BARBARI
. Il concetto antico. - La parola, di origine indo-europea (ant. ind. barbaras; gr. βάρβαρος; cfr. il lat. balbus), significa originariamente chi pronunzia suoni sgradevoli inarticolati simili a quelli degli animali (Aristof., Av., 1521 per gli Sciti, 1681 per i Triballi, e Corippo, nel sec. VI d. C., IV, 350 per i Mauri). Tali furono per Omero i Carî βαρβαρόϕωνοι (Il., II, 867) dal linguaggio aspro, inintelligibile. Barbariche si chiamarono appunto le parole senza senso, ma che col suono volevano significare qualche cosa di arcano e sacro, come i cosiddetti Ephesia grammata (Plut., De superst., 3, p. 166 b). Ma non si tratta ancora di differenza di razza. Omero (e lo notava anche Tucidide, I, 3) non usa mai la parola barbaro per indicare i Troiani o i loro alleati, tolti i Carî. I grammatici alessandrini lo spiegarono col fatto che solo i Carî erano i popoli reali dell'antichità con i quali erano venuti a contatto i Greci, essendo tutto il resto o finzione o ricordo di avvenimenti tramandati. "Αγλωσσος "senza lingua" è chiamato il popolo che non parla una lingua intelligibile (Sofocl., Trach., 1060) o, come lo dice Filostrato (Vit. Apoll., I, 16), "senza voce". Tanta è l'importanza che assume il linguaggio per cui l'uomo si sente incivilito e superiore agli altri. Per questo i Greci, pur con tutte le loro divisioni politiche, si sentirono sempre uniti, appartenenti ad una medesima nazione di fronte a quelli che non erano Greci. Quindi l'opposizione degli Elleni ai non Elleni: costoro erano i barbari. Ma in tale parola di valore puramente negativo non è incluso alcun senso di dispregio. L'opposizione si manifesta più tardi (quando la cultura ellenica si afferma sopra ogni altra, e il popolo ellenico ottiene anche un predominio politico. Allora al senso puramente differenziale linguistico si unisce quello politico e quello morale, ma con varie successive modificazioni. Era facile passare dal significato di "non parlante il medesimo linguaggio" a quello di "forestiero". Ma ancora in questa distinzione, pur essendo sempre viva la ripugnanza degli Elleni a unirsi e fondersi con altri popoli, non vi ha da prima una ragione di contrasto politico o naturale. La differenza di carattere e di natura è determinata dalla diversità del clima (Ippocr., De aëre, aqua, ecc., 12 e 16) e gli storici che primi vengono a diretto contatto con i popoli non ellenici notano che anche questi hanno una cultura notevole, talora superiore, anzi madre di quella ellenica. Al tempo delle guerre persiane questo movimento si accentua in modo particolare. Ecateo, Erodoto dimostrano come i cosiddetti barbari siano degni di stare accanto agli Elleni, tanto che Erodoto è chiamato "l'amante dei barbari" (Plut., De mal. Herod., 12). Ma se gli storici dimostravano tale uniformità naturale e tale unione fra tutte le nazioni per il maggior contatto e la maggior conoscenza apportata dalle guerre mediche, queste ridestarono più profondo il senso di orgoglio e di nazionalismo degli Elleni, e i barbari diventarono i nemici della Grecia e della sua civiltà. Eschilo, Sofocle sono energici assertori di questo concetto: anche i Troiani della leggenda omerica diventano barbari. A tale tendenza si opporrà la sofistica che affermava che tutti gli uomini sono liberi per natura (Antifonte, Ippia) e i filosofi continueranno la tradizione ippocratea, considerando (Democrito, fr. 247 D.) che per il sapiente tutta la terra è buon paese. Il razionalismo entra nella vita popolare col dramma euripideo, e la filosofia socratica accetta il lato umanitario e scientifico delle ragioni apportate dai primi storici e da Ippocrate da un canto, dai sofisti dall'altro. Ma prevale ancora il senso d'orgoglio nazionale in contrasto con la ragione, per cui in Platone stesso si noterà un