cancellata. Il confronto tra Albanesi e Serbi scivolò gradualmente nello scontro frontale. Nel 1996 entrò in azione l'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, Esercito di liberazione del Kosovo), formazione di guerriglia albanese, che nell'estate del 1998 ingaggiò addirittura una guerra aperta contro i reparti militari serbi. Gli strascichi di questo breve conflitto, in cui l'UÇK ebbe la peggio ma riuscì a portare la causa albanese all'attenzione internazionale, condussero nella primavera del 1999 a una campagna aerea della NATO contro la Iugoslavia di Milošević, presentata come 'intervento umanitario'. Dopo l'avvio delle ostilità i Serbi, non fronteggiati dalla NATO sul terreno ma solo bombardati dall'alto, riversarono la loro collera sugli Albanesi del Kosovo, provocando l'esodo di 800.000 persone, la metà circa della popolazione della regione. Il rientro dei profughi avvenne con il ritorno alla pace e l'abbandono del Kosovo da parte delle forze armate serbe. Il conflitto ebbe un costo di circa 6000 morti (secondo stime della NATO), la maggior parte albanesi. Successivamente furono i pochi Serbi rimasti nella regione a trovarsi in pericolo per le rappresaglie: si voleva a quel punto un Kosovo albanese etnicamente omogeneo, e circa 2000 Serbi vennero uccisi negli anni successivi alla guerra.
Dopo il Kosovo fu il turno della Macedonia. In quella Repubblica la maggioranza slava controllava gran parte dello Stato e dell'impiego pubblico. Gli Albanesi, che abitavano fittamente le province nord-occidentali, erano generalmente emarginati dalle istituzioni, e nel sistema d'istruzione la loro cultura non era tenuta in alcun conto. Forti dell'esempio dato dall'UÇK nel confinante Kosovo, nel gennaio 2001 essi presero le armi. Le deboli forze armate macedoni non riuscirono a riprendere il controllo delle zone della ribellione, e si impose la necessità di accordi di compromesso, fortemente richiesti dalla comunità internazionale, preoccupata dalla prospettiva di una guerra civile vera e propria. Gli accordi di Ohrid (in Macedonia) dell'agosto 2001 attribuirono agli Albanesi quote di personale e di influenza nella vita politica e nell'amministrazione del Paese, in maniera proporzionale al loro peso demografico.
Tratto caratteristico dei vari conflitti iugoslavi fu il fatto di preludere alla creazione di veri e propri protettorati internazionali: in Bosnia, in Kosovo e in misura minore in Macedonia. In questi Paesi l'incertezza dei rapporti tra i diversi popoli consigliò alla comunità internazionale il mantenimento di cospicui contingenti militari, in appoggio ad autorità politiche espresse dalle potenze occidentali e dalle Nazioni Unite, per scongiurare la ripresa dei combattimenti.
La tutela internazionale ha avuto peraltro anche un rovescio della medaglia. Le economie balcaniche si sono in un certo senso assuefatte all'assistenza internazionale, e di conseguenza non hanno espresso alcuno slancio produttivo o anche solo creativo. Le frontiere imposte dalla dissoluzione della Iugoslavia costituiscono tuttora barriere che frenano i commerci e gli scambi (ma non altrettanto i traffici illegali).
Vi furono, al di fuori dell'ex spazio iugoslavo, alcuni elementi positivi, il maggiore dei quali fu l'apertura dell'Albania, uscita nel 1990 da una dittatura che l'aveva ermeticamente chiusa verso l'esterno. La sua evoluzione, pur avvenuta non senza crisi (come quella del 1996-97, quando la popolazione insorse contro le istituzioni per la gigantesca frode delle cosiddette finanziarie a piramide), bilancia in parte le lacerazioni verificatesi nella comunità dei popoli balcanici per effetto delle guerre iugoslave. La fine del nazionalcomunismo albanese ha ricollocato gli abitanti di quel Paese nella 'normalità', richiedendo loro di adeguarsi alla vita politica ed economica internazionale. L'Albania aiutò l'UÇK nei momenti cruciali della crisi kosovara, nel 1998-99, ma nell'insieme svolse un ruolo pacifico.
Molti fantasmi del passato balcanico - genocidi, pulizie etniche, odi atavici, barbare crudeltà - riemersero mentre scompariva pezzo dopo pezzo la Iugoslavia (il cui stesso nome fu cancellato dal vocabolario politico nel 2002, per scelta del nuovo leader serbo V. Koštunica, che volle ribattezzare il suo Paese 'Serbia e Montenegro'). Le responsabilità della ricomparsa di tali fantasmi gravano su molteplici attori locali e internazionali. In primo luogo sui tre presidenti Milošević, Tudjman e Izetbegović, nonché sugli estremisti sciovinisti delle diverse fazioni nazionali. Ma anche la comunità internazionale ha gravi responsabilità, non avendo saputo prevenire politicamente le varie crisi iugoslave. In particolare avrebbe dovuto garantire eque condizioni a ciascun popolo nel processo di dissolvimento della Federazione, per evitare il ricorso alle armi. Inoltre essa non fu unanime e concorde nell'esercitare pressioni sui diversi belligeranti, né si mosse tempestivamente per evitare l'aggravarsi della situazione in Kosovo, riducendo le sue possibilità d'azione al solo intervento militare.
bibliografia
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