ballata
La ballata, la ➔ canzone e il ➔ sonetto rappresentano i metri lirici per eccellenza della tradizione letteraria italiana antica. Con ballata ci si riferisce in genere alla ballata antica (detta anche canzone a ballo), diffusa, in varie forme, dal Medioevo al Novecento e distinta, metricamente e culturalmente, dalla ballata romantica. D’imitazione nordica, e riconducibile al modello delle inglesi ballads, la ballata romantica (o romanza), introdotta in Italia nel primo Ottocento da Giovanni Berchet, adotta, dal punto di vista metrico, schemi affini a quelli dell’ode settecentesca (Cecchini 1901; Giovannetti 1999). La ballata antica (Beltrami 20024: 289-300) è costituita invece da una ripresa e da una o più strofi o stanze (ballate mono- e pluristrofiche, o ‘vestite’). La ripresa conta un numero di versi variabile da uno a quattro (rari gli esempi di ripresa a cinque e più versi).
Nella lirica alta, soprattutto a partire dagli stilnovisti, i versi adottati nella ripresa e nelle stanze sono endecasillabi (➔ endecasillabo) o settenari (➔ settenario), anche variamente alternati nello stesso componimento; nella poesia delle origini, nella poesia giullaresca o popolareggiante e nelle laude, tendono a prevalere versi di altra misura (senari, otto-novenari, doppi quinari, alessandrini). Nello schema metrico, i versi della ripresa sono convenzionalmente denominati con le ultime lettere dell’alfabeto (w, x, y, z). L’ultimo verso della ripresa rima obbligatoriamente con l’ultimo verso delle stanze, formando la ‘chiave’ del componimento: l’assenza di chiave è del tutto eccezionale; è però possibile che l’ultimo verso della volta rimi con un verso della ripresa diverso dall’ultimo (si esercitano in varianti del genere alcuni rimatori trecenteschi, in particolare Niccolò Soldanieri: Capovilla 1978a). La stanza, come la stanza di canzone, è di estensione variabile (le stanze delle ballate pluristrofiche sono però identiche) e divisibile in due sezioni, dette rispettivamente mutazioni e volta. Le mutazioni (da due a tre) contano da due a quattro versi ciascuna e presentano, in linea di principio, identica formula sillabica: strutturalmente corrispondono ai piedi della canzone, e perciò si dicono anche piedi. Tra l’ultimo verso delle mutazioni e il primo della volta è in genere attuato un collegamento attraverso la rima. Lo schema della volta ripete, in toto o in parte, la ripresa: in via eccezionale può esservi coincidenza di schema rimico ma non di formula sillabica e molto raramente il numero di versi della ripresa può differire da quello della volta.
Una variante non troppo diffusa (ma radicata negli stilnovisti e nei loro epigoni, e già documentabile in Guittone d’Arezzo) prevede, al termine della ballata e in aggiunta alla ripetizione canonica della ripresa, un congedo: replica, più o meno fedele, dello schema della ripresa (ballate ‘con la coda’). Si ritiene che, nell’esecuzione cantata, la ripresa (detta anche ritornello) fosse ripetuta dal coro dei danzatori al termine di ciascuna stanza (e, in una prima fase, anche all’inizio, immediatamente dopo la prima esecuzione del solista): tutta la terminologia (ballata, ripresa o ritornello, mutazioni, volta) allude, del resto, a un’origine correlata al canto e alla danza. Si deve ritenere però che l’adozione del metro si sia presto svincolata dalla correlazione con l’eventuale esecuzione cantata o danzata.
Secondo il modello degli antichi metricisti, i tipi di ballata si classificano in funzione del numero dei versi che formano la ripresa: nel caso di ripresa a un verso (monostica) si parla di ballata minima (se il verso è di misura inferiore all’endecasillabo) o piccola (endecasillabo); nel caso di ripresa distica, di ballata minore; nel caso di ripresa tristica, di ballata mezzana; nel caso di ripresa tetrastica, di ballata grande, che rappresenta la forma di riferimento. Se la ripresa è a cinque o più versi si parla di ballata stravagante: stravaganti sono le celebri ballate di Guido Cavalcanti Fresca rosa novella (a ripresa pentastica) e Perch’i’ no spero di tornar giammai (a ripresa esastica).
Tematicamente, la ballata antica tratta di argomento prevalentemente profano (in specie amoroso): sconosciuta ai poeti della scuola siciliana, si diffonde nella poesia toscana grazie a Guittone e agli stilnovisti. Ne compongono alcune ➔ Dante e ➔ Petrarca. Ha notevole diffusione nel secondo Trecento (Capovilla 1978a) e ancora lungo il Quattrocento, anche in forme stereotipe, che di volta in volta assumono i nomi di barzellette, canti carnascialeschi (di ambito laurenziano, caratterizzati dal tema piuttosto che dal metro), giustiniane. È familiare ai novellieri, da ➔ Boccaccio (che termina tutte le giornate del Decameron con una ballata) a Bandello. Reintrodotta nell’Ottocento da ➔ Tommaseo, rivive nelle sperimentazioni metriche di ➔ Carducci, ➔ Pascoli, ➔ D’Annunzio, Saba, lasciando tracce fino a ➔ Montale (Capovilla 1978b).
Una specializzazione della ballata, detta lauda-ballata, è il metro tipico del genere laudistico (nei laudari più antichi i testi sono a volte accompagnati da notazione musicale). Nella lauda-ballata i versi più frequentemente adottati sono l’ottonario e il novenario, anche commisti in serie anisosillabiche. Prevale, specie nella lauda più antica, lo schema zagialesco (ripresa xx, o yx, e strofi aaax), ricondotto all’influsso della lirica mozarabica (Roncaglia 1962): di per sé, anche questo schema semplificato è riconducibile allo schema della ballata profana. È tipico di Iacopone da Todi e ricorre in innumerevoli testi, d’autore e anonimi (diffusi a partire dal Duecento sull’onda del movimento dei flagellanti, o disciplinati). Dello schema zagialesco si hanno applicazioni anche tarde e in àmbito profano (ad es., in ➔ Poliziano). La quattrocentesca barzelletta (nome ricollegato al franc. bergerette) è un componimento popolareggiante e musicato, formato da ottonari o otto-novenari con ripresa tetrastica (in genere xyyx) e stanze di otto versi (più spesso ababcddx) che adotta uno schema di lauda-ballata diffuso nel Tre-Quattrocento.
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino.
Capovilla, Guido (1978a), Note sulla tecnica della ballata trecentesca, in L’ars nova italiana del Trecento. Atti del III congresso internazionale (Siena - Certaldo, 19-22 luglio 1975), Certaldo, Centro Studi sull’Ars nova italiana nel Trecento, 7 voll., vol. 4°, pp. 107-147.
Capovilla, Guido (1978b), Occasioni arcaizzanti della forma poetica italiana fra Otto e Novecento: il ripristino della ballata antica da Tommaseo a Saba, «Metrica» 1, pp. 95-145.
Cecchini, Laudomia (1901), La ballata romantica in Italia, Torino, Paravia.
Giovannetti, Paolo (1999), Nordiche superstizioni. La ballata romantica italiana, Venezia, Marsilio.
Roncaglia, Aurelio (1962), Nella preistoria della lauda. Ballata e strofa zagialesca, in Il Movimento dei Disciplinati nel settimo centenario dal suo inizio. Perugia, 1260. Convegno internazionale (Perugia, 25-28 settembre 1960), Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, pp. 460-475.