PERUZZI, Baldassarre
PERUZZI, Baldassarre. – Figlio di Giovanni di Silvestro, tessitore oriundo di Volterra, fu battezzato a Siena il 7 marzo 1481.
Nella biografia dedicata all’artista nell’edizione giuntina delle Vite, aggiornata sulle notizie ricevute da Francesco da Siena, Giorgio Vasari ricorda una formazione avvenuta «presso orafi e disegnatori» (1568, 1976, IV, p. 316). Fu poi Egnazio Danti nei commentari a Le due regole della prospettiva pratica a definire l’artista senese allievo diretto di Francesco di Giorgio Martini, come appreso dal proprio padre Giulio, intimo amico dello stesso Peruzzi (Vignola, 1583, pp. 72, 82). Questa notizia è implicitamente confermata dal primo documento riguardante l’attività di Baldassarre a Siena nel 1501, il dipinto dello Zodiaco nella volta della cappella di S. Giovanni nel Duomo: un progetto partorito dalla mente dello stesso Francesco di Giorgio del quale Baldassarre fu discepolo, come confermano i disegni architettonici del Martini spesso appuntati dalla mano di Peruzzi. È inoltre assai probabile che alla morte del maestro (1501) all’allievo sia spettato il completamento dei cantieri senesi. Vasari ricorda sbrigativamente come «non degne di memoria» le sue prime opere in città (1568, 1976, IV, p. 316), tra le quali possono considerarsi la villa suburbana di Sigismondo Chigi alle Volte Alte, caratterizzata da avancorpi laterali (entro il 1505), e l’oratorio superiore di S. Sebastiano in Vallepiatta per l’Arte dei Tessitori di pannilini (post 1509), a croce greca con bracci a triconco, edifici che tuttavia evidenziano in nuce alcune innovative soluzioni tipiche del linguaggio architettonico più maturo di Peruzzi.
Nella città del padre Peruzzi avrebbe incontrato un «pittore volterrano chiamato Piero, il quale stava il più tempo a Roma» e con cui si sarebbe recato nell’Urbe ancora durante il pontificato di Alessandro VI (Vasari, 1568, 1976, IV, p. 316). In effetti, il pittore «Pietro di Andrea da Volterra», documentato a Roma in questo periodo e identificabile con l’anonimo ‘Maestro di Griselda’, giustifica l’approdo a Roma di Baldassarre intorno al 1504 sulle orme di Pinturicchio, conosciuto poco prima a Siena nel cantiere della libreria Piccolomini in Duomo.
La prima impresa di Peruzzi ricordata da Vasari a Roma è la cappella dell’altare maggiore di S. Onofrio. Il ciclo di storie dedicate a Maria appare di complessa definizione, con una parte iniziale probabilmente già impostata da Pinturicchio, al quale spettò la commissione, con la regia e l’impianto ideativo di Peruzzi e la collaborazione esecutiva subordinata di Jacopo Ripanda e forse di Cesare da Sesto.
Si conserva un solo disegno preparatorio (Londra, British Museum, Department of prints and drawings) relativo ad alcune Sibille per il catino absidale riferibile allo stesso Peruzzi, da altri proposto come di Ripanda. Il disegno, che richiama i modi di Filippino Lippi, si connette strettamente a quelli con la Morte di Cleopatra (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques) e con la Storia di Traiano (British Museum), quest’ultimo preparatorio per una scena destinata a palazzo Santoro a Roma (oggi inglobato in palazzo Doria Pamphilj), che parte della critica attribuisce a Ripanda in base a confronti con le Storie dell’antica Roma del palazzo dei Conservatori. Ma i caratteri un po’ ingenui dei murali capitolini difficilmente possono connettersi con la qualità e lo spirito pungente di questo nucleo di disegni conosciuti come «Frizzoni-Wickhoff» in riferimento ai due studiosi di fine Ottocento che in modo attendibile li attribuirono a Peruzzi. Queste analogie, foriere di equivoci attributivi tra pittori come Peruzzi, Ripanda e Cesare da Sesto, ben s’inquadrano nella fase artistica dei primi anni del pontificato di Giulio II, nella quale questi maestri, probabilmente uniti in compagnia, lavoravano assiduamente in vasti cantieri comuni per decorazioni murali dagli spiccati interessi antiquari e celebrativi. Tra questi cicli storici vanno ricordati quello perduto per il salone nel palazzo del cardinale Fazio Santoro già citato, con Storie di Traiano, e quello del salone dell’episcopio di Ostia su commissione del cardinale Raffaele Riario, incentrato ancora su Storie di Traiano (1511-13). Vasari menziona con precisione descrittiva questo ciclo, ma lo ricorda erroneamente nella Rocca di Ostia poco distante (1568, 1976, IV, pp. 317 s.). In realtà, l’equivoco è solo parziale, perché Peruzzi aveva effettivamente operato nella Rocca alcuni anni prima, nel marzo 1508, decorando la volta dello scalone con Storie di Ercole, immagini clipeate e grottesche, affidandone l’esecuzione per lo più a Michele del Becca da Imola, che è qui documentato.
Coevo al ciclo dell’episcopio di Ostia è quello del palazzo dello stesso Riario, poi detto della Cancelleria dopo la caduta in disgrazia del cardinale nel 1517, dove Ripanda è documentato come frescante e nel quale Peruzzi agì forse da regista, similmente all’impresa di Ostia.
Un intervento peruzziano in Vaticano in quel momento dovette interessare i monocromi, oggi deperiti, della cosiddetta Uccelliera di Giulio II, poi distaccati e oggi nei depositi della Pinacoteca Vaticana, iconograficamente ispirati all’VIII libro dei Matheseos libri di Firmico Materno. Ancor prima degli impegni vaticani, Peruzzi dovette procedere alla decorazione musiva della volta della cappella di S. Elena in S. Croce in Gerusalemme su commissione del cardinale Bernardino López de Carvajal (1506-07).
