CARDUCCI, Baldassarre
Nato a Firenze nel 1456 da Baldassarre (dei Signori nel 1455) di Niccolò e da Caterina Ginori, fu battezzato col nome di Giovan Francesco. In ricordo del padre, alla sua morte, mutò il nome in quello di Baldassarre. Studiò diritto presso l'università di Pisa, dove rimase anche dopo aver ottenuto la laurea (intorno al 1480), dapprima quale insegnante di diritto canonico (dal 1485) ed in seguito anche con la carica di vicario arcivescovile. La rivolta di Pisa del 1494 e i provvedimenti presi dai Pisani per tutelare la città contro le insidie dei Fiorentini dovevano ripercuotersi anche su chi, come il C., pur non essendo direttamente impegnato nell'attività politica, occupava tuttavia nella città cariche di prestigio. è infatti proprio del 1494 una lettera degli Anziani del Comune di Pisa all'arcivescovo Raffaele Riario, residente a Roma, in cui chiedevano di liberare la città "ab isto vicario florentino nobis et clero pisano inimico" (Arch. di Stato di Pisa, Comune C, 10, c. 29) e proponevano per la carica il pisano Luigi di Marco del Biadaiuolo. Il C. era costretto ad allontanarsi dalla città. Per salvare i pochi beni che possedeva nel distretto e per prevenire un'eventuale confisca effettuava una falsa donazione a due cittadini pisani.
Riprese a Firenze, nuova sede universitaria, la sua funzione di insegnante, che avrebbe mantenuto sino al 1502, e contemporaneamente si impegnò nell'esercizio dell'avvocatura. Un incarico di un certo rilievo, che testimonia già in questo periodo l'orientamento antimediceo delle idee del C., si ha nel 1499, quando, per sedare le lotte in Pistoia fra Panciatichi e Cancellieri, la Signoria di Firenze propose ai due partiti avversi di scegliere ciascuno un difensore. Le due famiglie, entrate in contesa circa l'elezione dello spedaliere di San Gregorio, scelsero rispettivamente Antonio Malegonnelli e il C., che riusciva ad ottenere il successo del partito antimediceo dei Cancellieri.
Se si eccettua la carica di priore, occupata nel settembre-ottobre 1502, bisogna attendere sino al 1511 per trovare il C. impegnato nella vita pubblica fiorentina. Appartiene infatti al periodo immediatamente antecedente al rientro dei Medici la partecipazione alle ultime vicende della Repubblica che gli varrà poi i rancori della famiglia al potere e la fama di democratico filofrancese.
Nel 1511, quando il gonfaloniere Piero Soderini, per sostenere la lotta contro Giulio II e per preparare la resistenza, decise che il clero toscano avrebbe contribuito alle spese di guerra, il C. ricevette l'incarico di ripartire l'imposta sugli ecclesiastici. Probabilmente grazie all'abilità con cui si disimpegnò in questo compito e all'esperienza di uomo di lettere, gli fu affidata la missione, l'anno successivo, di farsi portavoce della Repubblica presso l'esercito nemico col fine di giustificare l'alleanza fiorentina coi Francesi e di dimostrare "l'osservanza avuta sempre al Re d'Aragona" (Guicciardini, II, p. 1078). Le difficoltà in cui si dibatteva Firenze, assediata dalle truppe della Lega e impreparata internamente, rendevano arduo il compito del C. che, sin dal suo arrivo presso l'esercito nemico (agosto 1512), constatava di persona l'impossibilità di raggiungere un compromesso.
Ricevuto dal viceré spagnolo in un colloquio segreto il 23 ag., cercava di attenuare la reale portata dell'alleanza fiorentina con la Francia inserendola in una più complessa rete di rapporti internazionali. Concludeva sottolineando che non poteva "essere ascripto a colpa l'essersi confederati et stati in amicitia con Franzesi: perché, come sapeva sua Excellentia, la qualità de' tempi et il desiderio di recuperare le cose sue pativano tale adherentie et collegationi" (Guasti, II, p. 21). Le ragioni addotte dal C. nulla potevano contro lo schieramento di forze che si opponeva a Firenze e che, come ricordava il viceré, non andava attribuito "solo a la Catholica Maiestà, ma universalmente a tucta la Lega, et maxime a la Santità del Papa, che così ha deliberato" (ibid., pp. 23-24). Di fronte alla complessità della situazione la missione diplomatica del C. si arenava e il ruolo dell'inviato fiorentino si veniva ormai riducendo a quello di semplice osservatore presso l'esercito nemico. Le accorate notizie, inviate a Firenze, delle distruzioni da parte delle truppe della Lega e in particolare la descrizione del sacco di Prato, secondo alcuni avrebbero contribuito ad aumentare lo scompiglio in città e a favorire un più rapido rientro dei Medici.
