Barocco
Fino alla metà del Novecento il concetto di B. applicato al campo letterario appariva in modo saltuario e sporadico, poiché era un termine usato per indicare più genericamente l'intero periodo storico del Seicento o quanto meno l'ambito della storia dell'arte, da cui aveva avuto origine. La letteratura era comunemente trattata nell'ambito del Secentismo, termine inteso come sinonimo di concettismo e di artificiosità, e come tale connotato da un'accezione negativa. M. Praz (1936) ne tentò una debole difesa osservando che, se le arguzie e le freddure escogitate nel Seicento costituivano un'"aberrazione del gusto" (p. 274), nondimeno era dal terreno comune di quelle stravaganze che fiorirono anche innegabili capolavori. Tuttavia, ancora a metà Novecento il Secentismo appariva "il volto minore e stanco, la voce evasiva, imitativa, vuota" (L. Anceschi, L'idea del Barocco, Bologna 1984, p. 93), pertinente alla letteratura, mentre, con l'acquisizione di un valore addirittura opposto, nel B. si cominciava a riconoscere, ma sempre con riferimento prevalente all'arte, "il grande stile del secolo" (p. 93).
Comunque, che il B. fosse l'espressione di una grave decadenza della cultura fu una tesi condivisa all'unanimità per tre secoli, su cui vennero a convergere esponenti delle ideologie più diverse, dai classicisti di Arcadia al gesuita Tiraboschi, dagli Illuministi ai Romantici del Risorgimento, fino a B. Croce, di cui sono note le condanne sommarie, per quanto non sia da dimenticare che, se per un verso tacciava di "decadenza" e "perversione artistica" la cultura barocca, per un altro la filologia del bibliofilo amante dell'inedito e del raro riportava alla luce testi sconosciuti nella convinzione storicistica che ogni epoca, quand'anche segnata da forti limiti spirituali, morali ed estetici, non poteva risultare totalmente priva di valori positivi. A essere salvati furono però coloro che sembravano indenni dalla corruzione barocca, pur appartenendo cronologicamente a quel periodo, come G. Galilei, T. Campanella e altri scienziati e filosofi. La situazione cominciò a cambiare quando, indebolendosi il magistero crociano, non ci si limitò più a denunciare l'assurdità di certi esiti letterari ma ci si sforzò di capire le cause che li avevano provocati. Tra i primi fu C. Calcaterra (1884-1952), di formazione cattolica, il quale intese motivare le forme letterarie del B. con i nuovi modi di immaginare e di esprimere. In questo modo le eccentricità, lungi dall'essere il prodotto insensato di cervelli oziosi, sarebbero state la conseguenza stilistica di una gnoseologia e di una configurazione mentale le cui cause erano da rintracciare nella crisi dell'uomo del Seicento, ormai privo delle antiche e rassicuranti certezze della cosmologia aristotelica in tempi in cui il pensiero moderno non era ancora riuscito a imporsi.
L'attività critica della seconda metà del Novecento ha privilegiato la lezione di G. Getto (1913-2002). Il suo metodo, nel connettere la produzione artistica alle cause spirituali, alla nuova filosofia, alla religione della Riforma cattolica, alla scienza copernicana, ha delineato una fenomenologia più libera e spregiudicata che discuteva della lirica, del teatro, del romanzo, della novella, della fiaba, della letteratura scientifica, con una scelta di generi che a posteriori, nel volgersi a forme poco considerate, sembrava indicare la via giusta da percorrere. Non si poteva infatti ignorare la forza pervasiva del romanzo barocco, di cui nel Seicento si sono contate quasi novecento edizioni solo in Italia, spesso sensibili anche al problema dello stile e della letterarietà, oltre che dell'intrattenimento. E non si poteva fingere che dopo G. Boccaccio la novella non fosse più stata degna di considerazione, quando invece proprio nel Seicento il genere era proliferato, spesso con intenti agonistici verso l'ingombrante archetipo del Decameron. Senza indulgere a polemiche esplicite contro la lettura di Croce, Getto se ne distanziò nei fatti, rinunciando a facili schematismi, superati mediante la sperimentazione di percorsi autonomi innovativi.