Queste prime opere individuano già un artista in contatto con i più innovativi circoli culturali della città e al centro delle più aggiornate committenze legate alle corti cardinalizie e papali. Non sorprende dunque incontrare Peruzzi come architetto della villa su via della Lungara del ricchissimo finanziere senese Agostino Chigi (fratello del già ricordato Sigismondo), oggi nota come Farnesina e certamente tra le fabbriche romane più emblematiche dei primi decenni del Cinquecento. L’attribuzione deriva da Vasari, il quale ne elogia il modello «condotto con quella bella grazia che si vede, non murato, ma veramente nato» (1568, 1976, IV, p. 318). Intrapreso nel 1505, questo edificio costituisce una summa del tipo architettonico della villa suburbana, arricchita di raffinati spunti antiquari derivati da fonti letterarie antiche, quale ‘delizia’ per brevi soggiorni di piacere.
L’esterno mostra due piani – alternati a mezzanini – articolati da un doppio ordine di slanciate paraste con capitelli dorici. Le studiate asimmetrie di pianta e alzato apportano felici elementi di variatio all’uniformità generale dell’insieme; serrato appare il dialogo tra l’edificio e il suo ‘viridario’ digradante verso il fiume, celebre cornice di feste e banchetti e originariamente costellato di statue antiche e impreziosito da rare essenze botaniche. Vasari ricorda anche le pitture sui muri esterni «con storie di sua mano molto belle» in monocromo (1568, 1976, IV, p. 318), di cui restano poche tracce, all’origine di quell’uso di ornare ad affresco l’esterno delle dimore gentilizie, nel più squisito gusto antiquario che poi avrebbe dominato a Roma e altrove.
Decorata via via con il procedere della fabbrica, la prima stanza a essere ornata con storie mitologiche fu quella cosiddetta ‘del fregio’ (1509-10). Il successivo intervento pittorico fu quello della sala di Galatea (1511-12).
In questa vasta aula rettangolare, l’opera pittorica dell’artista si concentrò sul soffitto spartito in riquadri, che riprende lo schema generale della copertura della libreria Piccolomini, aggiornandolo sull’esempio di Raffaello e del Sodoma nella Stanza della Segnatura, con le finte solide cornici architettoniche. Come ben intuì Fritz Saxl (La fede astrologica di Agostino Chigi, Roma 1934), che pure non conosceva la data di nascita del Chigi, scoperta successivamente (29 novembre 1466), l’elemento determinante dell’iconografia del soffitto è dato dall’oroscopo del padrone di casa, nato sotto il segno del Sagittario con ascendente Vergine. Tutti i segni zodiacali compaiono uniti a figurazioni del mito ovidiano negli esagoni e nelle vele triangolari disposte alla base del riquadro centrale, al centro del quale sono raffigurati Perseo e Andromeda e la Fama e Calisto. Qui si assiste alla grande evoluzione della pittura peruzziana verso forme solide e statuarie che guardano all’antico, ma anche alla pittura di Raffaello e alla scultura nuova di Andrea Sansovino. Le pareti della sala, scandite da paraste tripartite e ornate a grottesca, erano destinate ad accogliere la Galatea di Raffaello e il Polifemo di Sebastiano del Piombo, cui spettano le lunette con ‘poesie’ ovidiane (1511-12), mentre la gigantesca Testa di giovane monocroma appartiene ancora alla mano di Baldassarre, nonostante le forti tangenze con Sebastiano.
Completata nella sua decorazione intorno al 1520, e poi ampiamente trasformata da interventi e restauri successivi, la Farnesina costituì per Peruzzi una magistrale, ancorché precoce, prova di virtuosismo architettonico e di straordinaria concertazione artistica.
Il rapporto di amicizia con Raffaello, stretto nella collaborazione per la villa chigiana, è attestato, per altra via, dall’atto di acquisto dall’ospedale di S. Ambrogio dei Lombardi di un’abitazione (21 dicembre 1511) nel rione Ponte presso S. Salvatore in Lauro da parte di Peruzzi assieme al fratello Pietro, con la personale fideiussione del Sanzio.
Peruzzi si affiliò fin dal 1508 alla Confraternita di S. Rocco a Ripetta, divenendone nel tempo camerlengo, sindaco e guardiano. Soprintese ai successivi lavori di ampliamento dell’oratorio, su disegno di Lorenzo di Corrado da Lucca, e subentrò in cantiere dal 1519 come progettista della nuova tribuna realizzata dal 1524, poi trasformata e demolita. In questo oratorio, di lui sono attestate alcune pitture perdute per le cappelle dei Mulattieri (1511) e dei Vignaioli (1515) e il sopravvissuto affresco, di poco successivo, tuttavia assai deteriorato, con la Natività, nato probabilmente per la cappella degli uomini di Lodi.
Dovrebbe datarsi al 1511 la prima decorazione ad affresco ricordata da Vasari per la facciata della dimora di Ulisse da Fano, con Storie di Odisseo. Si collega a questo progetto un disegno di Ulisse con l’arco conservato a Oxford (Ashmolean Museum, Western art drawings collection), che registra il passaggio dallo stile giovanile alla maniera moderna. A questo momento o poco dopo risale il disegno a penna (Coburgo, Kunstsammlungen, Kupferstichkabinett) con studi vari dall’antico, tra cui due monumentali figure di Cesare e Augusto previste con ogni probabilità per la facciata del palazzo di Francesco Buzio, ricordata anch’essa da Vasari (1568, 1976, IV, p. 320).
Con l’elezione a papa di Giovanni de’ Medici (Leone X, 1513) si registra nella carriera di Peruzzi uno sviluppo verso l’ideazione di apparati e scenografie per trionfi. L’inclinazione del pontefice al fasto lo indusse a creare apparati come quello per il possesso dell’11 aprile, quando amici e protetti di Giovanni de’ Medici, tra cui Agostino Chigi, fecero a gara per allestire archi trionfali e insegne inneggianti al nuovo eletto. Si datano a questa occasione il disegno a penna con arco trionfale ornato con stemma papale (Londra, The Courtauld Institute of art, Witt Library) e i due progetti di stemmi per facciate con emblemi leonini (Uffizi, Gabinetto disegni e stampe e British Museum).
