barattiere
Colui che, avendo un ufficio, si fa corrompere per denaro o altra ricompensa; genericamente, vale anche " truffatore ", " malvivente ".
S'incontra tre volte nella Commedia: in If XXI 41 un diavolo, rivolgendosi agli altri diavoli, grida: O Malebranche, / ecco un de li anzïan di Santa Zita! / Mettetel sotto, ch'i' torno per anche / a quella terra, che n'è ben fornita: / ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo. In If XXII 87 la stessa qualifica di b. vien data da Ciampolo a frate Gomita, che barattier fu non picciol, ma sovrano; e, poco oltre (v. 136), lo stesso Ciampolo riesce a sfuggire a un nuovo attacco dei diavoli, immergendosi in tempo sotto la pece e provocando così una zuffa fra i diavoli stessi: e come il barattier fu disparito, / così volse li artigli al suo compagno, / e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
Due volte, col senso generico di " truffatore ", " imbroglione ", è nel Fiore LXXXVII 6 e 14: Amore a Falsembiante: E sì ti do per buon cominciamento I che re de' barattier tu sì sarai / … ma nol farai, sì se' mal barattiere !
B. sono dunque i dannati della quinta bolgia dell'ottavo cerchio (If XXI e XXII). D. immagina d'aver lasciato la quarta bolgia e di essersi affacciato sulla quinta, che trova mirabilmente oscura. I dannati vi sono puniti immersi nella pece bollente, che ricorda al poeta quella del cantiere navale di Venezia. A guardia stanno i diavoli neri, detti Malebranche, che hanno anche il compito di ghermire e strappare, con gli uncini di cui sono dotati, le carni dei barattieri. Un diavolo attira subito l'attenzione dei due poeti, mentre irrompe con un nuovo dannato sulle spalle, che dice essere uno degli anziani di Lucca, la città nella quale tornerà a prendere altri consimili peccatori. Il malcapitato viene buttato nella pegola e, poiché torna a galla, viene prima sarcasticamente ammonito dagli altri diavoli di star sotto, e poi uncinato e graffiato per bene. Intanto Virgilio fa nascondere D. e va incontro ai diavoli, per ottenere di visitare indisturbati la bolgia. Parla con il loro capo, Malacoda, che è costretto a subire il voler divino. D. esce allora dal nascondiglio, ma si tiene stretto alla sua guida, perché i diavoli sembrano tentati di mettergli gli uncini addosso. Per fortuna fa buona guardia Malacoda, il quale dà ai due poeti alcune indicazioni, parte vere e parte false, sul cammino da tenere per passare nella bolgia seguente e dà anzi istruzioni a dieci diavoli, guidati da Barbariccia, di far sì che i due sian salvi infino a l'altro scheggio. D. teme ancora e non vorrebbe la loro compagnia, ma Virgilio lo rassicura (c. XXI). La strana comitiva si muove a uno sconcio segnale di Barbariccia e D. dichiara di non avere mai visto muoversi in simil modo altra compagnia né in guerra né in torneo. Dal loro canto, i dannati mostrano a volte il dorso, come fanno i delfini in prossimità della tempesta, o stanno come i ranocchi sull'orlo del fosso, ma sono pronti a cacciarsi sotto, non appena avvertono la minaccia degli uncini. Solo che uno di essi non fa a tempo e viene tirato su da Graffiacane. Gli altri dannati a coro incitano il diavolo a unghiarlo. D. fa chiedere da Virgilio chi quegli fosse. Lo stesso b. risponde di essere Ciampolo, cortigiano del re Tebaldo II di Navarra. Mentre i diavoli ne fanno allegramente strazio, D. chiede notizie dei b. di origine italiana e Ciampolo gliene dà facendo i nomi di frate Gomita da Gallura e di Michele Zanche. Dopo di che il dannato propone ai diavoli di esser lasciato libero un momento, affinché con un segnale convenuto possa far uscire altri compagni di pena che sarebbero stati così alla loro mercè. Pur fiutando l'inganno, i diavoli accettano. A sua volta, Ciampolo, appena libero, riesce a tuffarsi repentinamente nella pegola e a non farsi riacciuffare da Alichino volatogli contro, adirato della beffa. Alichino si scontra in aria con Calcabrina, che aggredisce il compagno per punirlo dello scorno subito. Ma entrambi finiscono entro la pece che li divide, e debbono essere soccorsi dagli altri. L'incidente serve ai due poeti per allontanarsi (c. XXII).
