BALLETTO
(v. ballo, V, p. 989; App. II, I, p. 352; balletto, App. IV, I, p. 224)
Nella danza come arte del movimento, quindi nell'accezione più ampia ed estesa della parola rispetto al termine b. (che è solo una parte della danza teatrale), il nostro secolo rappresenta soprattutto la nascita della ''danza libera'', dapprima del tutto indipendente dalla danza classico-accademica, poi, gradualmente, nell'evoluzione e nel passaggio alla danza moderna, in un processo continuo di migrazione e di assimilazione. Moduli liberi si sono infiltrati nella danza classica, cosicché il b., nato, cresciuto e sviluppatosi alla grande esperienza della danse d'école, è diventato moderno; a loro volta, moduli classici si sono fusi con quelli liberi; per cui si fa sempre più chiaro il concetto che non è possibile parlare di due tipi distinti di danza (come per buona parte del nostro secolo si è andato sostenendo), ma che un'unica danza, detta contemporanea, attinge ai vari affluenti che da più parti si intrecciano a formare l'amplissimo e variegato panorama della danza teatrale del 20° secolo.
Sul finire del secolo scorso, dopo la grave crisi del b. classico europeo, con i balli del tardo romanticismo tanto vistosi quanto futili, e soprattutto logori, due furono a un certo punto i filoni di rinnovamento, opposti e diversi: uno rappresentativo dell'estetismo dei Balletti Russi di Djaghilev, l'altro della danza centroeuropea espressionista (l'Ausdruckstanz) posteriore al via liberatorio della rivoluzione ingaggiata da I. Duncan.
Nel corso dei primi decenni di questo secolo, c'è stata una lotta tra due linguaggi di danza, poi questi si sono unificati. La danza classica si appropria di tematiche nuove, violente, contestatarie (è il caso di M. Béjart), mentre quella moderna riafferma il proprio vitalismo nel rigore, nell'essenzialità formale. Negli anni Settanta nasce e si sviluppa un nuovo modo di concepire uno spettacolo teatrale incentrato sulla danza: il Tanztheater di P. Bausch.
Allieva alla Folkwangballettschule di Essen, dapprima con K. Jooss poi a fianco di J. Cébron, la Bausch, a un certo momento della sua carriera di danzatrice, cambia decisamente rotta: stanca del ''prestabilito'', del ''costituito'', punta le proprie energie su un tipo di teatro nel quale la danza non è più immediatamente individuabile come nel passato (e spessissimo ancora nel presente), ma si frange in frammenti di danza misti a brani recitati o cantati, il tutto orientato verso una gestualità che è la caratteristica principale di questo teatro. Quando ciò sembrava un orientamento decisivo della cosiddetta ''nuova danza'' c'è stato un riflusso in direzione del b. classico. E comunque il b. (come avviene per l'opera lirica, pur tra alti e bassi) è destinato a essere sempre spettacolo vivo, popolare presso i pubblici del mondo intero.
Si stabiliscono così nette differenze nel passaggio da una forma all'altra, dalla modern dance di M. Graham a un tipo di teatro visuale che può sembrare un pleonasmo se si risale direttamente al significato della parola greca (θεάομαι=vedere), a un teatro, comunque, di immagini (si pensi a R. Wilson), a un teatro gestuale e di movimento, teatro di danza (che, come vedremo, è altra cosa dal teatrodanza). Ai margini esistono i rapporti danza-musica, danza-mimo, danza profes sionistica-danza ''amatoriale'', danza di sala-danza scenica, b.-danza jazz, sino alle nuove discipline, fra le quali emerge la danza terapia; e si potrebbe continuare in questo elenco di dicotomie.
Per ciò che riguarda la non facile convivenza musica-danza dobbiamo tornare indietro negli anni, al punto estremo di decadenza o di rottura sul finire del secolo scorso, quando i coreografi si servivano di musiche solo orecchiabili, spesso banali, convenzionali sempre, e di consumo. Le cose cambiarono con Djaghilev e i suoi Ballets Russes e con la tendenza, inaugurata dal grande impresario, proseguita poi da altri, di affidare a musicisti nuovi, di sicuro avvenire, il compito di comporre espressamente partiture per il b. (Debussy, Ravel, Stravinskij, Prokof'ev, R. Strauss, Poulenc, Auric, ecc.).
Ancora oggi molti eminenti compositori contemporanei affidano i loro spartiti (Stockhausen, Berio, Henry, Schaeffer, Cage, ecc.) ai coreografi della danza moderna. Si è venuto in tal modo a creare un procedimento nuovo e singolare di interdipendenza tra musica e danza. Come i valzer hanno infiorato il b. ciaicovskiano di matrice ottocentesco-romantica, così le più moderne espressioni della danza di sala (tango, rock, ragtime, ecc.) si sono avvicendate nei b. di J. Robbins e di B. Fosse. L'ondata del mimo è approdata nel pieno degli anni Cinquanta con la scuola di E. Decroux, sviluppatasi poi con il grande contributo stilistico di M. Marceau e teatrale di L. Kemp.