Nel 1513 l’impresa più impegnativa che vide coinvolto Peruzzi fu «l’onoratissimo apparato che fece il popolo romano in Campidoglio» per il conferimento del patriziato dell’Urbe a Giuliano e a Lorenzo de’ Medici, rispettivamente fratello e nipote del papa (Vasari, 1568, 1976, IV, pp. 319 s.). Secondo Vasari, tra le storie antiche che ornavano questo spazio rettangolare spartito da paraste, Peruzzi aveva dipinto la Punizione di Giulia Tarpea, nota solo da una copia cinquecentesca (Farinella, 1992, p. 68); ma è probabile che allo stesso ciclo si colleghino altri disegni autografi di Peruzzi come la Lupa capitolina (Louvre), il Dio Tevere, il Carro di Cibele (British Museum) e il Giove capitolino (Windsor Castle, Royal Library).
Fu questo il momento nel quale Peruzzi dette il suo contributo determinante alla creazione di moderne scenografie teatrali con elementi architettonici non più concepiti come semplici fondali planimetrici, ma in prospettiva «materiale e di rilievo» (S. Serlio, Il secondo Libro di Perspettia/Le second Livre de Perspective, Paris, J. Barbé, 1545, c. 64v): una soluzione presente probabilmente anche nel Poenulus di Plauto allestito da Fedra Inghirami e da Camillo Porzio per le Paliliae della festa capitolina del 1513 e poi, l’anno successivo, in occasione della presenza di Isabella d’Este a Roma, per la rappresentazione della Calandria del cardinale Bibbiena. Proprio alla scenografia della Calandria, ambientata a Roma, dovrebbe collegarsi il modello di Scena prospettica con edifici romani (Uffizi) d’impressionante impatto visivo: un modello al quale avrebbe attinto Sebastiano Serlio per le sue celebri illustrazioni normative del trattato. A questo disegno si richiama quello con scenografia da commedia (Torino, Biblioteca reale) probabilmente connesso all’incontro avvenuto a Bologna (autunno 1515) tra Leone X e Francesco I, di cui ricorrono gli stemmi.
Lo stile promosso da Leone X non fu soltanto un linguaggio di forme, ma piuttosto un modello culturale presto esportato nei centri minori dove, complice una scala urbana ridotta, principi e gentiluomini legati alla corte papale poterono operare con maggiore celerità e costi inferiori. Ciò avvenne a Carpi, trasformata da Alberto III Pio (1512-23) in un vero e proprio riflesso di Roma grazie alla regia artistica di Peruzzi, il quale vi si recò probabilmente tre volte, prima nell’estate del 1514, poi nell’inverno del 1515 nel citato soggiorno a Bologna di Leone X, e infine tra il 1522 e il 1523 quando tornò a Bologna per l’incarico di S. Petronio. Tra le architetture carpigiane certamente assegnabili a Peruzzi, elaborate dal 1513 e ricordate da Vasari (1568, 1976, IV, p. 321), sono il completamento della chiesa di S. Niccolò con un corpo basilicale a tre navate con volte a vela e pilastri cruciformi innestato su una precedente tribuna a quincunx; la nuova facciata a ordini intersecati della pieve medievale di S. Maria, meglio conosciuta come Sagra di Carpi (1515), che rappresenta il momento di massima convergenza con la poetica bramantesca; la nuova Collegiata (modello del 1514), eletta a Cattedrale solo nel 1779 e poi ampiamente trasformata, caratterizzata da una fusione tra schema centrale e basilicale, con cupola sulla crociera sostenuta da grandi pilastri con smusso angolare a 45 gradi – citazione della più innovativa soluzione del progetto bramantesco per S. Pietro – qui trasformato in un cantonale convesso rinforzato da pilastri giganti.
A progetti non direttamente attribuibili a Peruzzi, ma tuttavia derivati dal serrato dialogo tra principe e artista, possono essere ricondotti il rifacimento del castello medievale dei Pio, trasformato in umanistico palazzo con elegante cortile a logge sovrapposte, e l’ideazione di una grande piazza a portici concepita come nuovo foro urbano. Inoltre, grazie al ritrovamento del testamento di Alberto Pio (1530), vanno ricordati quei progetti che, seppur inattuati, contribuiscono a definire l’immagine di un coltissimo mecenate che, sugli esempi di Vigevano e Mantova, sperava di trasformare il proprio feudo da castello in città, anche grazie a un dominio principalmente condotto per architecturam.
Conseguente alla morte di Bramante, nel 1514, fu il primo diretto coinvolgimento di Peruzzi nel cantiere di S. Pietro come «sottoarchitettore» di Raffaello, con stipendio di sei ducati al mese, dal 1° dicembre 1514 al 1° agosto 1517.
Al 1516 risale l’assetto decorativo della cappella che Ferdinando Ponzetti, medico e tesoriere papale, affidò a Peruzzi in S. Maria della Pace, dinanzi a quella che Agostino Chigi aveva commissionato a Raffaello pochi anni prima. A questo impegnativo progetto è stato collegato uno spettacolare disegno a penna (Oxford, Ashmolean Museum) che mostra una complessa struttura architettonica e decorativa che, nell’inevitabile ridimensionamento della realizzazione, descrive uno spazio semicircolare a esedra illusionisticamente dilatato con al centro, a mo’ di pala d’altare, l’affresco con una Madonna col Bambino, le ss. Brigida e Caterina e il donatore in ginocchio e Storie del Vecchio e Nuovo Testamento nei lacunari del catino absidale.
Al 1518-19 risale una delle imprese più celebri di Peruzzi, la decorazione parietale della sala delle Prospettive della Farnesina, realizzata, come l’adiacente sala di Alessandro e Rossane e la loggia di Psiche di Raffaello, in vista delle nozze di Agostino con Francesca Ordeaschi (1519).
