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BARLAAM e JOSAPHAT

di Uberto PESTALOZZA - Angelo MONTEVERDI - - Enciclopedia Italiana (1930)
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BARLAAM e JOSAPHAT

Uberto PESTALOZZA
Angelo MONTEVERDI

La vita dei santi Barlaam e Josaphat, cioè del pio eremita e del giovane principe, figlio del re pagano dell'India Abenner, che l'eremita converte alla rinunzia cristiana, ci è conservata in: a) tre redazioni arabiche; b) un rifacimento ebraico; c) una redazione georgiana; d) una redazione greca; e) due versioni latine dal testo greco.

Le tre redazioni arabiche sono rappresentate rispettivamente: α) dal cosiddetto testo di Bombay (Kitāb Balawhar wa Būdāsaf) colà pubblicato nel 1888-89; β) dal testo di Halle, pubblicato da F. Hommel nelle Verhandlungen des VII internationalen Orientalisten Congress (Vienna), Semit. Sect., pp. 115-165 e tradotta da E. Rehatsek, in Journal of the Royal Asiatic Society, 1890, pp. 119-155; γ) dal testo di Berlino di cui si conosce pure una versione persiana (Qiṣṣah-i Balawhar wa Yūzāsaf) intorno a cui v. F. Hommel, in N. Weissolovits, Prinz und Dervisch, Monaco 1890, pp. 129-178. Questi tre testi corrispondono probabilmente al Kitāb Balawhar wa Būdāsaf, al Kitāb Būdāsaf wa Balawhar e al Kitāb Būdāsaf mufrad, ricordati nel Kitāb al-Fihrist di Ibn an-Nadīm, pp. 119-163, 305. b) Il rifacimento ebraico è dovuto al rabbino spagnuolo Abraham Ben Samuel ha-Levi Ibn Chisdai (prima metà del sec. XIII) col titolo Ben hammelek wehannazy. Esso sostanzialmente concorda coi testi arabici e risale al medesimo originale. c) La redazione georgiana, Mudrost' Balavasa è pubblicata da N. Marr, in zapiski vostočnago otdelenija imperatorskago russkago archeologičeskago obščestva, III (1888), pp. 223-260. d) La redazione greca è in Patr. Gr., XCVI, 857 segg., tra le opere di Giovanni di Damasco mentre è dai più antichi codici attribuita a un Giovanni, monaco del convento di S. Saba a Gerusalemme; si ritiene che risalga al sec. VI. Giovanni ha poi inserito nel suo racconto, ponendolo in bocca al saggio Nachor un rifacimento greco dell'Apologia di Aristide. Del testo greco si possiedono rifacimenti in arabo, in etiopico, in armeno, in slavo ecclesiastico, in russo, in rumeno. e) Delle due versioni latine del testo greco per la prima v. sotto. Una seconda versione latina diretta dal greco fece il de Billy (Billius): S. Johannis Damasceni historia . . . . Ss. Barlaam . . . Josaphat . . . ., Parigi 1577.

Nel quadro di questo pio romanzo, scritto con commovente efficacia e destinato a dimostrare la verità della religione cristiana e a coltivare nelle anime le idee della rinunzia e dell'ascetismo, E. Laboulaye (in Journal des Débats, 26 luglio 1859) riconobbe per il primo il quadro stesso della storia del Buddha: le rivelazioni successive, che turbano il figlio di Abenner, non sono che i tre incontri con un infermo, con un vecchio, con un cadavere, che conducono Siddharta, il felice erede dello stato dei Sakya, alle meditazioni, da cui egli uscirà, sotto l'albero della Bodhi, come l'Illuminato. Fu quello il primo di una serie di studî che hanno chiarito l'origine e le vicende del romanzo, buddhistico non solo nel quadro, ma in molti episodî e nella maggior parte delle parabole.