Per dotare il B. di una nuova veste, Getto in primo luogo unì le competenze del critico con le risorse del filologo e dell'esegeta, riscoprendo e ripubblicando testi dimenticati del Seicento, resi più accessibili da un commento che ne chiarisse la struttura, i temi, il linguaggio. Sotto uno sguardo più attento, il B. gli si presentò tutt'altro che povero, con la pluralità di una "gamma infinitamente varia di sentimenti e di espressioni" (Getto 2000, p. 427) che, nello smentire significati univoci, vietavano che si potesse pronunciare "un giudizio assoluto di decadenza indiscriminata" (p. 427). Getto, attraverso le indagini sulla letteratura, seppe cogliere nella cultura barocca la nuova visione del mondo, la ricchezza della varietà prospettica, il senso dell'illusorietà dello spazio e del tempo, il relativismo con la conseguente perdita del centro, cui corrisponde per reazione il gusto del catalogo, dell'inventario del mondo, lo sforzo di fissare la realtà entro leggi definite. Anziché denunciare nel B. la perdita della serena armonia rinascimentale, il critico sottolinea l'emergere della coscienza di una concezione nuova del reale, di una superiorità dei moderni sugli antichi verso cui si nutre un senso di insoddisfazione e di inadeguatezza che induce per reazione a cercare la novità a tutti i costi. La meraviglia allora, che tanto ha pesato nelle condanne passate del B., trova una sua plausibile spiegazione psicologica in quanto conseguenza "del rivelarsi di un profilo sconosciuto e insospettato dell'essere, infinitamente vario e mutevole" (p. 428).
Quasi parallelamente, nel versante della storia dell'arte, G.C. Argan (1909-1992) individua nel B. il momento aurorale della moderna civiltà delle immagini, sottoposte a torsioni e ad avvitamenti per conferire anche al marmo o alle superfici dei quadri quell'illusione della mobilità che costituisce un connotato di questa concezione artistica. Pur se l'arte italiana, e soprattutto quella di Roma, fu determinata dalla politica culturale della Chiesa, Argan supera l'equazione che ne fa lo strumento reazionario della Controriforma, dal momento che il suo ruolo agì anche in senso creativo, andando oltre la semplice e repressiva opposizione alla Riforma protestante, attraverso l'impiego delle prodigiose capacità tecniche possedute dagli artisti di cui si servì, G.L. Bernini e F. Borromini in primo luogo.
Questo tentativo di saldare la cultura barocca a un senso profondo della storia sociale è ancora più evidente nei lavori di J.A. Maravall (1911-1986), uno storico che ha fornito il ritratto corposo di una tangibile e drammatica realtà che fa giustizia di quanti hanno voluto intendere la cultura barocca secondo una figura interpretativa preordinata e astratta, irrigidita nell'impalcatura di univoche certezze totalitarie. Il risultato è un quadro del B. dinamico, aperto a tutti i suoi aspetti multipli, senza che una componente oscuri l'altra per rispettare un'inverosimile legge di coerenza. Non per nulla i sondaggi di Maravall trascendono sempre la sfera puramente estetica, perché si confrontano costantemente con la dimensione storica entro cui si situano le vicende artistiche. Da una storia delle idee e del pensiero, politico e letterario soprattutto, si approda così a una storia della mentalità, degli atteggiamenti intellettuali e artistici dei diversi gruppi sociali, facendo interagire l'economia con la psicologia di massa, l'antropologia con la linguistica, messe al servizio di un'ermeneutica dei tanti riti collettivi tipici del B., quali le feste, il gioco, le processioni, le viae crucis, gli autodafé, gli spettacoli.
Mettendo in rapporto i mutamenti d'abitudine, di gusto, di scrittura e di pensiero degli scrittori con le vicende della politica, con le trasformazioni della sensibilità religiosa, con l'evoluzione della vita sociale, come in Italia aveva auspicato E. Raimondi, Maravall inquadra il fenomeno del B. entro una vera e propria civiltà di massa, in presenza di Stati assoluti che avevano bisogno di elaborare e di sfruttare una cultura in cui fossero preponderanti "gli elementi di attrazione, di persuasione, di compromesso col sistema" (Maravall 1999, p. 63), con i quali penetrare le coscienze dei sudditi, controllarne la psicologia e rafforzarne la devozione e il rispetto dell'autorità. Nel vuoto di credenze, nel dubbio che investe il paradigma rinascimentale ormai obsoleto, la retorica, arte o tecnica deputata per statuto a rendere persuasivi enunciati non veri ma solo probabili, assurge a disciplina che si applica a ogni ramo del sapere, tanto più che la ricerca, la discussione e la sistemazione dei nuovi valori avvengono entro una dimensione pubblica, con la cultura che si risolve in socialità.