Le sperimentazioni scenografiche con le quali Peruzzi si era cimentato da anni spiegano le soluzioni illusionistiche del classico loggiato aperto sul paesaggio di Roma, ma anche le architetture dipinte sulle pareti che incorniciano gli dei dell’Olimpo. Lo stile rapido e abbreviato del fregio con storie ovidiane richiama quello compendiario delle coeve logge vaticane e permette di ipotizzare in questo momento un passaggio di aiuti dalla bottega di Raffaello a quella di Baldassarre e viceversa. Il nome di Giovanni da Udine compare infatti in un disegno autografo di Peruzzi (Uffizi) come uno degli aiuti dell’artista senese in attesa di un compenso – assieme, tra gli altri, a Jacopo Siculo e a Domenico Zaga –, divenendo di lì a poco un affermato collaboratore del Sanzio. D’altra parte, un allievo di Giovanni da Udine di origine senese come Giorgio di Giovanni, pittore specializzato in grottesche e architetto militare, sarebbe divenuto a Siena dopo il 1527 il principale fiduciario in ambito pittorico di Peruzzi stesso, operando su suoi disegni alla villa di Belcaro.
Nel 1518 Peruzzi si recò a Todi per una perizia della chiesa di S. Maria della Consolazione. Prima dell’autunno 1519 va datato il progetto per il palazzo Orsini di Pitigliano sui ruderi delle terme di Agrippa.
Si tratta di un progetto di dimensioni straordinarie, con una facciata estesa su quindici assi di finestre e doppi appartamenti organizzati intorno alla successione di due cortili loggiati, il primo rettangolare e il secondo circolare, quest’ultimo occupante lo spazio della ‘Ciambella’, antica aula circolare del complesso termale. Il disegno di progetto (Uffizi) offre più varianti e permette di valutare il riutilizzo dei vecchi muri romani quale tentativo operante di ricostruzione di quella nuova Roma papale sui resti dell’antica.
Se l’incarico del palazzo per Aldobrandino e Arrigo Orsini in Roma non fu eseguito, quello a Bomarzo per il consanguineo Giancorrado Orsini venne effettivamente avviato nel 1519, ma portato avanti per fasi successive e attraverso numerosi cambi di progetto con la successiva collaborazione del fratello Pietro.
Fra il 1518 e il 1519 si data il celebre ‘concorso’ per S. Giovanni dei Fiorentini, la cui regia, probabilmente affidata a Raffaello, ebbe modo di valersi di artisti come Giulio Romano, Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane e Jacopo Sansovino e la cui massa di progetti rappresenta uno dei più importanti laboratori di soluzioni progettuali del tempo. Tra essi, i numerosi eseguiti da Peruzzi (Uffizi) mostrano certamente le invenzioni più innovative e di lunga durata, a cominciare dall’inusitato utilizzo planimetrico delle figure dell’ovale e dell’esagono.
La svolta nella carriera di Peruzzi giunse dopo la morte di Raffaello (1520), con la promozione a «coadjutore», secondo architetto della Fabbrica di S. Pietro, sotto la direzione di Antonio da Sangallo il Giovane, con stipendio di dodici ducati e mezzo al mese, dal 1° agosto 1520. In questa fase del cantiere le riflessioni di Peruzzi sembrano riprendere l’idea della pianta centrale, di cui forse resta memoria nell’incisione pubblicata da Serlio ne Il Libro terzo dedicato alle antichità (in Venetia, per Francesco Marcolini da Forlì, 1540, p. XXXVIII) quale attestazione di un più maturo sviluppo del progetto originario di Bramante e in apparente contraddizione con gli stessi Antonio da Sangallo il Giovane e Leone X, a quella data più favorevoli allo schema basilicale.
La fortuna delle invenzioni pittoriche di Peruzzi è attestata sia dalla lettera di Marcantonio Michiel del 4 marzo 1519 nella quale «maestro Baldisera, che è grande inventore et proto maestro», è ricordato insieme ai massimi artisti del tempo (I Diarii di Marino Sanuto, XVII (1° marzo 1519 - 28 febbraio 1520), per cura di N. Barozzi et al., Venezia 1890, col. 274), sia nella lettera di Michelangelo a Sebastiano del Piombo del 20 gennaio 1520, nella quale è stimato «homo da bene et de bona discricione» (Il Carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, II, Firenze 1967, p. 212). A poco dopo il 1520 dovrebbe risalire la Natività in collezione privata (Frommel, 1968, pp. 150 s.) che appartenne a Philip Pouncey, raro dipinto su tavola incontrovertibilmente autografo che già riflette, nelle tinte e nel paesaggio con rovine, le tangenze con l’ultimo Raffaello e Giulio Romano.
In questo periodo (1519-20) si collocherebbe il sopralluogo a Terracina, Gaeta e Formia, registrato nel cosiddetto Taccuino dei viaggi (Uffizi), dove le vestigia del passato sono attentamente studiate nei materiali architettonici e attraverso misurazioni di rara precisione archeologica.
Dal dicembre 1521 all’aprile 1523 Peruzzi fu a Bologna ospite dei Bentivoglio, per fornire idee al completamento della facciata di S. Petronio.
Le quattro proposte rimaste (Basilica di S. Petronio, Archivio storico e British Museum) danno grande prova della sua capacità di conformarsi al linguaggio tardomedievale dell’edificio, non senza punte di compiaciuta ironia nelle raffinate citazioni antiquarie sparse dentro un fiammeggiante impaginato gotico. Vertice insuperato del suo virtuosismo grafico resta l’enorme sezione prospettica acquerellata della navata centrale della chiesa, efficace alla stregua di un modello tridimensionale percorribile dallo sguardo in ogni suo ambiente.
A Bologna Peruzzi disegnò il sontuoso portale all’antica della chiesa di S. Michele in Bosco, ristrutturò il palazzo Lambertini, oggi non più esistente, e progettò la magnifica cappella Ghisilardi in S. Domenico, messa in opera con qualche licenza dal bolognese Giacomo Ranuzzi tra il 1529 e il 1534 e fortemente trasformata all’interno nel XVIII secolo, con originaria pianta quadrata voltata a crociera e colonne libere angolari, secondo uno schema derivato dal sepolcro romano dei Cerceni.
Sempre a Bologna la più prestigiosa commissione pittorica gli fu affidata dal conte Giovanni Battista Bentivoglio. Si tratta dell’Adorazione dei Magi di cui resta il cartone a ‘chiaro oscuro’ (Londra, National Gallery), capolavoro della maniera moderna in terra padana che a Bologna ebbe un’eco senza confronti. A questi anni risale anche la tavola raffigurante la Danza di Apollo e delle Muse su fondo dorato, commissionata da Alberto Pio da Carpi (Firenze, Galleria Palatina).
