DELLA TOSA, Baldo
Figlio di Talano, nacque a Firenze intorno alla metà del sec. XIII. Attivo esponente dei guelfismo, prese parte alla vita pubblica fiorentina come membro dei consigli cittadini - dove è citato, per la prima volta, nel 1278 - senza peraltro distinguersi per interventi o propositi personali su problemi politici e amministrativi. Piuttosto incline ad agire secondo lo stile di vita del suo rango, il D. sembra aver impersonato fino in fondo il ruolo di magnate, fadendosi notare per i tipici tratti di "grandigia", di "potenza" e di "tirannia": proprio quelle caratteristiche, comuni così al Della Tosa come alle altre grandi famiglie fiorentine, sempre pronte a ricorrere alle armi per combattersi tra loro e per commettere soprusi che provocarono, per reazione, a partire dal 1281, l'emanazione di provvedimenti sempre più restrittivi nei confronti dei magnati; provvedimenti che giunsero fino a precludere, a questi ultimi, l'accesso alle principali cariche politiche cittadine con la promulgazione, all'inizio del 1293, degli ordinamenti di giustizia.
Nemmeno le nuove disposizioni legislative furono comunque sufficienti a frenare gli eccessi magnatizi, poiché lo stesso D. ed altri membri della sua famiglia, subito dopo l'entrata in vigore degli ordinamenti, perpetrarono un'aggressione ai danni di due esponenti di una famiglia tradizionalmente rivale. Insieme con Rossellino e Odaldo Della Tosa e su istigazione dell'anziano ma potentissimo Rosso Della Tosa, egli tese infatti un agguato al cavaliere Gozzo Adimari e al di lui figlio Filigno, assalendoli nella "pubblica via con spade e coltelli al volto e al corpo" (Arch. di Stato di Firenze, Dipl., Adespote, 18 marzo 1294). Per questo fatto di sangue il D. con tutto il gruppo degli aggressori fu processato e condannato un anno dopo, nel 1294. Non ci è nota l'entità della pena inflitta al D. e agli altri membri della grande consorteria; tuttavia, difficilmente essa dovette essere mite, tenuto conto del rigore della legislazione antimagnatizia.
Nel biennio 1293-94, d'altra parte, anima degli ordinamenti e acceso fautore delle rivendicazioni del popolo minuto fu Giano Della Bella, che pur vantando nobili origini, si era fatto partigiano dei popolani. Per farla finita con le prepotenze dei magnati Giano arrivò a concepire l'audacissimo disegno di abbattere l'ultima roccaforte della nobiltà, la Parte guelfa, togliendole "il suggello e 'l mobile", come scrive il Compagni: privandola cioè della personalità giuridica e di quegli imponenti capitali che aveva accumulato nel tempo, prima con la requisizione dei beni dei ghibellini sconfitti e quindi con vaste operazioni finanziarie dal 1267 in poi. La manovra, temerariamente dissacratoria in una città caposaldo del guelfismo italiano, si rivelò fatale per il tribuno del popolo e costituì un'occasione di rivalsa che i magnati non si lasciarono sfuggire. Riunitisi segretamente nella chiesa di S. lacopo Oltrarno, congiurarono per liberarsi di Giano e abbattere il governo popolare.
Nell'assemblea prevalse la prudente opinione del D., che consigliò di usare l'arma della calunnia piuttosto che ricorrere a rischiose azioni di forza "vinciàgli prima con ingegno e scomuniàgli con parole piatose" (Compagni, Cronica, I, 14). Egli propose infatti di far circolare la voce che grazie all'operato di Giano e del popolo minuto gli odiati ghibellini sarebbero presto tornati in possesso di Firenze. Per paura dei ghibellini il popolo grasso avrebbe cessato di appoggiare il popolo minuto e in tal modo l'unità del partito popolare sarebbe stata distrutta a vantaggio dei magnati: "così scomunati, conciàgli per modo che mai più non si rilievino". Le proposte del D. piacquero a tutti i convenuti - e furono immediatamente messe in atto. Il successivo stato di eccitazione e di confusione che si venne a creare nella città provocò, nel giro di pochi mesi, la cacciata di Giano Della Bella (5 marzo 1295).