L'arte della persuasione appare lo specchio più autentico dell'ethos aristocratico barocco, protagonista che modernizza la cultura in vista, paradossalmente, della conservazione autoritaria dei propri privilegi. Soltanto un approccio sociologico poteva sciogliere la contraddizione di una poetica del nuovo incoraggiata da un potere politico che perseguiva la propria conservazione. A compensare l'assolutismo politico e l'immobilismo sociale, filosofico, religioso, morale, giuridico, tecnologico, a bilanciare le persecuzioni contro le forze devianti, si provvide incentivando ribellioni artistiche e letterarie contro Aristotele; per risarcire gli ostacoli interposti ai tentativi di ascesa sociale si consentirono il pastiche letterario al limite della stramberia, la contaminazione degli stili nonché la sperimentazione dei generi misti. Le potenziali fonti di turbativa e di inquietudine, convogliate in ambito letterario e artistico, si trasformarono in eventi ludici e spettacolari, caratteristici di una civiltà concentrata soprattutto nelle grandi città. Nel cogliere l'interazione di sopravvivenze e innovazioni, Maravall ha insistito sulle cause di modernizzazione, perché queste, secondo il suo giudizio, determinarono alla fine la fisionomia peculiare dell'epoca. E nel Seicento i segni di modernità erano tanti: l'emergere di una civiltà delle immagini, le prime esplorazioni di una psicologia delle masse, l'introspezione dei grandi moralisti, l'alienazione della vita cittadina, il Kitsch, i mass media.
Mentre Croce, per contrapporre all'Europa l'arretramento di una nazione che non aveva conosciuto la Riforma protestante, aveva fatto del B. un fenomeno tutto italiano, per Maravall le manifestazioni culturali di quest'epoca si erano sviluppate per via poligenetica in tutti gli Stati dell'Europa occidentale, coinvolti in una situazione storica dai caratteri affini, estesi anche ai Paesi protestanti. Per demistificare gli stereotipi dei nazionalismi ottocenteschi, è costante nei suoi lavori il nesso tra la storia spagnola e la storia europea, superando il rischio della frammentazione dei dati attraverso una visione complessiva e insieme profonda, senza però sbrigative generalizzazioni. Con l'estensione delle coordinate, con la combinazione di uno sguardo molto ravvicinato sulla natura stilistica di un testo e la sua più estesa portata culturale, la realtà letteraria si sottrae alle conclusioni troppo anguste in senso provinciale. È quanto avviene anche nell'opera critica di G. Pozzi (1923-2002), lo studioso ticinese cui si deve una nuova interpretazione (1976) dell'Adone di G. Marino, il poema a lungo considerato l'esempio più tipico del cattivo gusto barocco. Sotto la sua lente emerge la lucidità politica di un virtuoso che, senza derogare alla sua rara perizia verbale, emette un giudizio politico sull'Italia e insieme sulla Francia del suo tempo, l'una dedita alle arti, alla filosofia, alle lettere, l'altra alla politica e alle glorie militari.