Si tratta di un dipinto singolare, nato forse come coperchio di uno strumento musicale, ma presto isolato come ‘quadretto’ autonomo, e certamente ispirato al Parnaso dipinto da Mantegna per lo Studiolo di Isabella d’Este a Mantova. Ancora per Alberto Pio, Baldassarre disegnò l’Ercole che scaccia l’Avarizia dal Tempio delle Muse, utilizzato da Ugo da Carpi per una xilografia (British Museum).
Durante il soggiorno bolognese, Peruzzi entrò in contatto con Serlio, il quale probabilmente si recò a Roma al seguito del maestro. A Serlio si deve l’attribuzione a Peruzzi del rifacimento di palazzo Savelli sulle vestigia del Teatro di Marcello.
Qui Peruzzi diede prova di sapersi raccordare all’originario emiciclo dell’edificio, operando all’interno degli antichi spessori murari, variandoli via via con leggeri scarti dimensionali, e aprendovi irregolarmente le finestre in conseguenza della disposizione interna piuttosto che nel rispetto dell’ordinatio antica, in un rapporto forma-funzione per l’epoca certamente inusitato.
Nel 1523, alla morte di Adriano VI, il cardinale Willem van Enckevoirt commissionò a Peruzzi il monumento funebre del papa da innalzarsi nella chiesa di S. Maria dell’Anima, cara alle ‘nazioni’ tedesca e fiamminga a Roma, secondo uno schema ad arco di trionfo che divenne modello per molti successivi monumenti sepolcrali e la cui esecuzione fu affidata a suoi collaboratori, tra cui il fiorentino Niccolò Tribolo e Angelo di Mariano, quel Michelangelo senese descritto da Benvenuto Cellini (La vita, 1558-1566 circa, 1924) sempre accanto a Peruzzi, non diversamente da come Lorenzetto era stato vicino a Raffaello; ad Angelo si deve anche l’esecuzione del doppio mausoleo commissionato dal cardinale Francesco Armellini nella chiesa di S. Maria in Trastevere, affidato in un primo tempo ad Antonio Elia, e di cui restano due fantasiosi disegni preparatori (Francoforte, Städelsches Kunstinstitut, Graphische Sammlung e New York, The Metropolitan Museum of art, Drawings and Prints).
Nella prima fase del pontificato di Clemente VII (eletto nel 1523) si pongono due opere importanti come la Presentazione di Maria al Tempio, dipinta a fresco nella tribuna di S. Maria della Pace per Filippo Sergardi, esecutore testamentario di Agostino Chigi, e il perduto monocromo con la Visione di s. Bernardo, commissionato da fra Mariano Fetti come arredo per il giardino di S. Silvestro al Quirinale. Il 29 luglio 1529, tramite Pietro d’Andrea da Siena, suo procuratore di stanza a Roma, da non confondere con l’omonimo artista volterrano già citato, Peruzzi ricevette gli ultimi pagamenti per il monumento di Adriano VI.
Ai primi anni del pontificato di Clemente VII si data la progettazione (1521-27) del palazzetto di Francesco Fusconi da Norcia, archiatra pontificio, oggi quasi completamente trasformato, caratterizzato dalla mescolanza degli ordini architettonici: nel monumentale portale d’ingresso facevano la loro prima comparsa le cosiddette mensole triglifate, triglifi dorici modanati come mensole ioniche con funzioni di sostegno a un’architrave, motivo fortunatissimo per generazioni di architetti a venire. In questi anni lo sperimentalismo di Peruzzi si avvicinò molto a quello di Giulio Romano e, al pari di quest’ultimo, fu certamente tra quelli meno vincolati alle maglie del vitruvianesimo del tempo per la profonda conoscenza delle tecniche del passato, la capacità di indagine archeologica, l’apprezzamento per i modelli architettonici antichi più desueti, eccentrici e ‘licenziosi’.
Nel periodo tra il 1523 e il 1525 cade la progettazione della villa Trivulzio a Salone, presso Tivoli, solo parzialmente realizzata e successivamente ampiamente manomessa, progettata con sottili asimmetrie intorno a una preesistente torre colombaria, e risolta nel contrasto tra astrazione architettonica ed esuberanza decorativa di gusto antiquario, con sorprendente giardino ovale segnato da alberi, aperto di fronte alla loggia della villa come un ippodromo privato all’antica.
Intorno al 1525 Peruzzi si trasferì presso il mausoleo di Augusto, nell’attuale via Frezza, in una zona recentemente lottizzata. L’acquisto, siglato il 5 dicembre 1523, conferma i suoi legami con la zona di Ripetta, sede della Confraternita di S. Rocco, e lascia supporre che l’investimento immobiliare fosse connesso ad affini operazioni avviate nella stessa area da Sigismondo Chigi, Antonio da Sangallo il Giovane e Giulio Romano tra il 1523 e il 1524.
Dal 1524 Peruzzi fu coinvolto dall’Opera del duomo di Siena per una serie di grandi progetti decorativi dell’edificio, tra cui quello delle porte bronzee, per il quale sopravvive un disegno preparatorio (Windsor Castle, Royal Libray). In quell’anno fu anche coinvolto nella progettazione di altri significativi complessi scultorei, tra cui il monumento di Andrea Gentili in S. Gregorio Magno, poi smembrato, e dal 1526 in quello, perduto, di Antonio da Burgos in S. Maria in Porta Paradisi. Successivo al 1525 è il raffinato progetto di fontana cittadina (Louvre) che gli è stato attribuito (Frommel, 1968, pp. 138 s.), forse riutilizzato come modello per la fontana senese dei Pispini nella omonima via cittadina (Ciampolini, 1996). Al 1526 risale la fantasiosa Allegoria della Fortuna (Oxford, Christ Church College), preparatoria al frontespizio dell’opuscolo Triompho di Fortuna (in Venegia per Agostin da Portese ad instantia di Iacomo Giunta, 1526) di Sigismondo Fanti e prima di una serie di formidabili invenzioni grafiche: Storie di Giuseppe Ebreo, (British Museum), Festa campestre (Uffizi, nel 1585 incisa da Gilbert van Veen con il titolo Nozze di Rebecca), Allegoria di Mercurio (Louvre). Nello stesso anno fu a Piacenza con Antonio da Sangallo il Giovane, Antonio l’Abbaco e l’ingegnere Pier Francesco da Viterbo per supervisionare il castello di S. Antonino e, nell’occasione, seguì Antonio a Parma per fornire un parere sulla cupola della chiesa di S. Maria della Steccata (19 aprile 1526).