forte conflitto tra il filosofo dalle idee larghe che oltrepassa persino con la fantasia i confini del mondo abitato per sognare nell'Atlantide il paese della felicità, e l'ateniese dalle idee nazionalistiche ristrette a cui sembrerà barbaro (Protag., 341 c) persino il dialetto di Pittaco, che è il dialetto di Alceo e di Saffo, e barbari altresì (Cratil., 421 c) quelli che useranno parole antiquate e non dell'uso attico. Gli Ateniesi nel periodo del fiore massimo della loro grandezza restringono quasi la Grecia ad Atene, e barbarismo sarà chiamata ogni locuzione non attica (Posidipp., fr. 28, Aristot., Poet., 22, 1458 a 25). Esclusivismo che si comprende negli uomini politici (Demost., III, 24), ma che i filosofi mascheravano con ragioni superiori, appellandosi al valore della cultura nella vita umana, per cui ogni popolo non culto o non educato doveva considerarsi barbaro, da dispregiarsi, da essere tenuto come servo. Così Aristotele giustificherà la sua teoria della inferiorità spirituale, mentre la spedizione di Alessandro Magno attirava nell'orbita della civiltà ellenica appunto i barbari i quali diverranno gli eredi e i più forti sostenitori della cultura stessa, superando gli stessi Elleni. Il concetto del cosmopolitismo si diffonde e si afferma sempre più specialmente per opera dei cinici, mentre il concetto di barbaro diviene sempre più relativo. Tipico è l'adagio che riguarda Anacarsi (Gnom. Vat., 16): che se egli era barbaro per gli Ateniesi, questi erano barbari per gli Sciti. Unico e precipuo carattere distintivo per gli uomini è l'essere dabbene o no (Eratostene presso Strab., I, 66). Così con l'estendersi della cultura, il concetto di barbaro acquista un valore morale: i barbari si ricercarono sempre ai limiti estremi della terra abitata (Agatarch., in Fozio, p. 441 a 23; Stef. Biz., s. v. βάρβαρος) e la loro condizione era a poco a poco idealizzata dai filosofi che, spregiando la vita reale corrotta e demoralizzata, vedevano nella semplicità, nell'ingenuità, nella forza nativa le fonti della beatitudine umana.
Dai Greci del tempo ellenistico la significazione di barbaro come "straniero" politicamente e "rozzo, incivile" moralmente, passò presso i Romani, fra i quali ben presto assunse per l'orgoglio cittadino il senso di dispregio che ebbe solo in casi particolari per gli Elleni. I Romani non aveano grande stima dei Greci loro contemporanei (Graeculi), ma sentirono la forza della loro civiltà e in questa stessa si sentirono talmente compresi da arrogare a sé il vanto dei Greci. "Barbari" quindi furono considerate tutte le nazioni non educate dalla civiltà ellenistica, o meglio greco-romana. Il vocabolo, che da prima significò rozzezza, inurbanità di lingua e di costume, sì da essere usato da Plauto, secondo il punto di vista greco, a caratterizzare l'arte di Nevio (Mil. Glor., 211), accoglie il valore politico di "forestiero, straniero", quindi "dal carattere feroce, indomito", a causa dei rapporti che i Romani ebbero con i popoli forestieri contro i quali dovettero da prima combattere. Allargandosi l'Impero romano, il concetto di barbaro seguì le vicende politiche. Barbari furono considerati i popoli che erano fuori del confine dell'Impero, non vinti dalla civiltà romana e di costumi fieri, sanguinarî. Invece le popolazioni incluse nei confini furono considerate peregrini o provinciales con ordinamenti, leggi, concessioni particolari da cui erano esclusi i Barbari. Ma a causa delle incursioni sempre più frequenti e disastrose, anche i Barbari (alienigeni) furono ammessi a godere dei diritti romani finché ne soverchiarono e distrussero per poco le istituzioni. Barbaro da allora significò particolarmente "straniero, feroce" che non rispetta leggi ed istituzioni civili, nemico della patria e della religione.