Il termine b. sembra avere un non incerto etimo medio-latino: super baractem (codex Sulmonensis del sec. XII) e barataria (a Bologna nel 1262), ma si diffondee si definisce morfologicamente e semanticamente in area romanza: barata e baratar in provenzale, barate e barater in francese, barattu in siciliano, baratto e barattiere in toscano.
Una sua prima accezione è per così dire plebea e mercantile. In tal senso, negli Staiuta Cadubrii si parla di " vox generica, qua apud Italos praecipue vilissimi quique homines... significantur " (Du Cange) e quindi " qui ex sordido lucro vitam agunt " (ibid., 567). Più precisamente nei secoli XIII e XIV erano chiamati barattieri i " calones ", i " ganeones ", coloro che esercitavano la professione di facchino e addirittura di boia, chi teneva un banco di gioco, chi viveva, come ribaldo, alla giornata, rapinando ed esercitando mestieri vili e turpi, anche al seguito degli eserciti (Bongi): " Intelligantur baracterii seu ribaldi illi qui tribus vicibus, vel ab inde, super tavolerium in terrula se spoliaverunt " (Statuta Cadubrii, cit.). Baratteria era dunque " fraus, dolus qui fit in contractibus vel venditionibus " e voleva indicare genericamente anche contesa, contrasto, baruffa. Fra i secoli XIV e XVII significherà persino il luogo nel quale i b. giocavano d'azzardo. V'era infatti fra Duecento e Trecento nei comuni toscani, specialmente a Lucca, a Siena e a Firenze (ma anche fuori Toscana: a Bologna, a Faenza e a Vicenza) questa baratteria spicciola, faccendiera, quotidiana, esercitata da uomini di bassa condizione " che, non addetti all'esercizio di alcun'arte, attendevano a illeciti guadagni, senza scrupoli di mezzi [frodi, rapine, truffe e giochi di prestigio e di azzardo] e così alla ventura vivevano " (Del Lungo). Anzi il fenomeno era divenuto così cronico e diffuso, che a Lucca " il Comune incassava un tributo, il provento della baratteria " (Principato), la " kabella barraterie " (Zdekauer); e a Firenze aveva dato luogo a una vera e propria consorteria, dotata di " un proprio gonfalone con insegna ", i cui componenti indossavano " una tuta di lavoro con cappellina nera a punta " (Principato). Proprio a Firenze " il centro della maggiore attività dei barattieri, o, come si chiamavano ironicamente, dei ‛ gentilotti ', era il Mercato Vecchio, ove, a quanto sembra indisturbati da parte delle autorità, attendevano al giuoco dei dadi, come al Canto de' Marignolli, nell'attuale via dei Cerretani, si giuocava alla gherminella. Sul Mercato Vecchio non soltanto i contadini, le contadine e le mercatine, ma anche i cavalieri ed i giovanotti delle grandi casate formavano la ben gradita clientela che si assiepava intorno ai barattieri " (Davidsohn).
Una sua seconda accezione è per così dire aristocratica e politica. In tal senso, barattieri sono " qui iudices pecunia corrumpunt, atque adeo ipsi iudices corrupti " (Du Cange, p. 567), cioè tutti coloro che, in quanto pubblici impiegati o investiti di pubbliche funzioni, sopra tutto di cariche politiche, si facevano corrompere da denaro e facevano praticamente commercio della cosa pubblica (e anche, ma forse solo in linea secondaria, i corruttori, coloro che fruivano delle illecite prestazioni dei funzionari corrotti).