Gli impegni senesi si intensificarono dal 1527 quando, durante il sacco di Roma (6 maggio), l’artista fu costretto a fuggire fortunosamente dall’Urbe riparando nella città di origine. Vasari ne ricorda la cattura da parte delle truppe imperiali, le quali, per l’aspetto «grave, nobile e grazioso», lo scambiarono per «qualche gran prelato travestito, o altro uomo atto a pagare una grossissima taglia» (1568, 1976, IV, p. 323). La liberazione avvenne in cambio di un ritratto postumo del Connestabile di Borbone e Peruzzi poté lasciare Roma per far rientro nella città natale. Tuttavia, presso Port’Ercole, fu derubato di ogni avere e costretto a far rientro «in Siena in camicia» (Vasari, 1568, 1976, IV, p. 323). Le autorità senesi condussero poi delle trattative con le truppe spagnole e tramite i concittadini Girolamo Massaini e Filippo Sergardi pagarono un pegno di 50 scudi per la sua liberazione.
Peruzzi fu onorevolmente accolto in patria e, a seguito di una petizione pubblica, il 10 luglio 1527 fu contemporaneamente nominato architetto della Repubblica e architetto dell’Opera del duomo con uno stipendio di 30 scudi annui, e inoltre nominato docente di architettura nei confronti di «omnes querentes et volentes», con un compenso di 60 scudi annui (21 agosto 1527, in Milanesi, III, 1856, pp. 100 s.). Questo incarico pubblico può forse giustificare il grande numero di disegni architettonici sopravvissuti, in massima parte databili agli anni senesi tra il 1527 e il 1531 e perlopiù conservati agli Uffizi, come anche spiegare il suo tentativo di redigere un Trattato di architettura (di cui forse sopravvive una frettolosa copia di altra mano alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna).
A conferma della stabilità raggiunta a Siena, il 16 settembre 1528 Peruzzi acquistò per 450 fiorini, testimone il pittore Bartolomeo di David, una «domum cum horto» presso S. Pietro alla Magione, dove si trasferì con la moglie Lucrezia (di Antonio del Materasso), il primogenito Sallustio e forse Onorio, probabilmente nato da poco, e dove vennero alla luce Simone, Claudio, Emilia e Sulpizia (Borghesi - Banchi, 1898, p. 455). Il 23 novembre 1528 venne richiesto a Peruzzi un disegno per l’oratorio della Compagnia dei disciplinati di S. Giovanni Battista da dedicare all’Immacolata Concezione, mai messo in esecuzione. Il 18 settembre 1529 riconobbe di avere avuto in prestito dal senese Geronimo di Angelo 155 scudi d’oro per pagare il resto della taglia richiestagli a Roma dalle truppe imperiali, per cui dovette ipotecare la casa romana; di ciò fa fede il saldo di pagamento ai frati di S. Domenico di Siena, dai quali era stata acquistata (16 luglio 1532; saldo definitivo 5 ottobre 1533). Su nomina del Concistoro di Siena, tra il settembre e l’ottobre 1529, Peruzzi compare come deputato alla stima per l’affresco del S. Vittore del Sodoma nella sala del Mappamondo. Al 1529 si data una macchina di sua concezione per il conio delle monete della Repubblica senese.
Fra il 1528 e il 1532 sono assai numerosi i documenti che ricordano i suoi sopralluoghi nel territorio senese per l’ispezione di ponti, strade, fortificazioni e miniere e per la ricostruzione della diga sul fiume Bruna, i cui progetti sono documentati da significativi disegni (Uffizi). Ampiamente nota è poi l’attività di architetto militare incaricato della difesa dello Stato (1527-32), di cui sono testimonianza le fortificazioni della cinta muraria senese, con lo sportello di San Prospero, i fortini presso le porte Camollia, San Marco, Laterina, San Viene (l’unico integralmente sopravvissuto). Inoltre sono noti la sua partecipazione come agente senese a Poggio Imperiale e a Firenze durante l’assedio nell’ottobre del 1529 e il contemporaneo incarico per le decorazioni dell’ingresso di Carlo V del 1530, poi rinviato. Viceversa, assai scarse sono le testimonianze di architettura civile sul territorio senese, il cui elenco stabilito per via stilistica ha subito nel tempo una sensibile oscillazione di numero e la cui consistenza resta assai ipotetica. È comunque unanime l’attribuzione di palazzo Vescovi, poi Celsi Pollini, a Siena in Pian dei Mantellini, elevato su scarpa con semplice cortina di mattoni e fasce marcapiano, e coronato da cornice classicheggiante. Da ricordare è anche la realizzazione dei tre alloggi lungo via dei Fusari – oggi ampiamente trasformati e la cui attribuzione è basata su un disegno autografo agli Uffizi – stretti tra i fianchi del Duomo e il filo della strada, rettificato contestualmente intorno al 1529. Assai convincente è l’assegnazione della peschiera con esedra ellittica, grotta e ambienti laterali a triconco della ricordata villa Chigi alle Volte Alte. Più complessa è l’attribuzione dell’incompiuto palazzo per Bernardino Francesconi, che rivela tuttavia un ambizioso progetto avviato nel 1520, significativamente ridimensionato dal 1531, di cui restano la fascia basamentale del primo ordine, alcune finestre di sofisticato decoro in facciata e parte della loggia nel cortile.
A livello di disegno restano il progetto per il grande palazzo di Girolamo Ghiarandoni, arcivescovo di Amalfi, e, nella sua compiaciuta utopia, il rapidissimo e microscopico schizzo (Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts, Cabinet des dessins) che ritrae la facciata del Palazzo comunale con un classico timpano triangolare e la torre del Mangia raddoppiata sull’altro lato: un’immaginifica visione di Siena come una città all’antica, alla quale si legano i progetti per un porticato classicheggiante intorno a piazza del Campo, non autografi, ma ascrivibili alla cerchia dei suoi allievi senesi (Siena, Biblioteca comunale).