Bibl.: J. U. Steinhofer, Dissert. crit. de voce Βάρβαρος, Tubinga 1732; F. Roth, Bemerk. ü. den Sinn u. Gebr. des Wortes Barbar, Norimberga 1814; A. Tichhorn, Βάρβαρος quid significaverit, Lipsia 1904; R. Zahn, Die Darstellung der Barbaren in griech. Liter. u. Kunst der vorhellenist. Zeit, Heidelberg 1896; J. Jüthner, Hellenen und Barbaren, Lipsia 1923; Münscher, in Thes. Ling. Lat., II, 1735; Saglio-Humbert, in Daremberg e Saglio, Dict. des Antiq., I, p. 670 seg.; Ruge, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 2858.
Il concetto medievale e moderno. - Il cristianesimo portò un profondo mutamento nel concetto corrente di barbarie; infatti negando, or più or meno radicalmente, il valore di una civiltà quando essa non fosse informata ai fini supremi della vita ultraterrena, venne da un lato a comprendere nella vera civiltà solo i membri del corpus christianum, dall'altro, per logico complemento ereditato dalla tradizione classica, a coinvolgere nel concetto di barbari i non cristiani. Se, in linea teorica, quindi, questo nuovo concetto rappresentava un vero capovolgimento, nella pratica, quando il mondo romano fu tutto assorbito dalla nuova religione, romano (ossia cristiano) si contrappose a barbaro, come prima romano, senza specificazione religiosa, a barbaro (v. p. es., Salviano, De gubern. Dei, IV, 13 e 14; Nithardi, Histor., in Mon. Germ., SS., II, p. 561; Monachi Sangallensis, De Gesiis Karoli imper., ib., p. 7). Così nelle Chronicae Polonorum (in Mon. Germ., SS., IX, lib. I, c. 11) Boleslao, re cristiano di Polonia, è contrapposto alle gentes barbarorum e, più chiaramente ancora, nei diplomi, dove Ottone III concede ai mercanti di Magdeburgo libertà di traffico, ubique in regno nostro, non modo in christianis, sed etiam barbaricis regionibus (Mon. Germ., DD., Ottonis II, n. 112). Così via via che la civiltà antica illanguidiva, adattandosi esangue alla mentalità angolosa dei popoli nuovi sorti dalla fusione e dalla convivenza con le popolazioni romane (romanizzate o ellenizzate), la comunanza religiosa, nella quale pareva stemperarsi e dissolversi ogni differenza etnica, appariva come l'unico carattere distintivo fra civiltà e barbarie. Appunto perché nata da questa radice religiosa cristiana, non v'è traccia che il termine di barbari sia mai stato applicato agli Ebrei, considerati come rappresentanti, tenaci ed attardati, di uno stadio superato della storia universale, nella quale si attua la provvidenza divina; ma fu applicato invece ai musulmani (p. es. v. Richerii, Histor., in Mon. Germ., SS., III, p. 570 e Benedicti S. Andreae, Chron., ib., p. 712), rispetto ai quali le sue sorti s'intrecciarono e confusero con quelle del termine berberi e barbareschi. Ma già nel tardo Medioevo il termine perde qualche cosa di questa sua rigidezza e intransigenza religiosa e si colora, leggermente ancora, di qualche sottinteso profano. Va aggiunto, del resto, che in qualche scrittore medievale, letterariamente più raffinato, rispunta il primo significato, etnico-culturale, del termine: così Eginardo si scusa se egli, homo barbarus et in romana locutione perparum exercitatus, osa scrivere in latino (Mon. Germ., SS., II, p. 443) e Walafrido Strabone si confessa tedesco e quindi barbaro (Dicam tamen etiam secundum nostram barbariem, quae est Theotisca..., in Mon. Germ., LL., Capitularia regum Francorum, II, p. 481; v. anche De vita S. Radegundae, lib. I, cap. 13, in Mon. Germ., SS. rerum Merovingicarum). S. Tommaso riprende e preferisce il termine gemes a quello di barbari, né mai lo adopera a designare, ad esempio, Averroè, contro il quale pure scende in polemica (Summa contra gentes). Anche prima del vero e proprio Rinascimento, di pari passo con la