Per la quinta bolgia vale la seconda significazione, tecnicamente specifica in senso giuridico-politico ed etico-sociale, anche se non manca in D. l'uso della prima accezione del vocabolo (baratta, in If XXI 63, come " lite ") e sopra tutto anche se il poeta trasferisce, per gusto artistico, l'intrico subdolo del b. plebeo alla più grave e raffinata malizia della frode politica e valorizza gli aspetti farseschi della prima baratteria nel rappresentare la seconda. Per la verità, i primi commentatori non operarono le dovute caratterizzazioni in senso dantesco, o perché si limitarono ad assimilare il concetto di baratteria alla generica condizione della frode (la " qualità di coloro che frodolentemente in parole e in fatti rivendono altrui " [Iacopo], la " quinta spezie della frode " [Anonimo]); o perché, pur distinguendo le due forme di baratteria, non ebbero chiara la natura di quella condannata da D.: " A. prosequens de materia fraudulentiae, in Cap. isto tractare intendit de illa fraudulentiae specie, per quam aliquis truffatur, barattat et decipit rem publicam et patriam in comuni, vel amicos vel proximos in speciali " (Graziolo); " Intende... l'A. di trattare qui del peccato della baratteria, che per altro nome si chiama moccobellarìa, che... è vendimento o vero comperamento di quello che l'uomo è tenuto di fare per suo ufficio o in cose pubbliche o private, per danari o cose equivalenti " (Buti).
Essi stessi, però, forniscono i primi dati concettuali e storici per una più attenta esegesi del testo e per una più precisa definizione sociologica dei personaggi, condannati o menzionati da D. come b., i quali sono tutti senza eccezione pubblici funzionari o uomini politici che, illecitamente, per denaro, hanno prestato i loro uffici: il cosiddetto anzian di Santa Zita, che il Luiso ha identificato sulla base di una valida e probante documentazione con tal Martin bottaio, qualificato dal Buti come " gran cittadino " e reggitore di Lucca; Bonturo Dati, ancora vivo al tempo sia dell'immaginario viaggio dantesco, sia della composizione della prima cantica, quindi non ancora dannato e tuttavia ironicamente citato dal diavol nero, che faceva la spola fra Lucca e l'Inferno, come uno che non doveva esser compreso fra i barattieri ed era invece, a detta del Lana, " lo maggior barattiere di palagio che fosse, o si sappia, in quella città " di Lucca, della quale divenne anche subdolamente signore; Ciampolo, cortigiano di Tebaldo II re di Navarra, che, sempre secondo il Lana, forte dell'appoggio del re, andava " barattando per pecunia " cariche e onori, " in modo non licito né onesto "; Gomita di Gallura, vicario del giudice Ugolino Visconti, i cui nemici prigionieri, avuti in custodia, egli liberò per " grande quantità di denari " (Anonimo); Michele Zanche, prima reggitore, come legato di re Enzo, del giudicato di Torres e Logodoro e poi, sembra, usurpatore dello stesso giudicato e quindi figura esemplare di baratteria politica, per avere personalmente lucrato su tutta la cosa pubblica, sino a impadronirsi dell'intero stato. Di qui il più pertinente giudizio di commentatori più moderni, come il Venturi, per il quale il termine b. " in più largo significato vuol dire: truffatore mariuolo e raggiratore ", ma " propriamente " vuol essere " quel' che fa mercato di uffizi e cariche e traffica sulla giustizia, dicendosi in queste cose civili ‛ baratteria ', ciò che nelle sacre ‛ simonia ' si direbbe "; o come il Tommaseo: " Così dicevasi chi vendesse altrui degli atti del proprio uffizio e truffasse ad ogni modo nelle pubbliche cose ".