L'esame dei nomi delle varie redazioni del romanzo ha dimostrato che la forma araba Būdāsaf (e Yūdāsaf, da quella derivata per facile confusione di punti diacritici), la forma georgiana Jodasañ, la forma greca 'Ιωάσαϕ (ΙΩΔΑΣΑΦ per errore dell'amanuense trascritto in ΙΩΑΑΣΑΦ) si riconducono, attraverso ad una trascrizione pahlāvica, a Bodhisattva; e che presuppongono una trascrizione pahlāvica anche il Zaudaia-Zadani del testo georgiano e il Ζαρδάν del testo greco che risalgono a Chandaka (il guidatore del cocchio del giovane Siddharta), nonché il Balawhar arabico e il Balavari georgiano, che riproducono il sanscrito Bhagavān (il Venerando) epiteto del Buddha. D'altra parte, la tradizione georgiana e la greca assegnano al romanzo un'origine palestinese e presuppongono perciò una redazione scritta in siriaco e nel dialetto cristiano della Palestina. E la forma greca Βάρλααμ si spiega appunto con l'influenza esercitata sul rifacitore greco dal vivo ricordo del martire siro Bârlahâ.

Patria del romanzo di Barlaam e Joasaf fu l'estrema parte orientale dell'impero Sasanide (Aracosia e Battriana) dove almeno dalla età di Aśoka (sec. III a. C.) il buddhismo hinayanico aveva cominciato a gettare le sue radici, e dove la propaganda buddhistica si andò facendo sempre più viva, dopo la conversione di Kaniṣka il celebre re della dinastia dei Kushan, di cui è nota l'importanza nella storia del Buddhismo.

In questa stessa regione il mazdeismo, come religione di stato, il buddhismo, che aveva varcato l'Indo assai prima che la religione di Zarathustra divenisse religione di stato per opera dei re Sasanidi, e il cristianesimo, che possedeva una propria letteratura in pahlāvico si contendevano il dominio delle anime. I buddhisti della Battriana avevano compilato in pahlāvico un Libro di Būdāsaf. Un cristiano di questa regione ebbe l'idea, nel corso del sec. VI, di trar profitto per la sua religione da una così commovente ed edificante storia e dalle parabole, che conferivano tanto fascino alla predicazione buddhista. Ma poiché il Būdāsaf cristiano non poteva, come il Bodhisattva, arrivare da solo alla conoscenza della verità fu necessario introdurre nella storia uno strumento divino della conversione sotto le spoglie del bhikṣu Balauhar (Balevari, Βάρλααμ), il quale altro non è poi che uno sdoppiamento del Buddha. E col monaco entrò in essa, tra gli apologhi indiani, la bella parabola evangelica del seminatore. Il libro, scritto in pahlāvico, fu ben presto tradotto in siriaco, e tale redazione servì di base alla versione georgiana, generalmente fedele, ed al rifacimento greco di Giovanni; il quale si limitò ad apportarvi alcune modificazioni, ma diede grande sviluppo agli argomenti dogmatici e vi fece pur entrare l'eco delle discussioni teologiche del suo tempo. Lo stesso testo pahlāvico, tradotto in arabo, sedusse i Musulmani e gli Ebrei, e gli uni e gli altri lo adattarono alle loro credenze: impresa non difficile, in quanto la storia di Būdāsaf non era che superficialmente cristianizzata. Ciò ch'essa conteneva in più della leggenda buddhista, era soprattutto una critica del politeismo. Il racconto buddhistico fu utilizzato anche dai manichei orientali a cui doveva essere particolarmente accetto, come dimostra un frammento in turco uigurico, scoperto tra le rovine di Idiqut Schähri (Tūrfān; cfr. von Le Coq, in Sitzungsber. der Preuss. Akad. der Wissensch., II, 1909, pp. 1204-5, e 1208-11). Intorno all'ipotesi d'un prototipo manicheo, anziché cristiano, redatto originariamente in sogdiano e di cui il frammento scoperto sarebbe una traduzione ad uso dei Turchi uigurici convertiti al manicheismo, cfr. op. cit., p. 1205, in nota; F.C. Burkitt, The religion of the Manichees, Cambridge 1925, pp. 97-98; S. Lévy, L'Inde et le monde, Parigi 1926, pp. 46-47.

Nei menologi della Chiesa greca dopo il sec. X, Ioasaf è ricordato il 26 di agosto; nel Martirologio romano (per tacere di cataloghi più antichi) al 27 di novembre. Reliquie di S. Josaphat (os et pars spinae dorsi) già in possesso della Repubblica veneta durante il sec. XVI, passarono poi a Lisbona e di là, ad Anversa nel convento di S. Salvatore; L. Yule (Marco Polo, II, 2ª ed., Londra 1875, p. 308) menziona una chiesa in Palermo consacrata a S. Josaphat; ed un Mar Josaphat, martire, è ricordato tra i settantadue discepoli di Eugenio, preteso fondatore del monachismo in Persia (Labourt, Le christianisme dans l'Empire perse, Parigi 1904, p. 310, n. 4).