Lungi dall'essere un interminabile repertorio di freddure e concetti di scarso valore, l'Adone risulta dunque un'opera che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un poema epico, inneggia alla pace e alla contemplazione, privo di eroi guerrieri e di gloriose battaglie. L'interpretazione ne esce rivoluzionata, perché alla denuncia dello sfoggio di un virtuosismo artificioso, vuoto e sensuale, subentra la scoperta di un messaggio pacifista che per reazione bene si spiega, come auspicio ottativo, nel clima della guerra dei Trent'anni che stava insanguinando l'Europa, accompagnata da una pestilenza e da una carestia non meno tragiche. Ricollegando la pagina mariniana ai contesti della storia culturale, Pozzi ne rivaluta la consistenza artistica, facendola risaltare con gli strumenti rigorosi della filologia congiunti all'analisi linguistica, stilistica, tematica e strutturale. Con questa procedura lo studioso recupera zone di cultura secentesca oscurate per secoli dalle pesanti prevenzioni di una critica ostile. Influenzato dal metodo della scuola ginevrina di F. de Saussure, egli rapporta la lingua individuale degli scrittori alle costanti delle forme e dei contenuti, ai topoi insomma, in funzione di una ricerca di tipo tematico che fa risaltare per un verso la continuità di una tradizione letteraria e per un altro l'attitudine sperimentale e d'avanguardia della generazione barocca. Questa dialettica emerge soprattutto nel campo più ludico e artificioso dei technopaegnia, ossia della poesia composta da versi di lunghezza diversa, che si alternano in modo da ottenere il profilo di una figura, antesignana di quelle forme che nel Novecento Apollinaire avrebbe chiamato calligrammi. Grazie alla sua perizia figurativa applicata all'iconologia, di cui ha compreso i risvolti etici, didattici, religiosi e non solo ludici e spettacolari, Pozzi restituisce ai carmi figurati l'originaria tensione e vertigine espressiva che vanno molto al di là del puro divertissement. Gioco e arte non si escludono più a vicenda, ma solleticano la curiosità e la sorpresa, rivestendosi a volte di motivazioni esoteriche, sempre all'incrocio tutt'altro che futile di ordine e disordine, di cosmo e caos, tra esibizione e occultamento. Si tratta di un territorio completamente dimenticato, fatto riemergere solo alla fine del 20° sec. dal letargo delle biblioteche secentesche.
Lo stesso si può dire per l'ampio settore della predicazione, invero trattato anche in tempi meno recenti, ma con prospettive inadeguate e applicate a pochissimi esempi, quasi mai estesi oltre i nomi prevedibili di F. Panigarola o di P. Segneri. Pozzi, invece, inaugurando idealmente un interesse che si è poi tradotto in edizioni di trattati teorici e di prediche, ha compiuto una ricognizione molto più capillare dell'eloquenza sacra e dei libri di preghiera, consentendo distinzioni sempre più calibrate, come quelle tra le prediche urbane, più elaborate, e le prediche rurali delle missioni, più semplici. E, quel che più conta, si è mosso guidato dal principio euristico che distingue le prediche effettivamente declamate dal pulpito da quelle raccolte a stampa che appartengono piuttosto all'oratoria accademica, molto diversa dalle versioni orali (comunque annesse alla letteratura), aprendo un nuovo e collaterale fronte di interessi, quello della mnemotecnica, ossia l'insieme degli espedienti con cui acquisire una portentosa memoria artificiale.
Sempre sul versante della letteratura religiosa Pozzi ha inoltre inserito tra gli esiti più elevati i testi delle scrittrici mistiche, riscoprendo un genere molto frequentato nel Seicento, quanto mai attraente in un secolo ossessionato dalla ricerca dell'Assoluto, un limite estremo che ha ispirato nelle donne visionarie un linguaggio tumultuoso, proteso verso il sublime, trasgressivo e aggrovigliato, incline all'ossimoro e alla tautologia.
La predicazione e il pensiero mistico sono i due poli intorno a cui ruotano anche le anatomie secentesche del francese M. Fumaroli (n. 1932), che in volumi fondamentali degli anni Ottanta del 20° sec. si è occupato sia della civiltà della conversazione e dell'eloquenza pubblica, sia dell'approfondimento dell'interiorità, del raccoglimento e della meditazione, sull'abbrivo della fortuna della morale neostoica rilanciata nel Seicento da G. Lipsio, che le impresse una forte curvatura in senso cristiano. Essendo il Seicento il secolo della civiltà della parola e del diffuso, quasi ossessivo, sentimento religioso, per Fumaroli le arti e le lettere, per essere correttamente intese, richiedono di essere lette attraverso il filtro di buone conoscenze teologiche e di un solido possesso del codice retorico. Dal momento che la nozione di B. è stata impiegata, almeno da H. Wölfflin in poi, come categoria metafisica e atemporale, come costante dell'animo umano in dialettica con il concetto antitetico di Classico, Fumaroli sostituisce a questa etichetta astratta e retrospettiva, mai impiegata nel linguaggio degli artisti, degli scrittori e dei critici del Seicento, la definizione di Âge de l'éloquence, che è poi il titolo di un suo volume del 1980. In questa formula, che insiste sulla centralità della retorica, è implicita la polemica contro l'anacronismo di chi oggi interpreta quel secolo con i parametri dell'estetica, della poetica o della critica letteraria, dimenticando che tutte queste sono filiazioni più tarde dell'arte sermocinale. In quella che è appunto "l'età dell'eloquenza", la poesia e la narrativa costituivano, nell'enciclopedia del sapere, solo un'appendice laterale in un contesto in cui i protagonisti erano gli sçavans, ossia gli eruditi.
