SEGNI, Bardo
– Visse nella prima metà del XVI secolo ed è sconosciuto l’anno di nascita. Appartenente al ramo dei Segni Guidi, fu figlio di Antonio di Neri e fratello di Fabio, noto quest’ultimo come autore di carmi latini. Oltre al fatto che lavorò presso la tipografia di Bernardo Giunta come curatore delle edizioni del Decameron e di Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani (la cosiddetta Giuntina di rime antiche), pubblicate entrambe nel 1527, non si sa altro della sua biografia. Era già morto nel 1555, anno di uscita di una raccolta di rime di Benedetto Varchi nella quale fu commemorato in un sonetto.
Segni è stato a lungo confuso con il suo quasi omonimo Bernardo Segni, storico di Firenze e traduttore di Aristotele, fino a quando Domenico De Robertis nel suo studio sulla Giuntina non ha fatto chiarezza sui due personaggi.
La notizia della presenza di Segni presso la stamperia dei Giunta ci viene da Vincenzio Borghini che annotò in margine a un codice della Cronica di Giovanni Villani che la raccolta dei «poeti antichi» fosse stata allestita «per diligenza e amorevolezza di Bardo Segni, che fu un bello e gentile spirito». Oggi si crede che anche la dedica della Giuntina ai «nobilissimi gioveni amatori della poesia toscana», seppure sottoscritta da Bernardo Giunta, sia dovuta a lui, che avrà avuto di conseguenza un ruolo determinate anche nella scelta e nell’organizzazione del corpus. Lo stesso era avvenuto nell’allestimento del Decameron, come si evince ancora da una nota a penna di Borghini sull’esemplare della ventisettana del capolavoro di Boccaccio in suo uso: «alla corretione del ’27 si trovarono Bardo Segni fratel di Fabio, che fu il principale, Antonio degli Alberti, Francesco Guidetti, Stiatta Bagnesi, Pier Vettori, ms. Antonio Franchini, Baccio Cavalcanti qualche volta».
Uno tra i meriti delle due imprese editoriali fu di aver applicato all’edizione di testi volgari il metodo di confronto dei manoscritti proprio della filologia umanistica, con conseguente atteggiamento conservativo delle lezioni tradite.
Nel caso del Decameron la filologia novecentesca ha accertato che il manoscritto impiegato nell’officina dei Giunti fu un affine a quelli che sono oggi considerati due dei più importanti codici dell’opera, il berlinese Hamilton 90 della Staatsbibliothek e il Pluteo XLII.1 della Medicea Laurenziana (cosiddetto codice Mannelli). Ne conseguì che la ventisettana del Decameron per la sua qualità testuale diventò l’edizione di uso fino alla ristampa purgata da Borghini nel 1573.
I meriti filologici da riconoscere a Segni non sono minori per la Giuntina di rime antiche, che metteva a stampa, in 11 libri, 289 componimenti di 23 autori diversi, più un pacchetto di rime anonime, di cui l’88% in prima edizione, una quantità di materiale poetico fino a Dante incluso offerto tutto in una volta e in un numero di copie imparagonabile con quello dei manoscritti di rime degli stessi autori allora circolanti. La Giuntina, che completava all’insù (cioè da Dante ai Siciliani) il percorso che la Raccolta aragonese aveva compiuto all’ingiù (da Dante a Lorenzo de’ Medici) costituì, fino a tutto l’Ottocento, riferimento obbligato per gli studi sulla lirica toscana antica.
Ma Segni fu anche poeta in proprio. Di lui ci sono pervenute 21 rime, disperse in otto manoscritti miscellanei di poesie, di cui sei del XVI secolo.
