BARDO
. Antico ordine di poeti cantori, che fiorì presso i popoli celti. S'accompagnavano, narra Diodoro (V, 31) "con uno strumento simile alla lira", cantando "ora canti di gloria, ora invettive"; e li ricorda anche Lucano (I, 447) nei noti versi: Vos quoque, qui fortes animas belloque peremptas, Laudibus in longum vates dimittitis aevum, Plurima securi fudistis carmina, bardi: motivi storici e leggendarî, questioni religiose, leggi, genealogie costituivano l'argomento del loro canto. Dalle Gallie disparvero dopo la conquista romana.
Sopravvissero invece nell'Irlanda, nella Scozia e nel Galles. Ma in Irlanda costituirono per secoli solamente una classe inferiore nella casta dei poeti, accanto alla classe superiore dei fili, rappresentanti dell'alta cultura, che non attendevano unicamente alla poesia, ma erano pure storici, eruditi, giudici, legislatori. Dopo l'invasione normanna, nel sec. XI, crollata la monarchia centrale e tramontata la potenza dei fili, i bardi restarono soli depositarî delle tradizioni nazionali. La loro professione era ereditaria; e nell'inverno, dal 25 settembre al 25 marzo, nelle capanne dei bardi più rinomati convenivano i giovani allievi da tutte le parti dell'isola per impararvi a un tempo la materia eroica e l'arte del canto. Anche nei tempi dell'oppressione straniera, vivo restò il loro spirito di fedeltà: vivevano presso le corti disperse dei capi del paese, di cui esaltavano i fasti e le imprese, e si sentivano ad essi legati: celebre fu, nel sec. XVII, la "contesa dei poeti", nella quale, per dieci anni, i bardi delle famiglie regnanti del sud fecero disputa di primato con i bardi delle famiglie regnanti del nord. E sostanzialmente analoghe furono le loro condizioni anche nella Scozia, che, legata per lungo tempo all'Irlanda dalle vicende della storia e da continui intimi rapporti, ebbe comuni con essa molte leggende e il culto della poesia: soltanto vi ebbero più rapida decadenza, riducendosi già nel sec. XV alla condizione di cantori vagabondi; tuttavia ancora nel sec. XVIII la tradizione non s'era spenta; e ad essa attinse il Macpherson nel comporre i suoi Canti di Ossian.
Al massimo prestigio i bardi assursero nel Galles. Vantavano come mitici capostipiti Taliessin e Merlino, e, per il loro sapere e per la libertà di parola di cui godevano, giunsero a così grande potenza che, nel sec. X, il re Hoswell ne codificò in norme precise i compiti e le prerogative. Erano suddivisi fra loro in classi diverse, a seconda della ricchezza degli argomenti e dei metri e a seconda dell'elevatezza del capo a cui erano addetti. Il bardo del re era ottavo funzionario a corte: aveva il suo posto d'onore nei banchetti, e la sua parte nei bottini di guerra: i suoi possessi erano esenti da tasse. Anche gli appartenenti a famiglia regnante non ne disdegnavano le funzioni. Dopo la sottomissione del Galles nel 1182, caddero in condizioni difficili; ma il persistere della loro influenza è dimostrato dal fatto che ancora nel 1403 Enrico IV si vedeva costretto a pubblicare un editto con il quale era fatto divieto ai bardi di soggiornare fra le popolazioni, particolarmente bellicose, del nord. Nel 1461, per mettere nuovo ordine nell'esercizio della professione troppo abbandonato a sé stesso, il poeta Llawdden convocò a Carmarthen nuovamente un'assemblea (eisteddfod, pl. eisteddfodan, "assemblea di uomini saggi", la cui istituzione risale al secolo VII); e dopo d'allora il titolo di bardo fu riservato a coloro che ne ottenevano ufficialmente l'approvazione: l'ultimo eisteddfod fu tenuto, pare, nel 1681. Ne venne più tardi ristabilita la consuetudine, con tutte le cerimonie tradizionali, al principio del sec. XIX, quando sorse in Inghilterra un vivo interesse per il folklore gallese.
Sebbene i mss. che possediamo non risalgano oltre il sec. XI, la storia di tutta questa poesia ci è ora sufficientemente nota (v. celtiche letterature).