Con la restaurazione medicea il C., come altri democratici ormai compromessi dai rapporti col regime repubblicano e invisi al nuovo governo, preferiva allontanarsi da Firenze. Gli anni dell'esilio, che durerà fino al 1577, dovevano costituire la base della fama di perseguitato dai Medici che il C. si formava già dopo il 1512 presso gli ambienti popolari fiorentini e che avrebbe rappresentato il fondamento del suo successo politico nel periodo dell'ultima Repubblica. Con l'esilio riprendeva il suo lavoro di insegnante utriusque iuris, dopo averlo abbandonato dal 1502. Nel 1518 dal monaco camaldolese Pietro Dolfin veniva infatti introdotto presso gli ambienti accademici della città di Padova, in cui risiedeva sin dalla sua partenza da Firenze. Nella Repubblica di Venezia il C. sarebbe rimasto per tutto il tempo dell'esilio.
Con l'età si acuiva anche l'atteggiamento ostile ai Medici del Carducci. Nel 1526, non limitandosi solo alla tradizionale propaganda antimedicea che aveva condotto durante tutto il periodo dell'esilio, aveva l'ardire di rivolgere al papa Clemente VII l'offesa infamante di "bastardaccio", "non si ricordando", nota il Varchi, "che i prencipi (come si suol dire per proverbio) hanno le braccia lunghe" (Varchi, I, p. 174). Il papa infatti, unito a Venezia nella lega di Cognac, tramite il doge Andrea Gritti e l'inviato fiorentino Alessandro de' Pazzi, lo faceva chiudere nelle prigioni veneziane. Solo nel maggio del 1527 al C., ammalato, si concedeva la libertà vigilata, grazie al versamento di un'ingente cauzione.
Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, uno dei primi atti del nuovo governo repubblicano fu quello di far pressione presso le autorità veneziane per ottenere il rilascio del Carducci. L'ambasciatore fiorentino Alessandro de' Pazzi, che l'anno precedente aveva contribuito alla prigionia del C., si adoperava ora per ottenerne la libertà con il fine di ingraziarsi il nuovo governo. Di lì a poco il C. veniva definitivamente liberato. Nonostante che il suo nome fosse inserito nella rosa dei candidati alla carica di gonfaloniere e che su di lui confluissero numerosi i più ostili oppositori al regime mediceo, il C. non otteneva la vittoria sul più influente Niccolò Capponi. Certamente doveva però contribuire alla sua sconfitta il fatto di non essere ancora rientrato in città a causa della malattia contratta in prigione. Con l'arrivo a Firenze, nel giugno 1527, egli diventava ben presto uno degli animatori del partito degli Arrabbiati e uno dei più temibili avversari del Capponi.
Certamente l'esilio, la persecuzione da parte dei Medici e infine la prigionia avevano contribuito ad approfondire e a precisare una posizione politica che già aveva tuttavia avuto modo di manifestarsi con la partecipazione del C. alle vicende del 1511 e soprattutto con la missione diplomatica del 1512. Ostile ad ogni compromesso con i Medici e con coloro che avevano partecipato alla gestione del regime mediceo, conserverà sempre l'idea della necessità di coordinare una politica interna aperta verso gli ambienti più popolari con una politica estera favorevole alla Francia e lontana da ogni patteggiamento con il papa o con gli Spagnoli. L'apertura verso i ceti popolari, che formeranno sempre la base più consistente del consenso alla sua politica, sebbene maturata attraverso una lunga esperienza, trova il suo fondamento nella stessa posizione sociale ed economica del C., che, pur appartenendo ad un'antica famiglia, non condivide certo la ragguardevole posizione sociale di altri dei maggiori esponenti (Tommaso Soderini, Alfonso Strozzi) del partito degli Arrabbiati. Poche terre vicino a Signa, che a stento formano la base della sussistenza familiare, e le entrate derivanti dalla professione di avvocato costituiscono il fondamento economico di una fortuna molto ridotta.
Testimonianze della posizione politica del C., all'indomani del suo rientro a Firenze, sono l'aperta ostilità ai tentativi del Machiavelli di stabilire nuovi rapporti con il regime repubblicano, dopo l'ambiguo contegno del periodo mediceo, e l'opposizione ad ogni possibile intesa col papa. Eletto alla magistratura dei Dieci nel dicembre, ribadiva la sua ostilità alla politica estera più cauta del Capponi e costituiva a poco a poco il polo di convergenza dei ceti popolari e degli ambienti più democratici. Il culmine del suo successo personale veniva raggiunto fra il dicembre 1527 e il giugno 1528.
Proprio nel dicembre il C. era fra i promotori dell'istituzione di una guardia armata al palazzo della Signoria, che avrebbe dovuto garantire da un colpo di mano degli ambienti più moderati sotto la guida del Capponi. Ma la formazione della guardia al palazzo, se costituiva un indubbio sintomo del potere raggiunto dagli Arrabbiati, aveva l'effetto di riunire in un blocco Palleschi, ottimati e repubblicani moderati che temevano il prepotere degli ambienti democratici. Perciò il C., di fronte alla situazione politica che si andava modificando, e in vista dell'elezione a gonfaloniere del giugno, cercò di ampliare l'area del suo consenso sin dai primi mesi del 1528, rendendo meno rigida la sua politica con un'apertura in senso più moderato. Nel maggio 1528 la tattica da lui seguita sembrava ormai aver riscosso il più completo successo e il risultato delle elezioni alla carica di gonfaloniere simbrava scontato. In Firenze circolava addirittura un opuscolo anonimo stampato a Siena che descriveva le virtù del perfetto gonfaloniere portando come modello proprio il Carducci.