mondanizzazione della cultura, con l'allargarsi delle conoscenze geografiche ed etnografiche (crociate, viaggi nell'oriente asiatico), il concetto perde del suo rigorismo religioso; se da un lato le pagine del Milione di Marco Polo mettono sotto gli occhi un mondo maraviglioso, che per certi aspetti è riconosciuto superiore a quello europeo, dall'altro la rinascente scienza dell'antichità riporta al significato primo della parola; ed è ora barbaro chi non rivive in sé il modo di sentire del mondo romano, sono barbari gli ultimi sopraggiunti nell'ambito delle civiltà europee, quei popoli che non possono mostrare i quattro quarti della loro nobiltà d'origine: i popoli dell'Europa settentrionale, scandinavi, moscoviti, slavi meridionali, turchi; sono barbari i germani, ai cui progenitori gli umanisti - con sbrigativo semplicismo - muovono il rimprovero di avere uccisa la romanità, provocando il trionfo della barbarie. La distinzione su base religiosa è travolta; il sentimento e l'orgoglio italiano arrivano fino a tacciare di barbari quanti non sono italiani, ossia diretti discendenti di Roma. Significazione retorica, nella quale pur trova espressione letteraria il sentimento nazionale; ma che porta agli estremi, per così dire, la mondanizzazione subita dal termine. Anche nel mondo ecclesiastico si abbandona oramai l'idea dell'indissolubilità di barbarie ed eterodossia, e anzi proprio i missionarî cattolici, specialmente gesuiti, sono fervidi ammiratori, a parte le riserve religiose, e mediatori all'Europa delle civiltà orientali, indiana e cinese; popoli non barbari, benché idolatri. L'illuminismo, ottimista per sua natura, con certa compassionevole indulgenza, vide dei barbari il lato pittoresco e la suscettibilità, data per certa, d'incivilimento: per contro i romantici videro nei barbari la manifestazione delle energie primitive e genuine della natura umana, la forza poetica e fantastica delle stirpi, che si traduceva in costumi e tradizioni, e li considerarono spesso con simpatia, ben volentieri indulgendo e sorvolando sui lati violenti, sfrenati e sanguinarî. Dalla fine del Medioevo ad oggi l'estensione geografica del termine si è sempre più ristretta, non solo in seguito al diffondersi per ogni dove della civiltà europea e alla scomparsa o all'assorbimento di popolazioni barbariche, ma più ancora per il fatto che il termine, svuotato del suo significato etnico-religioso, o sostituito dal concetto meno truculento, valutativamente neutrale, insito nel concetto di "popoli primitivi", è rimasto solo a designare certi non frenati istinti primordiali. Così l'allargamento dell'orizzonte storico e geografico ha portato a conoscere altre civiltà, più o meno sviluppate, rompendo l'esclusivismo della civiltà europea, e a riconoscere che gl'istinti primordiali sonnecchiano anche nell'uomo civile e possono prorompere, in determinate circostanze, come manifestazione singola o collettiva. Di qui, specialmente nel caso di guerre, i reciproci rimproveri fra belligeranti di atrocità e barbarie, che si vorrebbero alzare al grado di caratteristica degradante del gruppo etnico avversario; vecchio espediente polemico, messo sempre in valore, da quando, circa dal sec. XVI, si è sentita la forza di una opinione pubblica europea laica, ad essa facendo appello; ma che non sopravvive alla contingenza anormale che l'ha provocato.
Bibl.: Non esistono studî speciali sull'evoluzione del concetto medievale e moderno di barbarie; si possono consultare per contrapposto quelli sul concetto di civiltà. Per l'età medievale, oltre che nei glossarî, qualche spunto in R. Wallach, Das abendländische Gemeinschaftsbewusstsein im Mittelalter, Lipsia 1928, e in A. Dempf, Sacrum Imperium, Monaco 1929.