Ciò posto, non possiamo ignorare che, in D., una prima sollecitazione alla configurazione sopra tutto morale dei barattieri e quindi alla classificazione della loro colpa e della loro pena sia venuta dalla sua offesa coscienza cristiana e da tutta una tradizione etico-religiosa, specialmente medievale. Nella casistica teologica, che va da Cassiano a s. Tommaso, manca questa voce nel senso specificamente tecnico sopra illustrato, ma non manca la condanna di quel tipo fondamentale di peccato, come la frode e l'avarizia, nel quale può ben rientrare la baratteria, che era sempre un accaparrarsi del denaro in modo subdolo e fraudolento. Nei testi di s. Gregorio e di Isidoro, che ebbero abbastanza diffusione in Firenze ai tempi di D., l'avarizia è posta tra i " perfecta vel principalia vitia " e, nelle opere di Ugo da S. Vittore e di s. Tommaso, è considerata come " immoderatus amor habendi possessiones ", come " appetitus pecuniae " rivolto ad acquistare beni e a privarne gli altri: il che non può accadere se non con frode, perché, sempre secondo s. Tommaso, chi brama ricchezze è costretto a ricorrere all'inganno (donde " appetitus pecuniarum dicitur esse radix peccatorum ") e " quicumque cogitant aliquod malum facere, necesse est quod excogitant vias dolosas, quibus facilius propositum consequantur ". Nel contesto tomistico, secondo il Reade, la baratteria va intesa come peccato contro la carità e la giustizia distributiva. Addirittura di " vitia criminalia ", a proposito di avarizia, avea parlato Alcuino e, in tempi più recenti, Pier Damiani, quasi a classificazione di una colpa che era insieme religiosa e civile, come quella della baratteria. Perciò non a caso D. condensa in questa tanto l'amore del denaro, che egli condanna sopra tutto nelle forme dell'avarizia e dell'usura, quanto la frode, che egli considera propria dell'uomo (If XI 25 e 52-60).
C'è di più: l'organizzazione ecclesiastica, sia pure sul piano morale e penitenziale, aveva avvertito il fenomeno e lo aveva condannato, dopo averlo assimilato anch'essa alla casistica dei peccati di usura e di frode. Si vedano gli Statuta Ecclesiae Cadurcensis, nei quali si danno precise istruzioni al sacerdote di interrogare gli addetti alla mercatura sui peccati eventualmente da loro commessi in ordine a usura, baratteria, false vendite: " Circa burgenses et mercatores et ministrales interroget Sacerdos de rapinis, de usura, de pignoribus, in fraudem usurarum factis, de Baratis, de falsis venditionibus et mendosis ". Addirittura negli Statuta Augerii Episc., del sec. XIII, si danno perentorie intimazioni a non cadere in siffatte colpe: " Nullus Baratas ac alia inhonesta, ad cuiuslibet generis foenus exerceat "; e ancora: " Usurarii et Baratas ac alla inhonesta lucra prohibita exercentes ad restitutionem tenentur " (cfr. Du Cange).
Ma bisogna pur dire che l'atteggiamento polemico di D. verso i b. derivi in modo più diretto e determinante dalla sua offesa coscienza civile e più particolarmente dalla sua esperienza e dalla sua ideologia politica, e in senso cittadino o comunale, e in senso signorile o monarchico. Non a caso il poeta sembra distinguere questi peccatori in due categorie: quella dei b. per così dire ‛ comunali ' (rappresentati nel c. XXI da Martin Bottaio e Bonturo Dati), tutti provenienti da Lucca, e non solo perché in quella città la baratteria pubblica era effettivamente praticata, ma, a nostro avviso, sopra tutto perché essi fornivano il ‛ negativo ' allo spettacolo dei b. fiorentini, facevano insomma da ‛ falso scopo ' per aggiustare il tiro contro coloro nei confronti dei quali D. aveva serie ragioni di risentimento personale e di profonda riprovazione morale e politica; e quella dei b. per così dire ‛ cortigiani ' (rappresentati nel c. XXII da Ciampolo, fra Gomita e Michele Zanche), comprendente coloro che frodavano l'autorità monarchica, sfruttandone i poteri e i servizi per i propri illeciti guadagni privati. Una distinzione, questa, che richiama il duplice interesse politico del poeta: il comune corrotto e l'istituto monarchico che avrebbe dovuto salvarlo (in Toscana il comune aveva avuto, come sappiamo, una più lunga sopravvivenza che altrove, per la ritardata sua nascita a causa del protrarsi del margraviato; per altro verso D. in esilio venne a contatto con l'istituto monarchico di tipo signorile, che già nella tradizione pubblicistica fiorentina, da Giovanni da Viterbo a Brunetto Latini, era stato vagheggiato come toccasana degl'insanabili contrasti cittadini). Naturalmente, quando compone l'Inferno, con tutta probabilità tra il 1304 e il 1308, D. non ha ancora maturato le sue ideologie politiche, così come saranno enunciate nel c. XVI del Purgatorio e nella Monarchia; ma se la prima cantica è coeva o quasi al Convivio, la necessità di un'autorità monarchica, imperiale o meno non importa, doveva