Castiglione, Baldassarre
Baldassarre Castiglione nacque a Casatico, presso Mantova, il 6 dicembre 1478. Dal 1504 al 1513 visse a Urbino, uno dei maggiori centri della cultura rinascimentale, e svolse numerose missioni diplomatiche (in Inghilterrra nel 1506, a Milano nel 1507). Dal 1513 al 1516 in qualità di ambasciatore del duca di Urbino si stabilì a Roma, dove partecipò attivamente alla vita culturale della città. Rientrato a Mantova, dopo la morte della moglie, Ippolita Torelli, nel 1520, abbracciò lo stato ecclesiastico e nel 1524 fu nominato da Clemente VII nunzio apostolico a Madrid alla corte di Carlo V. Morì a Toledo l’8 febbraio 1529 di febbre pestilenziale.
Letterato nutrito della migliore tradizione classica e umanistica, Castiglione ha lasciato un’abbondante produzione in prosa e in versi, comprese alcune poesie latine. Le sue lettere hanno interesse per la comprensione delle vicende di cui fu diretto testimone e fedele cronista; tra queste si segnalano la vibrante autodifesa dopo il sacco di Roma e la celebre lettera sulle rovine archeologiche romane scritta nel 1519.
L’editio princeps del Cortegiano fu stampata a Venezia presso Aldo Manuzio nel 1528, mentre l’autore si trovava in Spagna (➔ editoria e lingua). Nei primi mesi del 1527 Castiglione aveva inviato il codice Laurenziano-Ashburnhamiano 409 (L, su cui si fonda l’edizione aldina) a G.B. Ramusio e aveva affidato il testo per un’ulteriore revisione linguistica al letterato Giovan Francesco Valerio (Ghinassi 1963; 1971). Ma neppure la stampa pose fine all’elaborazione del Cortegiano; infatti il 28 giugno del 1528 Castiglione trasmette a N. Maffei una «poliza» contenente le indicazioni per alcune correzioni sulle copie già stampate. Gli studi di Cian (1942; 1951) e di Ghinassi (1967) hanno magistralmente ricostruito le fasi e i tempi della scrittura del Cortegiano, distinguendo tre redazioni. Il primo nucleo dell’opera risale al 1513-1514 e si conclude verosimilmente nel 1516. La stesura offerta dal Vaticano Latino 8204 (B) non è ancora compiuta: comprende la parte corrispondente ai primi due libri della vulgata e il prologo al libro seguente, che corrisponde pressappoco con quello edito nel IV libro.
La prima redazione del Cortegiano, in quattro libri, si colloca tra il 1518 e il 1520, «si presenta in forma assai diversa dalla definitiva» (Ghinassi 1967: 158) e contiene la dedica al «re cristianissimo» Francesco I. Inoltre la materia del I libro della vulgata è divisa in due libri, la disputa sul valore delle donne è l’argomento principale del IV libro e del tutto assenti sono i temi dei rapporti tra il principe e il cortigiano e l’esaltazione dell’amore spirituale che costituiscono la materia del IV libro della vulgata. Questa stesura già circolava nell’autunno del 1518 per essere sottoposta al giudizio di J. Sadoleto e di ➔ Pietro Bembo (Ghinassi 1967: 178-179) per il tramite di Ludovico di Canossa. Nel frattempo, al termine di una profonda revisione, l’opera assume un aspetto rinnovato nella seconda redazione, in tre libri, compiuta nel 1520-1521, edita da Ghinassi (1968), sulla base dei due testimoni, i Vaticani latini 8205 (C) e 8206 (D). Scompare la dedica al re di Francia, cosicché i due libri della prima redazione confluiscono in uno solo; il II libro sulle facezie non ha significative varianti strutturali, mentre l’ultimo libro, ossia il III, mostra i «mutamenti più notevoli e indicativi», perché a questa altezza è inserita la digressione sui rapporti tra principe e cortigiano, totalmente assente nella prima redazione (Ghinassi 1967: 159). Nella terza e ultima redazione Castiglione ridistribuisce più razionalmente i materiali suddividendoli in quattro libri. Il terzo libro della seconda redazione è diviso in due libri, III e IV della vulgata; le pagine relative a una concezione terrena o cortigiana della donna e dell’amore sono riorganizzate attorno al nuovo tema della «donna di palazzo»; il IV libro, diviso nettamente in due parti, «accoglie nella prima l’excursus sui rapporti tra il principe e il cortigiano […] mentre nella seconda […] convoglia tutta la tematica dell’amor spirituale» (Ghinassi 1967: 160), di modo che l’opera assume una fisionomia radicalmente diversa rispetto alla sua prima ideazione. Il 23 maggio 1524 ha termine la prima stesura della terza redazione (questo l’explicit sul codice L).