I pronostici della vigilia venivano invece smentiti: all'elezione del 10 giugno la carica di gonfaloniere veniva riconfermata al Capponi. Le fratture interne all'ambiente degli Arrabbiati e i tentativi del C. di avvicinare alla sua causa i settori più moderati avevano avuto il risultato di rendere meno saldo il partito popolare. I mesi seguenti segnavano l'indebolimento della posizione del C. e la sua maggiore vulnerabilità da parte dei moderati. Per allontanarlo da Firenze gli veniva dapprima proposta un'ambasceria a Venezia. Il C. rifiutava. Non poteva però opporsi alla successiva designazione (23 ottobre) quale inviato in Francia presso Francesco I senza incorrere in pesanti sanzioni pecuniarie che le sue "debili facoltà" (Pitti, p. 167) non permettevano di sostenere. Riusciva tuttavia a rimandare ancora la data della partenza. Nel novembre Iacopo Alamanni, appartenente al partito degli Arrabbiati e macchiatosi dell'uccisione di un seguace del Capponi, veniva condannato dal tribunale della Quarantia nonostante il voto contrario (l'unico) del Carducci. Ciò gettava lo scompiglio fra gli Arrabbiati, che potevano constatare la loro debolezza di fronte al partito del Capponi, e contribuiva a screditare ulteriormente il C., che era quindi costretto, ai primi di dicembre, ad accettare l'ordine, ormai improcrastinabile, di lasciare Firenze per recarsi presso il re di Francia. Non avrebbe mai più rimesso piede in città.
La nuova missione diplomatica del C. doveva consistere, secondo quanto si affermava nelle "istruzioni", nel confermare al re come il governo repubblicano fosse il solo capace di garantire la fedeltà di Firenze alla Francia, nell'esporre le critiche condizioni della città e nel cercar di ottenere aiuti finanziari. Lo spirito delle "istruzioni" coincideva in gran parte con le idee che lo stesso C. aveva sostenuto e che durante il viaggio alla volta della Francia trovava modo di confermare in un colloquio con Andrea Doria. Di fronte al Doria che invitava il governo fiorentino a seguire il suo esempio passando dall'alleanza con la Francia a quella con gli Spagnoli e che indicava come l'aiuto promesso a Firenze fosse dal re di Francia subordinato al desiderio di riottenere i figli, il C. ribatteva come, nel momento specifico, la speranza di un aiuto francese fosse l'unico possibile sostegno della Repubblica e l'unica garanzia contro il rientro dei Medici.
I primi mesi di permanenza in Francia del C. non portavano nuovi risultati nei rapporti del re con Firenze. Tranne un prestito di 20.000 scudi, insignificante se raffrontato alle esigenze della Repubblica, ottenuto nel febbraio del 1529, Francesco I era munifico solo di assicurazioni di fedeltà alla causa fiorentina. Le notizie della svolta democratica impressa alla Repubblica con l'elezione al gonfalonierato di Francesco Carducci, parente del C., il 18 aprile, e le difficoltà di Firenze dopo l'accordo di Barcellona, nel giugno, rendevano ancora più urgente la necessità di aiuti francesi che il C. doveva procurare. Le ripetute promesse di Francesco I a Firenze venivano sopravvalutate dal C., che in una lettera del 17 giugno riconfermava la sua fiducia alle parole del re il quale affermava "di non esser mai per fare alcuna composizione senza total beneficio e conservazione di cotesta Città, la quale reputa non manco che sua" (Négociations dipl., II, p. 1059).
Solo nell'agosto, in seguito alla pace di Cambrai e all'abbandono di Firenze da parte della Francia, il C. era costretto a riconoscere il suo errore: "Confesso veramente questo potermisi imputare aver prestato fede a tante affermazioni di non concludere mai senza i collegati" (ibid., p.1103). In una lettera del 5 agosto dava sfogo, ormai in ritardo, ai suoi rancori: "Io non posso senza infinito dispiacer d'animo significare l'impia ed inumana determinazione di questa Maestà… in questo trattato di pace, stretto contro mille promesse e giuramenti del non concludere cosa alcuna senza la partecipazione degli aderenti e collegati, come più volte s'è per me scritto e significato alle Signorie Vostre" (ibid., p.1102).
Nei mesi successivi il C., pur senza alcun successo e nonostante i tentativi da parte del re di allontanarlo dalla sua corte, cercava ancora di ottenere presso Francesco I aiuti finanziari per la Repubblica.
Morì in Francia, ad Angoulême, il 6 ag. 1530, tre giorni dopo la rotta delle truppe fiorentine a Gavinana.
Lasciava due figli, Niccolò e Francesca, che aveva avuti dalla moglie Lodovica Guidetti, morta a Padova nel 1512 e sepolta nella chiesa dei servi della stessa città.
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