Nulla a che fare con essa, se non - vagamente - nelle prime origini, ha tuttavia la letteraria "poesia bardita", che venne di moda in Europa nella seconda metà del sec. XVIII. Il primo stimolo fu dato dall'ode The bard (1757), in cui, riprendendo un'antica tradizione secondo la quale Edoardo I nell'occupare le regioni del Galles vi avrebbe fatto mettere tutti i bardi a morte, il Gray immagina che dall'alto di una rupe l'"ultimo bardo" scagli contro il re la "maledizione del cantore", predicendo tutte le sciagure che piomberanno sopra la sua discendenza; e, soprattutto, potentemente vi contribuì la vasta e profonda risonanza che ebbe in tutta Europa il Macpherson con i suoi "Canti di Ossian" (Fragments of ancient poetry, 1760; Fingal, an ancient poem, 1762; Temora, an epic poem, 1763). L'arbitraria interpretazione di un famoso passo di Tacito (Germania, cap. 3), nel quale si parla di canti di guerra "con la cui modulazione, chiamata bardito" (quorum relatu, quem barditum vocant), gli antichi Germani accendevano l'animo alla battaglia (anche senza ricorrere alla variante barritus, che s'incontra più volte in Ammiano Marcellino, ma è ignota ai manoscritti tacitiani migliori, il senso del testo appar chiarito dallo stesso Tacito quando descrive come i guerrieri cantavano "con le bocche appoggiate allo scudo" - in antico nordico lo scudo si chiamava borß, barßi, e in antico alto tedesco bort -) fece confondere le immagini del bardo celtico e dello scaldo scandinavo in una figura unica, esaltata come incarnazione pura dello spirito poetico dei Germani. La confusione si presenta anche in opere storiche del tempo, come nei Monuments de la mythologie et de la poeśie des Celtes et particulièrement des Anciens Scandinaves (1756; 2ª parte della Introduction à l'histoire de Dannemark, 1755) del ginevrino P. H. Mallet; e in Germania la poesia ne fu largamente dominata. Nella guerra dei Sette anni la Prussia di Federico il Grande veniva allora foggiando la nuova coscienza nazionale; e già nel 1758 il Lessing salutava come "nuovo bardo" il Gleim per i suoi Kriegs lieder eines preussischen Grenadiers; nel 1766 gli svaniti fantasmi della mitologia nordica venivano rievocati dal Gerstenberg nel Gedicht eines Skalden; infine il Klopstock, dopo averne attinto ispirazione, immagini e modi di stile per le sue odi, traeva dalla nuova maniera di poesia l'idea dei suoi Bardieten drammatici, in prosa intercalata di canti: Hermanns Schlacht (1769); Hermann und die Fürsten (1784); Hermanns Tod (1787). Poeti minori, come il Kretschmann e il Denis, si limitarono in seguito a chiedere a Ossian e alla Walhalla nuove immagini e nuovi colori per la loro vecchia retorica; ma la crescente attrattiva, che la "bella letteratura Alemanna" venne rapidamente acquistando in Europa, fece sì che presto sorgessero, fuori di Germania, più cospicui imitatori. Anche in Italia, dove già da tempo il Cesarotti aveva reso Ossian popolare nei versi sonanti della sua versione, l'imitazione ebbe presa; e nell'Arminio (1804) il Pindemonte circondò il suo eroe di bardi che ne cantano le imprese e ne piangono la morte: coraggiosamente il Monti, nel Bardo della selva Nera (1806), scoperse addirittura un ultimo bardo, Ullino, nei boschi della Germania dell'epoca napoleonica; ma le note di colore romantico pittoresco che sparse per il poema, e, più ancora, l'eleganza e la grazia di taluni squarci lirici, che vi inserì, gli ottennero il perdono dallo stesso Foscolo.
La concezione del poeta come profeta del suo popolo, che fu cara a tutti i romantici, mantenne a lungo viva l'immagine del bardo nella poesia per tutto il sec. XIX: e sé stesso "bardo inglese, opponeva il Byron ai "gazzettieri" della Edinburgh Review (The english Bard and the Edinburgher Reviewers); "bardo dell'indipendenza polacca" venne salutato in tutta Europa il Mickiewicz; di diventare il "bardo e profeta" di una nuova romantica e religiosa umanità si lusingava il Lamartine; "bardo dell'Itala gente" chiamava sé stesso il Prati. Con questo significato, e sempre con una leggera tinta romantica, la parola è così a poco a poco entrata nell'uso comune.
Bibl.: Per i bardi presso i popoli celtici, v. H. D'Arbois de Jubainville, Introduction à l'étude de la littérature celtique, Parigi 1883; G. Dottin, Les littératures celtiques, Parigi 1923. Per la poesia bardita in Germania, v. E. Ehrman, Die bardysche Lyrik in 19. Jahrhundert, Heidelberg 1892. e Cfr. inoltre R. Tombo, Ossian in Germany, New York 1901; P. van Tieghem, Ossian en France, Parigi 1917. Per la questione del barditus di Tacito, v. E. Norden, Die german. Urgesch. in der Germania des Tacitus, Lipsia 1920.