I profondi mutamenti di struttura e di contenuto tra una redazione e l’altra implicano il maturarsi di una diversa prospettiva culturale e si riflettono di necessità nella vulgata, che rivela fratture e scompensi tra la prima parte, che risente della trattatistica cortigiana quattro-cinquecentesca, e l’ultima parte teorica, che rinvia ad un altro modello culturale e ideologico dedicato alla «instituzione» del principe e alla trattazione di matrice platonica e ficiniana svolta da Bembo sull’amore spirituale. Il dialogo si immagina avvenuto nel palazzo di Urbino durante quattro serate nel 1506, mentre Castiglione si trovava in Inghilterra. Nel primo libro Ludovico di Canossa tratta delle qualità fisiche e morali del perfetto cortigiano; nel secondo Federico Fregoso illustra le circostanze in cui il cortigiano deve dar prova delle sue virtù; nel terzo Giuliano de’ Medici delinea la figura della perfetta «donna di palazzo»; nel quarto Ottaviano Fregoso espone i rapporti tra il principe e il cortigiano, e nella ultima parte il Bembo esalta l’amore spirituale che conduce alla conoscenza del sommo bene. In questo nitido schema si inseriscono delle ampie e significative digressioni: nel libro I la discussione sulla lingua (capp. 28-39); nel II le facezie (capp. 42-93) raccontate da Bernardo Dovizi da Bibbiena; nel III gli esempi di virtù e di costanza di cui hanno dato prova le donne. Nel corso del trattato sono quindi elencate le virtù fisiche e morali, l’ingegno e la cultura consone al perfetto cortigiano, il quale nella scena della corte deve subordinare ogni suo atto e parola alla «regula universalissima» della grazia, che si definisce e contrario dalla necessità di «fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (I, cap. 26).
Nel Cortegiano la discussione sulla lingua s’impone «come preliminare dichiarazione, concordata e motivata, del sistema linguistico che produce l’enunciazione del dialogo» (Quondam 19872: XIV). Si tratta infatti di circoscrivere e di definire in positivo e in negativo quale modello di lingua sia preferibile usare nella realtà discorsiva del dialogo. La discussione sulla lingua non è solo un momento fondamentale nell’economia del trattato, ma si inserisce a pieno titolo nella disputa sul volgare dei primi decenni del Cinquecento, offrendo spunti e soluzioni innovative (➔ questione della lingua).
Il pensiero linguistico di Castiglione muta significativamente tra una redazione e l’altra (cfr. Ghinassi 1967; Pozzi 1989), rispetto alla vulgata dove la questione viene impostata fin dalla dedica (che è della primavera del 1527) a De Silva su basi antitoscane e antibembesche. Infatti a Castiglione «la lingua appare quello che essenzialmente è: uno strumento di comunicazione da valutare secondo criteri di funzionalità» (Pozzi 1989: 127), e l’unico criterio nella scelta della lingua e delle parole consiste nell’adeguatezza del pensiero con l’espressione, «perché il divider le sentenzie dalle parole è un divider l’anima dal corpo: la qual cosa né nell’uno né nell’altro senza distruzione far si po» (I, cap. 33), scelta anch’essa comunque subordinata alla regola della grazia, e guidata dai criteri della «bona consuetudine» degli uomini che con ingegno, «dottrina ed esperienzia s’hanno guadagnato il bon giudicio» (I, cap. 35). Questo pensiero si traduce nel rifiuto dell’affettazione, di cui sono manifestazioni il toscanismo arcaizzante (modellato nella prima redazione su alcune forme degli Asolani del 1505), il preziosismo linguistico, il toscanismo fiorentino. Castiglione ha profonda consapevolezza della instabilità e della mutevolezza della lingua ed è notevole anche la sua apertura al parlato, che nel Cortegiano assume una nuova e significativa pregnanza in quanto consente una maggiore libertà espressiva, estesa all’uso dei traslati, dei forestierismi e dei neologismi, pur nei limiti del «bon giudicio», secondo quanto è detto nel cap. 35 del libro I (cfr. Pozzi 1989; Paccagnella 1984). In questa «apologia del presente» (Mazzacurati 1967), in questa concezione della lingua più libera e svincolata da rigide norme e dal rispetto di modelli esemplari, la difesa dei latinismi può apparire una contraddizione, ma va ricordato che il latino per l’autore «è pur sempre l’elemento essenziale di controllo e neoformazione linguistica» (Paccagnella 1984: 136). Infine è significativo l’uso della denominazione di lingua italiana, non cortigiana, che, mentre fa escludere un’interpretazione strettamente cortigiana (➔ cortigiana, lingua) della teoria di Castiglione, lascia invece trasparire l’ipotesi di una ideale mediazione linguistica tra la posizione arcaista ed esclusivamente letteraria di Bembo da un lato, e il naturalismo dei sostenitori del toscano contemporaneo dall’altro (cfr. Giovanardi 1998).
