Banksy
Il mistero dell’artista-vandalo
Premiato con il Webby award per la sua creatività sulla Rete, il maestro della street art nasconde da decenni la propria identità, strategia di marketing che accresce la sua figura. Ma le sue opere sono anche un grido di protesta e di denuncia contro guerre, ingiustizie, diritti negati.
Dichiara di preferire la definizione di ‘vandalo di qualità’ a quella di artista. Banksy, pittore di strada appena insignito del Webby award per la sua creatività in Rete, si muove tra le metropoli e il mondo virtuale con la stessa disinvoltura. Le sue incursioni sui muri delle città, spesso notturne perché vietate, sono documentate e rivissute sul suo sito (www.banksy.co.uk), dove si legge tra l’altro che Banksy non è rappresentato da nessuna galleria e dunque Internet è il solo modo di entrare in contatto con lui per l’acquisto e l’autentica di opere.
Chi sia Banksy non lo sa nessuno, tranne i suoi più stretti collaboratori. Qualcuno dice che il suo nome è Robin Gunningham ma non è affatto certo. Questo mistero creato intorno alla sua identità è probabilmente una delle cause del suo straordinario successo, ma certamente non la sola. Se il confine tra la street art e il semplice imbrattare spesso è labile, si può dire senza dubbio che le sue creazioni hanno tutte le volte un senso. Spesso protesta, pone l’attenzione sui diritti negati, le ingiustizie che vede intorno a sé, le storture della società dei consumi. Lo fa con ironia e intelligenza, riuscendo a essere nello stesso tempo sferzante e poetico.
Qualche anno fa ha disegnato una bambina alla quale è appena volato dalle mani un palloncino a forma di cuore: quest’anno ha riproposto la stessa ragazzina con la testa velata per sostenere l’attività umanitaria in Siria. A un bambino affamato ha messo sulla testa un cappellino di Burger King, a un’altra fanciulla – con la coda di cavallo, la gonnellina corta, i calzini che le scendono sulle gambe come durante un gioco – fa abbracciare pericolosamente un missile, ad altri piccoli inconsapevoli fa fare un girotondo intorno a un fungo atomico. Ha dipinto anche su un muro tragico come quello della barriera di separazione israeliana: c’è una bambina che perquisisce un soldato, un militare che chiede i documenti a un asino, Topolino con la kefiah che ti ricorda come la Palestina non sia Disneyland. Ha raccontato che un palestinese lo ha avvicinato intimandogli di tornarsene a casa perché con i suoi disegni stava rendendo i confini della loro prigione a cielo aperto più belli: «Noi odiamo questo muro, non vogliamo che sia bello».
In un mondo dominato dallo star system Banksy sceglie l’anonimato, una riuscitissima operazione di marketing che aumenta a dismisura la curiosità intorno alla sua figura.
Nessuno conosce la sua faccia, non lo riconoscono al ristorante, ma ogni volta che compare su un muro urbano un disegno nel suo stile tutti si scatenano a cercare di capire se sia davvero lui ad aver lasciato lì quel segno. Come il papa sulla vespa apparso a Roma qualche tempo fa: è Banksy? Non è Banksy? Certo è che se n’è parlato molto.
Va detto che la difesa del suo volto all’inizio della carriera, quando alla fine degli anni Ottanta attaccava i muri di Bristol e di Londra sfidando le forze dell’ordine, era anche una questione di opportunità. Oggi, quando si fa riprendere mentre compie le sue azioni ‘illegali’ di Guerrilla art nelle strade, ma anche all’interno dei musei, ha sempre una maschera, un cappuccio che lo copre, qualcosa che lo nasconde. Negli spazi espositivi del mondo, dal MOMA di New York al British Museum di Londra, ha attaccato sulle pareti alcune sue opere mimetizzate, come per esempio un disegno rupestre su un frammento di pietra che raffigurava un omino stilizzato che insegue un carrello della spesa, oppure in una sala dedicata ai ritratti del Settecento il dipinto di un uomo con tanto di parrucca e bomboletta spray in mano.
La tecnica dello stencil con cui realizza gran parte delle sue opere gli permette una grande rapidità: ritaglia in studio le forme che gli servono e una volta raggiunto l’obiettivo le riempie con lo spray. Spesso affida all’immagine di tanti topolini il compito di dire quello che pensa. Nel 2013 è stato un mese a New York realizzando un’opera al giorno: per protestare contro i salari bassi dei fast food ha messo diversi lustrascarpe a pulire i piedoni del pupazzone di McDonald’s, ha organizzato un banchetto con le sue opere in vendita in un parco. Ma l’intervento che ha fatto più scalpore è Sirens of the lamb: il pianto e le grida di paura degli animali schiacciati in un camion per essere condotti al macello. In realtà da questa grande vettura in giro per New York uscivano soltanto le teste di tantissimi peluche, ma i bambini che li incontravano erano sconvolti lo stesso. Magari da grandi mangeranno un po’ meno carne degli americani di oggi. D’altra parte è lo stesso Banksy ad aver detto di essere diventato un vandalo per fare del mondo «un posto più bello».