già essere un'acquisizione definitiva del pensiero dantesco. Il che spiega abbondantemente, nell'Inferno, la polemica del poeta non solo verso i maggiori responsabili del malcostume comunale, ma anche verso coloro che attentavano all'autorità monarchica e preponevano agl'interessi pubblici rappresentati dal signore o dal re i propri interessi privati. Del resto il principio del prevalere della comunità sull'individuo era profondamente vivo anche nelle teorie politiche comunali (cfr. il De Bono communi del fiorentino fra Remigio de' Girolami, e cfr. le non poche affermazioni contenute negli Statuti). Di qui le pesanti condanne che si comminavano agli accusati di baratteria e in genere a coloro che per il proprio tornaconto frodavano la cosa pubblica: " statutum et ordinatum est quod nulla persona civitatis vel districtus Flor., vel alius cuiuscumque conditionis sit, audeat vel presumat inducere vel inducere velle per se vel per alium d. Potestatem vel aliquem de sua familia... pretio vel precibus fraudolentibus vel alio modo... si quis fecerit, puniatur... " (dallo Statuto del Podestà del 15 gennaio 1284). Sappiamo però come la legge contro la baratteria e la fraudolenza pubblica fosse duramente invocata e applicata dalla fazione vittoriosa contro la fazione sconfitta solitamente accusata del peggiore delitto politico, quello di aver subordinato gl'interessi pubblici a quelli privati: " l'accusa di barattiere, nel significato di rubatone o trafficatore del pubblico denaro, era la parola di contumelia che si ricambiavano a vicenda le parti, e l'arme che la vittoriosa per solito adoperava a proscriver la vinta " (Minutoli).
D. ne fu vittima illustre, perché, come sappiamo, accusato ingiustamente proprio di baratteria e condannato da quei Neri che egli considerava autentici b., se la severa riprovazione della baratteria di Lucca, uno dei capisaldi della Parte nera in Toscana (gli esuli fiorentini di Parte bianca ne furono cacciati nel 1309), è allusiva di quella che avrebbe dovuto colpire la baratteria fiorentina. Cioè, sembra fuori dubbio che, nel concepire e costruire tutto l'episodio dei b., D. abbia attinto da " un mondo memoriale di esperienze vissute " (Pagliaro), specialmente personali e fiorentine. Lo stesso modo della pena, mentre è esemplare sia del contrappasso dantesco, sia del medievale " concetto giuridico della vendetta " (Arias), si riporta ad alcuni usi giudiziari fiorentini del tempo. La natura della pena " feroce e schernevole " riproduce grosso modo le feroci e schernevoli pene riservate a chi sottraeva pubblico denaro e veniva per questo trascinato per le vie cittadine, legato alla coda di un asino, per essere poi giustiziato (Arias). Anche gli strumenti della pena, dai diavoli alla pece, sono ideati, col criterio del contrappasso, a ricordo di specifiche esperienze cittadine e personali del poeta. Secondo alcuni il colore nero dei diavoli richiamerebbe la fazione avversa e, secondo il Chimenz, nei loro atteggiamenti si celerebbero i modi e le caratteristiche dei b. " di mestiere ", mentre i b. d'alto rango, cioè i pubblici funzionari, sarebbero rappresentati dai dannati. In pari modo, " i barattieri che stanno a cuocere nella ‛ bollente pece ' ci richiamano alla mente la barbara usanza di far bollire i delinquenti nell'olio o nell'acqua; come l'arroncigliamento operato dai diavoli contro Ciampolo di Navarra e i suoi compagni ricorda l'altro iniquo uso di strappare a brandelli le carni dal corpo del delinquente " (Arias), pene applicate in Firenze (Statuti, III 61) nei confronti di quelli che avevano complottato contro la sicurezza dello stato, prima che fossero impiccati. L'idea della pegola viene esplicitamente mutuata dalla pece usata nel cantiere di Venezia per rattoppare le navi, come è nella stupenda similitudine in apertura al canto XXI, la cui precisione descrittiva ha indotto qualche commentatore a credere che D. ne avesse avuta diretta e personale conoscenza (sappiamo dei suoi soggiorni a Verona e a Treviso, durante i quali non è esclusa qualche sua gita a Venezia, dove l'arsenale, essendo stato rifatto nel 1303, poteva essere oggetto di curiosità turistica). Le stesse caratteristiche fisiche della pece bollente rendono bene l'accesa rapacità, la tenebrosità dei modi, la viscosità delle abitudini della baratteria cittadina, che D. non poteva ignorare (" caliditas, obscuritas et viscositas peccato barattariae optime correspondent... Peccatum baratteriae primo calefacit hominem ad rapinam... Secundo semper secrete committitur et occulte, et hoc quia est peccatum valde vituperosum; ideo in pice punitur quia in pice, quantumcumque sit calida seu fervens, nichil videtur in ea sicut in aqua quae omnia manifestat... Tertio... est adeo viscosum, quod quicumque huic peccato se dederit, raro vel nunquam ab ipso poterit resilire ", Guido da Pisa).