Per dimostrare questo rovesciamento delle gerarchie, Fumaroli ha condotto un faticoso lavoro di scavo su una bibliografia forse mai prima utilizzata, quasi tutta neolatina, di eruditi oggi dimenticati, lungo strade poco battute, quelle dell'oratoria sacra e dell'eloquenza civile, insieme con la frequentazione dei trattati di retorica, costituenti l'ossatura del codice comunicativo della République des Lettres, in connessione con una società in cui gli intellettuali fondavano la loro stessa ragione di esistere sul dialogo e sulla conversazione. Tuttavia, bisogna sottolineare che gli obiettivi non erano meramente accademici, indirizzati piuttosto all'utilità pubblica, politica e religiosa, con l'uomo di cultura inserito nella pienezza di una vita sociale nella quale la padronanza della retorica equivaleva non al possesso di un sistema, ma a un'esperienza vissuta della parola persuasiva.
Per tale motivo l'attenzione di Fumaroli si appunta di preferenza sulle istituzioni, organismi dove gli uomini, senza ripudiare la loro singolarità, potevano pensare sé stessi nella logica di una civile conversazione condivisa entro una comunità. Lo studio del B. diventa in questo modo un'articolata mappa europea del potere e dei centri culturali, tra cui, accanto alle corti, assumevano sempre più rilievo le accademie. E mentre un tempo si prendevano in considerazione solo quelle scientifiche dei Lincei e del Cimento, liquidando le altre come palestre di sfaccendati parassiti, ora si attribuisce la loro fondazione all'esigenza dei letterati di conoscersi e di ritrovarsi al di fuori della corte o dell'università, per ricercare in uno spazio neutrale unà smarrita di soggetti autonomi, sciolti, almeno in apparenza, dai vincoli del potere politico e religioso.
Come è intuibile, le indagini attuali sul B. mostrano che la sua cultura non si riduceva alla stravaganza, alla ricerca spasmodica della meraviglia o al concettismo, anche se quest'ultimo rimane un canone centrale, situandosi alla radice del culto per la metafora, da intendersi non più come un frivolo passatempo alla ricerca di bizzarri accostamenti, ma come "lo specchio di una visione della vita" (Getto 2000, p. 427) che, nello sfaldarsi di sicuri riferimenti gnoseologici, anela a cercare unità e convergenza, dinamismo e scambio tra le cose. L'esercizio dell'ingegno va però supportato da una sostanza etica e dalla celebrazione dei valori senza i quali rimarrebbe solo vuota frivolezza. Con l'approfondimento degli studi più recenti si è accresciuto il paradigma della complessità, conseguenza dell'ibridazione, della frammentazione, dell'impurità di un sapere straordinariamente inclusivo che ammette per statuto perfino le contraddizioni, come dimostrato dal rilievo assegnato ai procedimenti allegorici, con cui una cosa può significarne una diversa, secondo la tecnica, molto frequentata nel Seicento, dell'anamorfosi.
Se c'è un periodo impossibile da compendiare in una formula univoca, questo è il B., ribelle alla definizione e alla delimitazione. Senza che si possa legittimamente sperare in una loro conciliazione, nel suo mondo agiscono fianco a fianco le opposte vocazioni del disordine che cerca la via dell'ordine, dell'inganno che non si rassegna a rinunciare alla verità, del metamorfico che aspira a un approdo immutabile, della follia che racchiude il massimo della saggezza, dell'amore per la vita suggestionato dall'istinto di morte, dell'orgoglio dei tempi nuovi che però subiscono il fascino dell'antico, del senso di senescenza che si traduce in un giovanile vitalismo, della denuncia etica e religiosa delle lacerazioni del mondo in nome di una pacificazione universale, dell'indugio quasi morboso sui mali morali e politici che si vorrebbero annullare nell'utopia di una società perfetta, dell'inedita percezione dell'infinità dell'universo che trae dalla conseguente insignificanza dell'uomo motivo per celebrarne la grandezza.