Delle architetture religiose senesi di Peruzzi restano molti altri ambiziosi progetti. I più spettacolari sono quelli di ricostruzione per S. Domenico, seguiti all’incendio del 1531 che aveva conservato solo i muri perimetrali dell’edificio, qui utilizzati quali vincoli dimensionali per un tour de force progettuale senza precedenti e staticamente ardito. Questi progetti sono raggruppabili in tre insiemi secondo un ordine di complessità: per la sola navata, per la navata e il vano cupolato della crociera e per l’intero edificio, questi ultimi culminati dalla visualizzazione attraverso una magnifica sezione prospettica (Ashmolean Museum). Altrettanto rivoluzionari sono i progetti di ampliamento del Duomo, animati dall’idea di congiungere la vecchia basilica al suo ampliamento trecentesco tramite l’innesto di una cupola priva di tamburo di oltre cinquanta metri di diametro, gradonata esternamente a echeggiare il Pantheon. Tra le architetture religiose senesi sulle quali vale ancora la pena di considerare l’attribuzione alla maturità di Peruzzi, ci sono l’oratorio inferiore di S. Giuseppe dei Legnaioli e, assai più dubitativamente, il chiostro di S. Niccolò dei Carmini.
Similmente al corpus di opere architettoniche, anche quello pittorico e grafico attribuito a Peruzzi dagli eruditi senesi appare eccessivo, come dimostrano i casi esemplari dell’affresco con Augusto e la Sibilla della navata sinistra della chiesa di Fontegiusta, assegnabile più correttamente a Daniele da Volterra, e quello del cosiddetto Taccuino di Baldassarre Peruzzi (Siena, Biblioteca comunale), creduto autografo sin dal Settecento e di recente assegnato alla mano del bolognese Bartolomeo Passerotti (Cafà, 2013).
Nel dicembre 1529 Peruzzi fu nuovamente a Roma, dove lasciò in pegno alcuni oggetti alla Compagnia di S. Rocco in cambio di una somma di denaro. Lì ritornò per un mese dopo il 15 aprile 1531, chiamato per l’allestimento della scenografia delle Bacchidi di Plauto in occasione delle nozze di Giuliano Cesarini con Giulia Colonna (28 maggio 1531), e per altri venti giorni in dicembre. Forse a coeve commissioni Cesarini si devono la trasformazione di un palazzetto presso Largo Argentina e la ristrutturazione di Rocca Sinibalda, presso Rieti, uno degli esempi più significativi di architettura militare in Italia, passata dai Savelli ai Cesarini il 13 maggio 1531, nel cui progetto Peruzzi si mostrò attentissimo all’evolversi della tecnica militare, giungendo a soluzioni difensive a scarpa simili ai coevi progetti michelangioleschi per la difesa di Firenze.
Al quarto decennio del secolo si datano numerosi progetti per ville fortificate, variamente declinati, e tra essi la pentagonale villa Farnese a Caprarola, all’origine dell’edificio poi realizzato da Jacopo Vignola, già prefigurata da Peruzzi forse insieme ad Antonio da Sangallo il Giovane intorno al 1521.
Il primo luglio 1531 un breve di Clemente VII confermò a Peruzzi il ruolo di architetto a vita della Fabbrica di S. Pietro e pressoché contemporaneamente la Repubblica senese gli raddoppiò lo stipendio, pur concedendo i necessari salvacondotti per recarsi a Roma.
Il 30 agosto 1531 Peruzzi stimò per 120 scudi i lavori conclusi da Beccafumi per la storia di Mosè che riceve le tavole della Legge del pavimento del Duomo. Seguendo un antico progetto già di Francesco di Giorgio Martini, Peruzzi ridisegnò il presbiterio, di cui restano splendide proposte per l’altare (Torino, Biblioteca reale), per il rinnovo del pulpito di Nicola Pisano (British Museum) e per l’assetto architettonico absidale (British Museum e Siena, Collezione Chigi Saracini) con una ripresa di motivi iconografici paleocristiani, già mostrata nei giovanili mosaici di Santa Croce in Gerusalemme.
Tra il 1531 e la morte di Clemente VII (1534) Peruzzi fu a Roma più volte. Ebbe così modo di rielaborare i suoi precedenti progetti per S. Pietro, adattandoli alla scala ridotta imposta dalle scarsità delle risorse dopo il sacco, in funzionale dialettica con le soluzioni portate avanti da Antonio da Sangallo il Giovane.
A quel tempo, ma forse con progetto anticipabile al 1529, si datano i lavori alla ‘vigna’ romana di Blosio Palladio, segretario di Clemente VII e Paolo III, costruita a mezza costa su Monte Mario e pressoché distrutta a metà Ottocento.
Nel 1532 si dette avvio alla ricostruzione del palazzo di Pietro Massimo sulla via Papale. Nonostante il sito irregolare caratterizzato da fronte ricurvo, l’acquisto nel 1533 di una porzione dell’adiacente proprietà di Angelo Massimo permise di sviluppare la facciata simmetricamente rispetto all’atrio, a sua volta centrato sull’antistante via del Paradiso.
In questo edificio (Palazzo Massimo alle Colonne) tornano molti tratti distintivi dei precedenti progetti di Peruzzi: il sapiente innesto dei nuovi spazi entro murature preesistenti, i repentini cambi di traiettoria dei percorsi, il cortile slittato in posizione laterale; nella facciata si riconosce il peculiare cambio di ritmo degli allineamenti, reso ancor più evidente dal movimento ondulato del fronte, a sua volta risolto nel contrasto tra bugnato isodomo a tutta altezza e ordine dorico del pianterreno. Non meno raffinati l’atrio e il cortile a due logge, disseminati di citazioni antiquarie e sprezzature nell’uso degli ordini dorico e ionico. Nella dosata ruminatio di soluzioni desunte da Raffaello, in affinità con Giulio Romano anche per la calcolata licenziosità delle invenzioni, l’edificio rappresenta il testamento architettonico di Peruzzi, sunto degli elementi compositivi e formali della sua poetica architettonica e della sua perizia tecnica.