Quanto poi alla particolare significazione politica attribuita ai b. ‛ cortigiani ', occorre aggiungere che D., quando compose l'Inferno, aveva già fatto qualche utile esperienza di corte. Era stato prima a Forlì presso Scarpetta degli Ordelaffi e aveva conosciuto le arti subdole della compagnia malvagia e scempia; e poi a Verona presso Bartolomeo della Scala e forse presso Alboino. Non dimentichiamo che era amico di Nino Visconti, signore di fra Gomita, e sopra tutto avea toccato con mano i maneggi e le coperte insidie della Curia romana: onde Benvenuto scrive: " per arsenatum intellige omnem curiam comitatuum sive dominorum: et maxime mihi videtur vidisse optimum exemplum in Curia Papae. Pix bulliens in arsenatu est ‛ barataria ' quae fervet in ea maxime tempore hyemis, idest adversitatis, quia tunc maxime baratarii laborant, et procurant sibi gratiam et favorem dominorum et populorum quando habent ventum contrarium nec possunt prospere navigare, ut sic postea, adveniente vere prosperitatis, habeant eorum ligna bene firmata et fortia contra omnes impetus undarum insurgentium. Et sicut in arsenatu sunt tot et tam varia opera et exercitia hominum, ita in Curia tam multa et tam diversa studia et officia hominum, qui omnes in gradu suo sunt solliciti ad baratandum aliquid a magno magistro usque ad minimum mercenarium ". Opinione confermata dal Landino: " Sono adunque le Corti delle repubbliche et de principi et maxime la Romana una Arzanà dove l'inverno, cioè, nelle fluctuazioni e tumulti degl'uomini, bolle la pece, idest l'avarizia, la quale invesca et accende gl'animi alla cupidità del possedere: per la quale chi ha in sua potestà magistrati, preeminenze, giudici e sententie non contribuisce né giudica sanza brutto prezzo ". C'è di più: con tutta probabilità D. non fu pure a Lucca (si pensa al 1306), in un'epoca che può essere quella in cui compose i canti dei b., e non vi conobbe la sottile frode consumata da Bonturo Dati ai danni del signore della città e suo amico Moroello Malaspina?
A questo punto conviene però chiederci come siano da caratterizzare i modi usati da D. nel rappresentare i b.: certo, la particolare articolazione fantastica dei due canti, la natura e l'efficacia delle similitudini, la prodigiosa vivacità scenica dei diavoli, il movimento drammatico e farsesco dei vari episodi, l'insieme delle malizie e delle trovate furbesche, l'allegra truculenza degli arroncigliamenti, le beffe gl'inganni e gli scontri che accadono fra dannati e diavoli, tutto costituisce un momento talmente singolare dell'arte dantesca, da porre i canti XXI e XXII tra i più discussi del poema e tra i più esemplari del ‛ comico ' dantesco. Problema questo di controversa soluzione, sopra tutto perché non sempre è stato facile e convincente mettere insieme la severa indignazione religiosa e politica di D. con l'andamento picaresco e con certa materia plebea del movimentato affresco. È la ragione per la quale il De Sanctis, fermo all'idea di un D. polemicamente serio e nobilmente sdegnoso, " accigliato, brusco, tutto di un pezzo ", trova che qui " il comico è rozzamente formato e non è artistico ", perché " non ha la sua immagine che è la caricatura, né la sua impressione, che è il riso ": i b. sono " plebe in cui il vizio è così connaturato, che non se ne accorge più " e D. non riesce a farne oggetto di vera rappresentazione comica, perché " non è buono né alla caricatura, né all'ironia ". In altre parole, al grande critico sembrava che la presenza di D.-uomo creasse un iato incolmabile tra il poeta e la materia destinata a restare allo stato grezzo.