A questa realtà multiforme si è giunti grazie a un paziente lavoro ecdotico della filologia, che ha reso disponibile un numero sempre maggiore di testi in grado di sovvertire i giudizi formulati un tempo dalla critica. Con le ultime acquisizioni non si può più ritenere, come Croce, che il Seicento sia un'"età di depressione spirituale e di aridità creativa" (B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, 19574, p. 505), specie se si tiene conto che il concetto di letteratura è oggi mutato, non essendo più intesa in un'accezione umanistica, ma piuttosto in un'accezione antropologica, pronta ad accogliere anche opere non strettamente letterarie e non più votate esclusivamente a modelli di stile, quanto a valori di natura morale, civile, sociale legati alle istituzioni. Le edizioni dei carteggi, la trattatistica di poetica e retorica, le scritture tecniche, le enciclopedie inclusive, del tutto diverse da quelle selettive derivate dall'impresa settecentesca di Diderot e D'Alembert, i testi di oratoria sacra e profana, i repertori sull'arte della memoria e quelli di iconologia, che hanno dato nuovo impulso alle riflessioni su imprese ed emblemi dopo le pionieristiche ricognizioni di M. Praz, gli inventari delle biblioteche private, i cataloghi degli editori e i documenti che chiariscono i rapporti tra questi e i letterati hanno aggiunto nuovi dati in grado di mutare radicalmente il ritratto di una civiltà in realtà sedotta dal fascino del collezionismo, dietro la spinta dell'inquietudine del possesso e dell'horror vacui.
Anche se permangono le passate valutazioni riduttive nel fisiologico décalage dei manuali scolastici, le ricerche di prima mano condotte dagli studiosi sopra citati, insieme con quelle di alcuni altri (fra cui G. Morpurgo-Tagliabue, J. Rousset, P. Bénichou, V.-L. Tapié, E. Raimondi, F. Croce, E. Orozco Díaz, Ch. Buci-Glucksmann, C. Ossola, A. Quondam), non accettano più che il B. sia considerato un'età di decadenza, nemmeno in campo economico, come ha persuasivamente dimostrato F. Braudel (1902-1985), lo storico della scuola delle "Annales", con cui si è trovato subito d'accordo anche Fumaroli. D'altro canto, benché improduttivi, non si potrebbero spiegare altrimenti l'opulenza e il lusso di tante testimonianze del Barocco. Le prime a essere state riabilitate sono le arti e la musica; più tenaci sono le remore verso la letteratura, che tuttavia alla fine del Novecento sono diventate meno pervicaci per l'incalzare di due argomentazioni in apparenza opposte: la compresenza del Classicismo e il ruolo della Chiesa cattolica.
È noto che le censure al B. si fondavano su parametri che, rimpiangendo l'armonia e la perfezione del Rinascimento, lo consideravano la sua antitetica degenerazione. D'altro canto tutti coloro che ragionavano con principi metastorici, individuavano nella cultura occidentale un continuo alternarsi di periodi di B. (o Manierismo) e di Classicismo. Ebbene, agli inizi del 21º sec. ci si sta rendendo conto, sia pure senza piena unanimità da parte della critica, che tra questi due aspetti non esiste una vera soluzione di continuità. Addirittura, come vuole Quondam, il B. sarebbe una "variabile […] della lunga durata del Classicismo di Antico regime" (A. Quondam, Il Barocco e la letteratura, in I capricci di Proteo, Roma 2002, p. 165). Se dunque le componenti classicistiche risultano una parte integrante del B., non lo si può più accusare di averle escluse dal suo canone. E in effetti, se si pensa al circolo culturale promosso da M. Barberini prima di diventare papa con il nome di Urbano viii, non vi è dubbio che nella Roma di primo Seicento vigeva un programma contrapposto alle intemperanze della scuola marinista, perseguito con una poesia improntata a serietà morale e a disciplina formale aliena dalla lussuria stilistica e dai contenuti sensuali, da riscattare con una produzione devota ed edificante. D'altro canto è ciò che è avvenuto nel campo artistico, dove da tempo si è riscontrata la presenza di un "Classicismo interno alla poetica del filone 'barocco'" (M. Fagiolo, L'architettura barocca, in I capricci di Proteo, 2002, p. 613).