I primi tre decenni del Novecento sono praticamente dominati da alcuni eccellenti protagonisti − quasi tutti assunti nell'empireo del mito − che accentrano nella loro persona i ruoli diversi, ma concomitanti, di primo ballerino, di coreografo e di maestro: è il caso di M. Fokin (1880-1942), V. Nijinsky (1889-1950), B. Nijinska (1891-1972), L. Massine (1895-1979), G. Balanchine (1904-1983), S. Lifar (1905-1986), M. Graham (1894-1991).
Certamente esiste la difficoltà di riprodurre una coreografia del passato, ma oggi c'è il vantaggio delle registrazioni-video più accessibili della trascrizione grafica, con i vari metodi esistenti nel mondo intero. Sussiste comunque per altri coreografi illustri − F. Ashton (1904-1988), A. Tudor (1908-1987), A. M. Milloss (1906-1988) − la difficoltà di riprodurre alla lettera, assenti o scomparsi gli autori, lo spirito della composizione. Più facile sembra sia riuscito a coreografi che hanno affidato a un'istituzione o a una compagnia il compito di mantenere la diffusione dei propri lavori, ed è questo il caso di J. Limón (1908-1972) a New York, di K. Jooss (1901-1979) a Essen, di J. Cranko (1927-1973) a Stoccarda.
Che l'arte della coreografia si sia incamminata su impervi sentieri di leggibilità è problema mai abbastanza denunciato. Da una parte ci sono creatori che continuano a comporre in chiave classico-accademica, come R. Petit (n. 1924) e M. Béjart (n. 1927); dall'altra creatori che si fanno, come essi stessi si definiscono, ''manipolatori'' di tecniche diverse tendenti a una contaminatio teatrale, ed è il caso di W. Forsythe (n. 1949).
Petit ha continuato a ispirarsi, come ha fatto nel passato, al filone letterario dei grandi romanzi, anzi ha ultimamente accentuato questa sua netta predilezione: Intermittences du coeur. Proust (1974), Nana (1976), La Dame de pique (1977), Le Fantôme de l'Opéra (1980), Les Hauts de Hurle-Vent (1982), L'Ange Bleu (1985), Le Diable amoureux (1989). Béjart si è impegnato sempre più frequentemente nella ricerca dei grandi temi teatrali, mitici, epici o eroici, rivestendoli di un'enfasi coreografica non esente da una buona dose di retorica (Pyramide, 1990), nella quale i valori meramente coreografici paiono eclissarsi nel magma degli ingredienti più macroscopici di una teatralità scenografica e magniloquente, tipica del coreografo francese, che ha trovato la sua esemplare manifestazione nello spettacolo ispirato agli eroi e alle vicende dell'Anello del Nibelungo di Wagner, andato in scena a Berlino il 7 marzo 1990. Va comunque detto che l'aver approfondito Baudelaire, Nietzsche, Nijinsky, Wagner, Rimbaud, Mallarmé, Petrarca, Faust e molti altri personaggi e autori famosi, ha condotto Béjart al progressivo abbandono di un linguaggio di base eminentemente accademico e di un'ideologia impregnata di misticismo, con influenze dall'Estremo Oriente, per approdare gradatamente alla conquista − attuata nell'ultimo decennio e più esattamente da quando, lasciata Bruxelles e la pomposa denominazione Ballet du Vingtième siècle, si è trasferito a Losanna, ribattezzando la sua compagnia Lausanne Béjart Ballet - di una visione universalizzata di grande suggestione.
Nel marasma ballettistico degli anni Novanta c'è da una parte la tendenza a conservare i puri valori formali della danza, dall'altra a confonderli con ingredienti di varia derivazione. Fra gli ultimi autentici creatori si sono distinte alcune personalità indubbiamente interessanti che, con i distinguo e le dovute riserve, si può dire abbiano dominato il panorama del b. europeo degli anni più recenti.
Gli ultimi anni Ottanta hanno visto spostarsi dall'America all'Europa interessi e creatività della danza contemporanea. Il grande referente è P. Bausch (n. 1940). Il suo teatrodanza è diventato, in modi diversi, il teatrodanza di nuovi cultori non tanto della danza secondo l'accezione comune, ma della gestualità, del movimento, della corporeità e di un'arte che vuole comunicare sensazioni, stati d'animo, problemi attraverso il corpo, il corpo cosiddetto ''parlante''. Il lavoro forse più significativo della Bausch è Café Müller (Wuppertal, 1978) proprio per l'interiorizzazione che si fa gesto, movimento, danza; e vi si coglie anche una confessione, che è quella di uno stato di crisi creativa. Sulla stessa linea si collocano i lavori di altre due artiste del ''neoespressionismo'' di danza degli anni Ottanta: R. Hoffmann (n. 1943) e S. Linke (n. 1944). Sia la Hoffmann che la Linke hanno ciascuna un assolo che è diventato il loro biglietto da visita. La prima ha creato Solo mit Sofa (musica di J. Cage, 1977), dialogo dell'incomunicabilità con un divano, le cui fodere sono vestite dalla danzatrice, diventando il prolungamento della sua danza e nello stesso tempo l'espressione della sua ansia e dell'angoscia. La Linke ha creato un dialogo con il bagno, luogo dei suoi pensieri (Im Bade wannen, musiche di Satie-Debussy). Anche lei ha studiato con la caposcuola della danza libera tedesca, M. Wigman, poi alla Scuola di Essen con Jooss; ha collaborato con il Folkwang Tanz Studio, con la Bausch, con J. Cébron, G. Gh. Caciuleanu e G. Bohner, ed è stata molto influenzata da D. Hoyer (1911-1967), della quale ha ripreso una coreografia, Affectos Humanos, dramma della solitudine e del dolore umano. In queste artiste la danza diventa la trascrizione del vissuto, del quotidiano, della vita. Secondo la Linke, bisogna lasciar parlare il corpo liberamente, sviluppare quindi un linguaggio senza parole attraverso un movimento danzato che esprima sentimenti individuali, dare la priorità all'identità del vissuto e far confluire nel movimento di un assolo il fluire della vita senza descriverla. Per la Hoffmann, come per la Linke, si potrebbe quindi parlare di un teatro da camera, anche quando affidano le loro coreografie non a soliloqui soltanto ma a dialoghi più complessi con il gruppo.