La lingua del Cortegiano evolve parallelamente alle trasformazioni strutturali e ideologiche dell’opera, e di pari passo all’evoluzione riscontrabile nell’uso scrittorio dell’epistolario, distaccandosi gradualmente da un uso legato ad ambienti ristretti provinciali per tendere a un modello «italiano» (Ghinassi 1963; 1967). Nella fonologia e nella morfologia si registra nelle lettere e nelle prime redazioni la persistenza di forme regionali come giongere, sceme («seme»), giazzo/giaccio («ghiaccio»), seressimo, ecc., cancellate solo dalla revisione finale del Valerio. Anche i tratti evolutivi coincidono nelle une come nelle altre: medemo, che dal 1520 è sostituito nelle lettere da medesimo, sparisce nel trattato tra la seconda e terza redazione. Le desinenze non toscane sapeti («sapete»), guastiati («guastiate»), sono sostituite dalle forme in e nelle lettere e nell’opera maggiore tra la prima e la seconda redazione. Un altro gruppo di interventi teso ad eliminare i più accusati dialettalismi suggerisce a Ghinassi l’ipotesi che Castiglione si appoggiasse a una qualche autorità grammaticale durante la compilazione del trattato (forse alle Regole del Fortunio, stampate nel 1516). In ogni caso essa non può essere identificata con Bembo, come testimonia la lettera di Castiglione del 21 settembre 1518; «V. Sig. non guardi alla scrittura: perché quella sarà poi fatica d’un altro» (Castiglione 1978: 384), e conferma l’esame dei manoscritti, da cui emerge in ogni modo la scarsa sorveglianza linguistica di Castiglione sulla veste grammaticale e ortografica del suo testo, sottoposto a correzioni non sistematiche, tanto è vero che oscillazioni tra forme toscane e ‘cortigiane’ «con appariscenti residui di ibridismo», pur registrando nella scrittura autografa un progressivo e spontaneo avvicinamento al toscano (Ghinassi 1963: 232 e 241), permangono fino alla terza, e solo l’intervento del bembiano Valerio «riuscirà in extremis a mettere veramente al passo il Cortegiano con la grammatica toscana» (Ghinassi 1967: 185). Le correzioni autografe più significative riguardano la sostituzione di forme volgari con quelle più vicine al latino, quindi: regole diventa regule, lagrime diventa lachrime; e la preferenza a forme senza dittongo: lieva cambia in leva, puose in pose, ecc. Maggiore incertezza Castiglione mostra invece nella resa grafica dei suoni palatali e sibilanti ‒ scrive zanzare («cianciare»), e se corregge brazza in braccia, si ha anche il caso opposto di pazzia sostituito con paccia ‒, un settore che solo nell’ultima revisione assume un’omogenea veste toscana. Solo l’ultima revisione conferisce regolarità e funzionalità grammaticale e uniformità grafica nell’ambito della morfologia verbale e dei pronomi.
Chiara è comunque la tendenza di Castiglione a espungere i vocaboli toscani preziosi e arcaizzanti e i cultismi troppo rilevati e sospetti di affettazione che sono i bersagli della sua polemica: tra la seconda e la terza redazione cadono abortivo (di frutto), edace, adito, cuna; anche idea è sentito come ricercato ed è sostituito dalle dittologie forma e figura, forma e carattere. Ridotta e saltuaria l’espunzione di dialettalismi, che in numero limitato rimangono nella stampa: imbriaco, capigliara, sentare («sedere») (Cian 1942: 52-53).