Bibl.: L'opera fondamentale è quella di E. Kuhn, B. und Joasaph, Monaco 1894. V. inoltre: Liebrecht, Die Quellen des Barlaam und Josaphat, in Jahrbuch für roman. und engl. Literatur, II (1860), pp. 313-334; Zotenberg, Notice sur le livre de Barlaam et Joasaph, Parigi 1886; Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 1912, pp. 228-230, 246; J. Jacobs, Barlaam and Josaphat, Londra 1896; K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Literatur, Monaco 1897, pp. 886-891; S. P. Warren, De grieksch christelijke roman Barlaam en Joasef en zijne parabels, Rotterdam 1899; G. Paris, Poèmes et légendes du Moyen-âge, Parigi 1900, pp. 181-214; Analecta Bollandiana, XXII (1903), p. 131; P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, Parigi 1907; O. Bardenhewer, Geschichte der altikirchlichen Literatur, III, Friburgo in B. 1912, p. 76; G. A. v. der Bergh v. Eysinga, Indische Einflüsse auf evangelische Erzählungen, Gottinga 1909, pp. 102-103; R. Gerbe, Indien und das Christentum, Tubinga 1914, p. 80 segg.; A. S. Geden, in Hastings, Encyclopaedia for Religion and Ethics, VII, Edimburgo 1914, pp. 567-569; H. Haas; Buddha in der abendländischen Legenda, 1923, pp. 31 segg.

La tradizione occidentale della leggenda. - In occidente le varie e numerose versioni della leggenda dipendono tutte (ad eccezione di una sola) da un unico testo latino, ch'è la traduzione un po' abbreviata del testo greco. L'eccezione è rappresentata da una versione francese, tratta direttamente dal testo greco (cosa, nel Medioevo, più unica che rara, e perciò degna di nota) per opera d'uno sconosciuto vivente in Grecia nella prima metà del sec. XIII. Quanto al testo latino, i più antichi manoscritti che lo contengono risalgono al sec. XII; ma non è detto ch'esso non sia stato composto anteriormente. D'altra parte la vecchia opinione che l'attribuiva ad Anastasio Bibliotecario (v.) non si fonda su alcuna prova. Certo è che, a partire dal sec. XIII, la leggenda è diffusa in tutto l'occidente e vi gode di unanime favore. Vincenzo da Beauvais l'accoglie nel suo Speculum historiale, Jacopo da Varazze nella sua Legenda aurea. Tanti e tanti altri la traducono in prosa italiana, francese, provenzale, spagnola, portoghese, tedesca, inglese, norvegese, irlandese. Parecchie le elaborazioni poetiche. Nel sec. XIII l'anglonormanno Chardry, poi Gui de Cambrai ed uno sconosciuto la mettono in versi francesi, il primo semplicemente e brevemente, il secondo diffusamente e vivacemente, il terzo prolissamente e goffamente. Nel sec. XIV un altro ignoto ne trae un piccolo dramma, ch'entra a far parte del ciclo dei Miracles de Nostre Dame. Nel sec. XV Jean du Prier ne trae un vasto e macchinoso "mistero". In Germania, poco dopo il 1220, Rudolf von Ems ne fa un ben costrutto poema, con il quale mal rivaleggiano due altri poemi anonimi. In Spagna la leggenda finisce per capitare nelle mani di un grande poeta, Lope de Vega, che ne fa un dramma ineguale ma a tratti mirabile (Barlan y Josafá) ove all'elemento tradizionale liberamente si mescola l'elemento fantastico. In Italia, dove le versioni prosastiche si riconducono tutte a due antichi testi fondamentali, l'uno abbastanza ampio, l'altro fortemente abbreviato, non mancano né i poemi né i drammi. Tra i primi si può ricordare quello che fu scritto da un amico e discepolo di S. Caterina, il senese Neri di Landoccio Pagliaresi. Tra i secondi, la sacra rappresentazione composta da Bernardo Pulci; e un "maggio" che ha tenuto viva la leggenda sino ai nostri tempi nel contado toscano.

Bibl.: Cfr. E. Kuhn, Barl. u. Joasaph, in Abhandl. d. k. bayer. Akad. d. Wissensch., philos-philol. Klasse, XX (1897), p. 53 segg.

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