All'allontanamento del più strenuo difensore della parte popolare seguì un temporaneo periodo di tregua tra i magnati: si pacificarono, tra gli altri, Della Tosa e Adimari. Esso però non valse a far abrogare gli ordinamenti di giustizia, né a togliere dalle mani delle arti maggiori il governo della città. Per di più, all'interno della parte guelfa si venne ben presto creando la nuova scissione, fomentata dal pontefice Bonifacio VIII, nelle due. fazioni dei bianchi e dei neri., capeggiate, rispettivamente, dalla famiglia dei Cerchi e da quella dei Donati. La divisione dei magnati in due opposti schieramenti determinò inoltre fratture anche in seno a molti gruppi familiari, come in quello dei Della Tosa. In odio a Rosso Della Tosa - l'esponente più autorevole della casata, che aveva usurpato legittimi diritti ereditari ai propri congiunti e che si era schierato con i neri - il D., il fratello di questo, Biligiardo e Baschiera Della Tosa aderirono alla parte bianca.
Alla fine del 1301, con l'arrivo a Firenze di Carlo di Valois, il fratello del re di Francia Filippo IV inviato da Bonifacio VIII come "paciere generale della Toscana", i neri presero il sopravvento e nell'aprile del 1302 il D. fu esiliato insieme con i principali esponenti bianchi. Richiamato dal confino nel 1303, fece ritorno in città proprio nel momento in cui stava prendendo corpo un'altra scissione, questa volta all'interno della fazione nera, tra un gruppo capeggiato da Corso, Donati, che non si sentiva sufficientemente onorato per i suoi meriti di trionfatore sui bianchi, ed il gruppo che aveva come suo esponente Rosso Della Tosa. Quest'ultimo, che godeva dell'appoggio del popolo grasso, era allora il più eminente cittadino di Firenze. Anche in questa occasione il D. si schierò contro Rosso insieme con suo zio, il vescovo di Firenze Lottieri Della Tosa, il più potente alleato di Corso Donati, poiché poteva contare su un esercito personale di 4.000 armati. Nel febbraio del 1304 l'antagonismo tra la "parte del vescovo" e la "parte del popolo" esplose in un confronto armato che si protrasse per alcuni giorni; ma già nel mese successivo il paciere inviato dal pontefice Benedetto XI, il cardinale Niccolò da Prato, riuscì a comporre il dissidio tra il vescovo Lottieri e Rosso Della Tosa.
Non sappiamo se anche il D., in quella circostanza, abbia fatto a sua volta pace con Rosso. Dopo il febbraio del 1304, infatti, le fonti note non recano più notizie sull'attività pubblica del D., di cui non ricordano nemmeno la morte. Possiamo tuttavia presumere che essa sia avvenuta nel corso del primo o del secondo decennio del Trecento, dal momento che in un atto vescovile, nel quale sono elencati tutti i membri della consorteria Visdomini-Della Tosa incaricati di custodire i beni della Chiesa fiorentina, compaiono soltanto i nomi dei cinque figli del D.: Giovanni, Simone, Scolaio, Francesco e Biligiardo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, Adespote, 18 marzo 1294;Ibid., Strozzi-Uguccioni, Firenze, 15 ott. 1295;D. Compagni, Cronica delle cose occorr. ne' tempi suoi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 2,a cura di I. Del Lungo, pp. 43 s., 70,141, 169; Le Consulte della Repubblica fiorentina, a cura di A. Gherardi, I, Firenze 1896, p. 134;G. Lami, S. Ecclesiae Florentinae monumenta, I,Florentiae 1758, pp. 49 s.; Delizie degli eruditi toscani, IX (1777), p. 53; I.Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-1880, pp. 155, 548;R.Davidsolm, Storia di Firenze, III,Firenze 1957, p. 720; IV, ibid. 1960, pp. 35, 362;G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, pp. 178, 187; Ghibellini, guelfi e popolo grasso..., Firenze 1978, pp. 113, 265, 272, 317, 320.