Del pari prudente l’autore si rivela nell’adattamento degli ispanismi, il più significativo dei quali è disinvoltura, che, come il neologismo sprezzatura, è una delle parole-chiave della sua concezione cortigiana. Ma la qualità della prosa del Cortegiano, che rinnova il modello ciceroniano del De oratore, si coglie nella sintassi e nella proporzione delle frasi legate da una salda successione di nessi sintattici. Il sapiente equilibrio del periodo si fonda su «una snella architettura di composizioni binarie» (Segre 1974: 376; Dardano 1992) sulla quale il discorso si snoda con chiarezza argomentativa e precisione analitica. La chiarezza della esposizione e la lucida razionalità dell’argomentare si specchiano nell’equilibrata armonia della sintassi di Castiglione e riassumono l’ideale di elegante e classica medietà linguistica che costituisce la principale direttrice stilistica del suo lavoro di revisione. Il Cortegiano è uno dei primi grandi libri europei moderni (al pari dell’Orlando furioso di ➔ Ludovico Ariosto, con cui condivide la lunga e travagliatissima elaborazione in funzione della stampa). La sua immensa fortuna, attestata dalla quantità di traduzioni, citazioni, imitazioni e rimaneggiamenti, è testimoniata dalla sterminata trattatistica comportamentale dell’uomo di corte, in ogni suo possibile aspetto culturale, sociale o mondano, che ha nel Cortegiano il suo archetipo (Ossola 1987). Da Londra a Madrid a Parigi, questo trattato «diventa la grammatica fondamentale della società di corte sino alla Rivoluzione francese, e oltre» (Quondam 19872: XXXVII), ed è assunto e letto nelle corti europee quale testo esemplare, quale codice totale e omogeneo, imitabile sempre. La realtà testuale dell’opera, problematica e contraddittoria, e pur così ricca di fascino, resta nascosta, ignorata.
Fonti
Castiglione, Baldassarre (1769-1771), Lettere del conte Baldessar Castiglione ora per la prima volta date in luce e con annotazioni storiche illustrate dall’abate Pierantonio Serassi, Padova, Comino, 2 voll.
Castiglione, Baldassarre (19474), Il libro del Cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni.
Castiglione, Baldassarre (1960a), Il libro del Cortegiano, in Opere di Baldassare Castiglione, Giovanni Della Casa, Benvenuto Cellini, a cura di C. Cordié, Milano - Napoli, Ricciardi.
Castiglione, Baldassarre (1960b), Il libro del Cortegiano, a cura di G. Preti, Torino, Einaudi.
Castiglione, Baldassarre (1964²), Il libro del Cortegiano, con una scelta delle Opere minori, a cura di B. Maier, Torino, UTET (1a ed. 1955).
Castiglione, Baldassarre (1968), La seconda redazione del “Cortegiano”, a cura di G. Ghinassi, Firenze, Sansoni.
Castiglione, Baldassarre (1969), Lettere inedite e rare, a cura di G. Gorni, Milano - Napoli, Ricciardi.
Castiglione, Baldassarre (1978), Le lettere, a cura di G. La Rocca, in Tutte le opere, Milano, Mondadori, vol. 1° (1497-marzo 1521).
Castiglione, Baldassarre (19872), Il libro del Cortegiano, a cura di N. Longo, Milano, Garzanti.
Castiglione, Baldassarre (1998), Il libro del Cortegiano, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi.
Studi
Cian, Vittorio (1942), La lingua di Baldassarre Castiglione, Firenze, Sansoni.
Cian, Vittorio (1951), Un illustre nunzio pontificio del Rinascimento. Baldassar Castiglione, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dardano, Maurizio (1992), L’arte del periodo nel “Cortegiano”, in Id., Studi sulla prosa antica, Napoli, Morano, pp. 445-484.
Ghinassi, Ghino (1963), L’ultimo revisore del “Cortegiano”, «Studi di filologia italiana» 21, pp. 217-264.
Ghinassi, Ghino (1967), Fasi dell’elaborazione del “Cortegiano”, «Studi di filologia italiana» 25, pp. 155-196.
Ghinassi, Ghino (1971), Postille sull’elaborazione del “Cortegiano”, «Studi e problemi di critica testuale» 3, pp. 171-178.
Giovanardi, Claudio (1998), La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni.
Mazzacurati, Giancarlo (1967), Baldassar Castiglione e l’apologia del presente, in Id., Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori.
Ossola, Carlo (1987), Dal “Cortegiano” all’“Uomo di mondo”. Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi.
Paccagnella, Ivano (1984), Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni.
Pozzi, Mario (1989), Il pensiero linguistico di Baldassar Castiglione, in Id., Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, pp. 119-136.
Quondam, Amedeo (19872), Introduzione a Il libro del Cortegiano, a cura di N. Longo, Milano, Garzanti.
Segre, Cesare (1974), Lingua, stile e società, nuova ed., Milano, Feltrinelli, pp. 369-396.