I più importanti per numero di poesie rappresentate sono l’Antinori 161 della Biblioteca Medicea Laurenziana e il Vaticano Chigiano L.VI.231. Nella serie dei componimenti dell’Antinori si riscontra in particolare un nucleo di 16 testi che aspira a costituirsi come un piccolo canzoniere, con una canzone introduttiva, 10 rime in vita della donna amata (1 canzone, 3 ballate, 6 sestine), 4 in morte (tutte sestine) e una canzone finale alla Vergine. Restano fuori di questa serie una canzone per la morte di Federico Gonzaga, due egloghe di evidente marca sannazariana e due sonetti. Tra i generi metrici praticati da Segni spicca dunque la sestina (10 sestine su 16 rime nel minicanzoniere dell’Antinori). Tre sestine sono variazioni di Al poco giorno di Dante, con l’uso dello stesso gruppo di parole chiave (colli, ombra, donna, erba, verde, pietra); in altre tre si varia un’identica serie di parole-rima (donna, luna, giorno, occhi, stelle, sole), cinque delle quali già certificate in fine di verso da sestine petrarchesche. Dunque un rimatore attratto soprattutto dal Dante petroso, ma che per i materiali lessicali e le tecniche di impianto si rifornisce anche alla bottega del Petrarca.
Che Segni inclinasse come rimatore per la tematica della sofferenza d’amore e la conseguente tecnica aspra ha un’incidenza anche nelle scelte dell’antologista. Sono almeno due i momenti in cui la raccolta rivela i gusti del suo compilatore. Il primo, più evidente, è l’inattesa presenza nel libro undicesimo di due sestine che lui dichiara essere state ritrovate in un «antichissimo testo» (De Robertis lo ha riconosciuto nel ms. Palatino 119 della Medicea Laurenziana, appartenuto proprio alla famiglia Segni). Le due sestine sono variazioni anonime di Al poco giorno, ne impiegano cioè la stessa serie di parole in fine di verso, proprio come avviene per 3 delle 10 sestine di Segni nel manoscritto Antinori. Il secondo è nella distinzione in due libri, diversamente dall’ordinamento canonico, delle canzoni distese di Dante, da un lato le amorose (tra cui le petrose), dall’altro le filosofiche: un modo per dare risalto alle sue preferenze di rimatore. Se così fosse, l’antologista metteva anche qualcosa di suo nel libro degli antichi poeti toscani, che però non era mera condiscendenza a un gusto passatista.
Il tema della sofferenza amorosa era stato riproposto autorevolmente in quegli anni dalla fortuna dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro. Che Segni guardasse a Sannazaro lo dimostra il fatto che si cimentò anche nell’egloga, dove si adombrò sotto il nome di Pardo.
A Segni si deve ascrivere infine un piccolo tentativo, senza alcun seguito, di riforma ortografica, proposto proprio nella Giuntina: l’uso degli accenti acuti e gravi non come segnalatori di raddoppiamento fonosintattico, con confusione fra questa funzione e quella della segnalazione della vocale tonica e del grado della loro apertura che la riforma grafica di Pietro Bembo e Aldo Manuzio aveva attribuito all’accento.
Fonti e Bibl.: I Sonetti di M. Benedetto Varchi novellamente messi in luce, in Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1555, p. 183; G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Firenze 1976, pp. LXXXVI-XCIII; Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, I, Introduzione e indici di D. De Robertis, Firenze 1977, pp. 23-27; B. Segni, Rime, a cura di R. Castagnola, Firenze 1991; N. Cannata Salamone, L’antologia e il canone: la Giuntina delle Rime Antiche (Firenze, 1527), in Critica del testo, II (1999), 1, pp. 221-247; A. Parenti, Acuti e gravi nella Giuntina di rime antiche, in Medioevo e Rinascimento, n.s., XXI (2010), pp. 311-336; P. Stoppelli, La Giuntina di rime antiche, in Antologie d’autore. La tradizione dei florilegi nella letteratura italiana, Atti del Convegno internazionale... 2014, a cura di E. Malato - A. Mazzucchi, Roma 2016, pp. 157-171.