Il 17 ottobre 1532, per decreto della Balìa senese, gli furono assegnate per undici anni le rendite dei terreni della Marsiliana ammontanti a 24 scudi l’anno.
La permanenza a Siena venne interrotta dalla conferma, sancita da un breve di Paolo III (1° dicembre 1534), nell’incarico di primo architetto di S. Pietro, insieme ad Antonio da Sangallo il Giovane.
Il nuovo corso imposto dal pontefice al cantiere vaticano si rispecchiò in una fase progettuale animata da studi planimetrici uniti finalmente a una serie di proposte per l’elevato, con una monumentale facciata porticata e, nella riproposizione dell’impianto centrico, il recupero di molti effetti spettacolari dei primi progetti, come gli elementi diaframmati a colonne.
Il 17 agosto 1534 Peruzzi stimò le pitture di Bartolomeo Neroni per l’altare dell’Arte dei Muratori in Duomo a Siena; allo stesso giorno data la lettera spedita da Peruzzi a Carlo Tolomei per richiedere il saldo dello stipendio come architetto della Repubblica. L’incarico fu sospeso per decreto della Balìa il 25 gennaio 1535 e il saldo fu disposto il 27 dicembre successivo per intercessione del cardinale Giovanni Tedeschini Piccolomini.
Successivi al 1534 furono i progetti per un palazzo a Montepulciano commissionato da Giovanni Ricci, futuro maestro di casa dei cardinali Del Monte e Farnese, di cui resta una sorprendente serie di disegni (Uffizi), ma di cui furono realizzate solo le arditissime fondazioni e alcune parti del pianterreno.
Gli anni della piena maturità registrano un progressivo abbandono della pratica pittorica, ma un assiduo impegno nel disegno di figura, la cui esecuzione pittorica fu affidata ad artisti di fiducia, come il S. Cristoforo (1532, Edimburgo, National Gallery) riutilizzato da Giorgio di Giovanni nel 1535 per la tavola Ss. Sebastiano, Cristoforo e Rocco, in collezione privata (Maccherini, 2001-02) e per un affresco della cappella del castello di Belcaro presso Siena. Della probabile ristrutturazione di questo castello da parte di Peruzzi, documentata da un disegno autografo (Uffizi), non è più possibile esprimere un giudizio a causa di un restauro ottocentesco che purtroppo ne ha completamente stravolto l’aspetto.
Peruzzi trascorse l’ultimo anno di vita a Roma insieme alla sua numerosa famiglia, in condizione di relativa precarietà economica e aggravato da malattia, come riferito nella seconda edizione vasariana, a causa di un eccesso di magnanimità, e pertanto di «dappocaggine», nei confronti di quanti avrebbero approfittato del suo talento, della sua generosità e della sua modestia (1568, 1976, IV, p. 325).
Peruzzi morì a Roma il 6 gennaio 1536.
Data la sua levatura, fu sepolto al Pantheon accanto a Raffaello con un’epigrafe celebrativa, posta dalla moglie Lucrezia e dai suoi sei figli, già perduta nel Settecento: «Balthasari Perutio senensi, viro et pictura et architectura/ aliisque ingeniorum artibus adeo excellenti / ut si priscorum occubuisset temporibus / nostra illum felicius legerent. / Vix. ann. LV. Mens. XI. Dies XX. / Lucretia et Io. Salustius optimo coniugi et parenti / non sine lachrimis/ Simonis Honorii Claudii Aemiliae ac Sulpitiae/ minorum filiorum, dolentes posuerunt. / Die IIII. ianuarii M.D.XXXVI» (Vasari, 1568, 1976, IV, p. 326).
Pietro Cataneo ricorda l’effigie di Peruzzi in un disegno per una medaglia, redatto intorno al 1530 con la scritta «Balthasar Perucius Pictor et Excellens Architector Inven.»; ne resta l’immagine, in un codice presso la Biblioteca comunale di Siena (Mss., L.V.9, c. 7r), poi utilizzata da Vasari tramite Francesco da Siena per il ritratto posto all’inizio della biografia peruzziana nell’edizione giuntina delle Vite.
Enorme è stata la fortuna di Peruzzi per la successiva trattatistica e per la teoria della prospettiva, ed è indubbio che il suo insegnamento senese influenzò un’intera generazione di allievi, tra cui Giovan Battista Pelori, Anton Maria Lari, Bartolomeo Neroni detto il Riccio, lo stesso figlio Sallustio e numerosi altri. Il suo modus operandi resta indicativo per un’intera epoca: la sua capacità di risposta, aggiornamento stilistico e giudizio rimase per le generazioni future un punto di riferimento capace di definire in architettura un puntuale vocabolario tematico di genere che diede una più chiara formulazione a nuovi tipi architettonici (pianta centrale, basilica, palazzo, villa, facciata a ordini architettonici compenetrati), ben distinti nelle funzioni di pubblico e privato, laico e religioso, e in rapporto alla sfera sociale, principesca, borghese, clericale. Lo stile ambizioso fondato su un linguaggio antiquario, elegante e curiale, specchio della politica artistica di pontefici, di raffinati committenti privati o di istituzioni repubblicane pose Peruzzi nella posizione di artista-gentiluomo a cui fu riconosciuto ampio onore sociale. Ma non vanno tralasciati l’ironia e il piacere per la licenza, che ricordano quelli del senese Antonio Vignali, autore de La Cazzaria de lo Arsiccio Intronato, dialogo priapico composto intorno al 1530, di cui resta puntuale riflesso nel bizzarrissimo disegno di Peruzzi raffigurante una Allegoria di Mercurio (Louvre) dove, tra monumenti e anticaglie accatastate senza ordine, il dio appare circondato da ogni sorta di alchimisti i quali, come scrisse Vasari, «con soffietti, mantici, bocce, ed altri strumenti da stillare, gli fanno un serviziale per farlo andar del corpo, con non meno ridicola che bella invenzione e capriccio» (1568, 1976, IV, p. 328).
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