Una tesi questa condivisa con qualche riserva dal Parodi, per il quale " il realismo di D. prevale sul suo umorismo, e lo uccide ": " quei barattieri sono veri barattieri, ma senza relazione con lui; quei diavoli sono bellamente diabolici, ma rimangono puri diavoli ", non c'è umorismo, ma c'è movimento e c'è una forma di " comico rappresentativo, tanto pel rapido succedersi e incatenarsi delle brevi scenette, quanto pel fresco e rude realismo delle parole e dei gesti. È per buona parte il comico caratteristico dei tempi di D., alquanto grosso e forte, proprio di spiriti non guasti dalla soverchia raffinatezza ", che " coglie i movimenti piuttosto che i sentimenti, la superficie piuttosto che la profondità ", " un comico più di situazione che di espressione o di carattere " (l'Olschki svilupperà poi questa distinzione tra comico medievale e comico moderno); e condivisa senza riserve dal Cesareo, secondo il quale D. " non ha l'oblio comico " e nei due canti " manca l'intenzione comica del poeta " e sopra tutto manca ciò che occorre al comico per nascere, la coscienza del suo limite, del tragico, e c'è invece la " triste esultanza dello spirito malo ", tutto un mondo " sconcio, orrendo, disgustoso ".
Evidentemente il Cesareo avvertiva la scarsa fondatezza della formula parodiana del comico oggettivo, che è quasi soltanto nella materia, fuori dello spirito dell'autore, e perciò riprendeva il più coerente discorso desanctisiano. E lo aveva avvertito qualche anno prima anche Pirandello, anche lui fermo alla non comicità dei due canti, ma altrettanto convinto di superare il dualismo desanctisiano e saldare la presenza autobiografica del poeta - " tutti i varii sentimenti che dovettero sorgere e agitarsi nell'animo di lui... e soprattutto il disprezzo per l'infame accusa " - col tessuto artistico dei due canti, la cui nota saliente è piuttosto il grottesco, il sarcasmo, " che non è mai commedia, ma è sempre un dramma che non può presentarsi tragicamente come dovrebbe, poiché troppo buffi, indegni e solo meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond'è determinato ".
Opinione che è stata largamente sottolineata e integrata o avvalorata da altri critici più recenti: ad es. dal Chiari, su un piano psicologico-personale: " io sento in quei versi il tono della vendetta allegra; di un'allegria che viene solo dal compiacimento di una vendetta, e un tale compiacimento è indissolubilmente unito al dolore di una grande ed ingiusta accusa "; dallo Scolari, su un piano etico-civile: la colpa dei barattieri " è offesa antiumana perché spezza il vincolo costitutivo della vita civile ", perciò " motivo dominante dell'azione è la coscienza morale di D. "; dal Montano, su un piano religioso-letterario: i due canti sono dominati da una sensazione di orrore e di sbigottimento che investe la primitiva coscienza cristiana del poeta e per questo hanno i toni e i modi di una sacra rappresentazione. Ma non sono stati pochi i sostenitori della tesi della comicità e per primi il D'Ovidio con cautela e il Sannia, suo discepolo, con scarso rigore e molta esagerazione.