In Francia è esplosa la nouvelle danse, e i suoi campioni sono già numerosi ancorché non del tutto chiaramente definiti: fra i più interessanti citeremo M. Marin, che proviene da Béjart e che intende delinearsi e percorrere un cammino personale (May B. e Cendrillon sono per ora i suoi lavori più significativi).
Diversamente da Stati Uniti e Germania, l'Italia manca quasi totalmente di conoscenza e consapevolezza del fenomeno danza moderna. I paesi dell'Est, come l'Unione Sovietica, sono rimasti per lungo tempo ancorati alle loro tradizioni logorate dall'uso, anche se qua e là si incomincia a notare qualche risveglio, segnatamente in Ungheria. Belgio, Olanda, Svezia sono state le più solerti ad affacciarsi al panorama della danza contemporanea, adottando a volte non sterili sperimentalismi.
Nel campo decisamente ballettistico, quello cioè che vive alla base dell'inesauribile linfa della tecnica classico-accademica, si sono registrati notevoli passi in avanti. Forte della vicinanza della madre, B. Cullberg, formatasi con un maestro come Jooss, M. Ek (n. 1945), ha dato alcuni lavori di notevole spregiudicatezza formale, ricreandone altri di originale e moderna rilettura, com'è successo con un classico del repertorio romantico: l'immortale Giselle. J. Neumeier, americano (n. 1942), ha trovato in terra tedesca e nel costante lavoro con la stessa compagnia (il Balletto dell'Opera di Stato di Amburgo) stimoli, sollecitazioni, fermenti che lo hanno portato a realizzare autentici capolavori di grande forza espressiva, di salda costruttività coreografica come la Matthäus-Passion (musica di Bach, Amburgo, 1981). J. Kylian, cecoslovacco (n. 1947), oggi alla testa del Nederlands Dans Theatre, sa molto bene universalizzare il suo messaggio, il più delle volte intriso di spiritualità e di alto senso mistico-religioso, come particolarmente nella Soldaten-Messe (su musica di Martinu), che è anche il frutto di una riflessione sui disastri della guerra.
Il più estroso − anche se non sempre accettabile − esponente della generazione più giovane è senza dubbio W. Forsythe: dotato di grande conoscenza del vocabolario della danza classico-accademica, ha finora raggiunto il risultato più notevole in un b. astratto affidato al corpo di ballo dell'Opéra di Parigi: In the middle somewhat elevated (1988).
In Italia, pur in un notevole fiorire di iniziative, di gruppi, di individualità interessanti, non è ancora apparso il coreografo sensazionale. Sarebbe prematuro formulare un giudizio definitivo, quando ancora questi artisti non si sono completamente affermati perché non hanno trovato il modo di potersi connotare e di agire culturalmente, principalmente per difetto di strutture. Solo conferendo ufficialmente alla danza la dignità di materia di studio a livello universitario (come avviene negli Stati Uniti e in Francia) potremo avere studenti, studiosi, specialisti e creatori, oltre che interpreti, di alto livello. Vedi tav. f. t.
Bibl.: N. Servos, G. Weigelt, Pina Bausch Wuppertal Dance Center, Colonia 1984; L. Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, Milano 1985; A. Testa, Storia della danza e del balletto, Roma 1988; Id., L'uomo e lo spettacolo, Milano 1988; G. Mannoni, Kylian, Arles 1989; S. Schlicher, L'avventura del Tanztheater. Storia, spettacoli, protagonisti, Genova 1989; M. Cunningham, Il danzatore e la danza, colloqui con Jacqueline Lesschaeve, Torino 1990; M. Guatterini, M. Porzio, Stravinskij, Apollo e Pulcinella, Neoclassico, danza e musica negli anni Venti e oggi, Milano 1990; G. Mannoni, Roland Petit et ses peintres, Parigi 1990; R. de Gubernatis, Cunningham, Arles-Parigi 1990; D. Humfhrey, Construire la danse, ivi 1990; D. Dobbels, Martha Graham, ivi 1990.