Si deve, piuttosto, al Croce una sua motivazione controllatissima e metodologicamente più valida, anche se di necessità più impegnata nella valorizzazione dell'esito artistico: " Dante, tra i barattieri che bollono nella pegola spessa, [non] deve aver pensato... a casi suoi personali, alla condanna che gl'inflissero per baratteria; o, se ci pensò, se ne dimenticò subito dopo, come chi, accingendosi al suo racconto con un pensiero che dovrebbe essere grave e trovandosi subito di fronte un'immagine comica, vi prende gusto e la disegna con cura, per amor dell'arte, e finisce col suscitare il riso e ridere esso stesso "; " Plebeo è lo spettacolo, e Dante vide, ma non come plebe che si affiati con plebe, bensì sempre lui … che getta lo sguardo su quell'aspetto dell'umanità, di un'umaintà che è quasi naturalità e non permette la seria indignazione, e nemmeno la ripugnanza che si vela il volto, ma anzi eccita all'osservazione curiosa e al riso, per la stravaganza stessa e l'enormità di ciò che si osserva, e che esce da ogni gentile e civile consuetudine ".
Dopo il Croce, quella che nel suo pensiero è particolare o scarsa incidenza dell'elemento autobiografico viene addirittura spinta a una sua totale rarefazione per un'ulteriore valorizzazione degli elementi d'arte, per es., dal Momigliano nel senso del gusto pittoresco e scenografico, del " puro spasso fantastico "; da G.B. Salinari, in un senso psicologico-estetico, se D. contempla i b. " non con l'animo sdegnato del moralista, ma piuttosto con la curiosità e la simpatia con cui si osservano animali e bambini nelle loro istintive manifestazioni di vitalità e d'intelligenza ". Per non dire poi delle sottili conferme in chiave linguistica e stilistica (Schiaffini, Chiappelli, Spitzer, Petrucciani).
Piuttosto, si tende ora a mettere insieme gli aspetti più validi di tutta questa particolare storia critica: il comico, ammesso dal Croce, ma un comico storicamente intonato, cioè medievale, come voleva il Parodi, sopra tutto nei modi intuiti dalla sensibilità letteraria di un Pirandello e senza ignorare i fondamentali apporti della personalità pratica del poeta. Un modulo, questo, in cui prende pure notevole spicco l'elemento culturale, se è vero che D., nel rappresentare barattieri e diavoli, ha modo di tener presente la tradizione delle sacre rappresentazioni, delle leggende popolari (nelle quali i diavoli erano neri, sicché sembra caduta, o per lo meno attenuata, l'ipotesi di un'allusione ai Neri di Toscana e in particolare ai dieci priori di Parte nera), delle arti figurative, della poesia realistica. Ecco perciò il Montanari conciliare in D. il " disprezzo " per quel " mondo di meschini frodatori " con la sua fantasia che " segue con vivissimo interesse la scherma di malignità e di inganni che si svolge tra demoni e dannati "; il Sanguineti trovare in quell'ispirazione improntata a un comico tutto dantesco e medievale " la forza moralizzante del suo divertimento "; il Pagliaro scoprire un tessuto narrativo e un particolare comico che nasce dal contrasto medievale " tra la gravità tremenda della legge infernale e la bizzarra, pittoresca, animalesca volgarità dei diavoli, che ne sono ministri "; il Mattalia rilevare " un continuo flusso-riflusso e azione-reazione tra invenzione e poeta, tra Dante-personaggio e Dante-poeta "; e il Bosco partire dalla nozione storica che accuse e condanne per baratteria tra fazioni avverse fossero una " buffa, trista farsa ", che " un uomo come Dante non poteva prendere sul serio " ma poteva fare solo oggetto di amarissimo riso: questa la " sorgente del tono poetico " dei due canti. Sono notazioni che trovano una più ampia e puntuale giustificazione nella tesi del realismo dantesco (Marti), che consente di non ignorare, in tutta l'ispirazione di D., e specialmente in questa originalissima usata nell'episodio dei b., per un verso la carica delle sue concrete esperienze, dei suoi risentimenti politici e delle sue convinzioni religiose, e, per altro verso, tutte le possibili ascendenze letterarie, dotte e popolari: cioè quella storia e quella cultura, alle quali l'altissimo gusto pittorico e scenico del poeta ha saputo poi dare l'inconfondibile segno dell'arte.
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