I trattatisti del Seicento, dal canto loro, si preoccupano di invocare il principio classicistico del "decoro", cioè della "convenienza", appellandosi al "giudizio" come a quella facoltà deputata a contenere le intemperanze dell'"ingegno". Vero è, tuttavia, che, se non esiste un'autentica rottura con il Classicismo, proprio l'insistenza sull'esercizio dell'ingegno, che è pur sempre una categoria aristotelica, denuncia al tempo stesso l'intento di differenziarsi - con la strenua ricerca di connessioni estreme tra concetti semanticamente molto distanti tra loro - dal più misurato Rinascimento. Con ciò si rende esplicita l'ansia di innovazione che proietta il B. verso gli orizzonti della modernità, lungo un percorso nel quale, anche per i segni di malessere e di nevrosi che lo pervadono, si intravedono già le lontane origini della nostra sensibilità di uomini del 21° secolo. Ne sono conferma l'attrazione che le avanguardie, da Ch. Baudelaire ai surrealisti, ebbero per il Seicento e la proposta che alcuni critici hanno avanzato di denominare Neobarocca la presente età.
Per il pensiero laico e risorgimentale, se mai nel Seicento ci furono i prodromi della modernità, li si sarebbe dovuti riconoscere nei Paesi in cui si attuò la Riforma protestante, verso cui gli intellettuali dei Paesi cattolici provavano una sorta di invidia, dal momento che la maggiore responsabilità della 'decadenza' era per loro imputabile alla Controriforma. Oggi che questo termine è, a detta di Maravall, insostenibile, tale dicotomia è venuta meno, dopo che perfino studiosi marxisti hanno assegnato un ruolo positivo alla Chiesa nel suo tentativo di saldare la cultura delle classi dominanti a quella delle classi subalterne. Se, come si è visto, il B. è fenomeno di massa, lo si deve alla Chiesa, e soprattutto all'azione propagandistica di letterati e artisti che operarono al suo servizio. E in senso elitario, in vista della formazione della classe dirigente, ha acquistato un peso rilevante il ruolo educativo della Compagnia di Gesù, indagata sempre più a fondo, specie per i risultati raggiunti nei campi della pedagogia, della retorica, del teatro e, perfino, delle scienze della natura.
Per un verso le tragedie prese in seria considerazione non sono più solo quelle di un F. Della Valle o di un C. de' Dottori, ma anche quelle dei gesuiti E. Tesauro (prima ricordato solo per il Cannocchiale aristotelico) o B. Stefonio, insieme con la ricostruzione delle tecniche di recitazione, ossia dell'actio e della pronuntiatio trasmesse dalla retorica; per un altro verso G. Galilei e la sua scuola non sono più, in quanto vittoriosi nell'imporre il nuovo paradigma copernicano, le sole voci della scienza secentesca oggi ricordate, ma, a rendere più autentico il conflitto tra le diverse visioni cosmologiche, diventano degni di analoga considerazione i loro avversari, ossia scienziati gesuiti quali G.B. Riccioli, F.M. Grimaldi, F. Lana Terzi, molto più agguerriti, nonostante la fedeltà al sistema aristotelico-tolemaico, di quanto si sia pensato finché non li si sono analizzati con attenzione. Si è addirittura vinta la repulsione illuminista verso l'ermetismo misteriosofico di A. Kircher, del cui esoterismo si sono finalmente intesi i presupposti, dopo che, a fronte del glorioso avvento della scienza moderna, era stato giudicato con la commiserazione che si prova dinanzi a chi commette errori madornali e ridicoli. Di riflesso anche la nitida prosa di Galilei è considerata con atteggiamento più articolato: non più retaggio esclusivo della lezione rinascimentale, né ristretta nell'esame alle sole pagine esteticamente belle ed eleganti, ma osservata con più pertinenza dal punto di vista dello scienziato che da una parte aspira alla chiarezza del linguaggio denotativo e biunivoco, dall'altra non esita a ricorrere anche alle tecniche retoriche per imporre la sua epistemologia. Del resto, in quegli stessi anni, che pure conobbero i più spericolati funambolismi verbali, P.S. Pallavicino auspicava per la prosa "insegnativa" un incedere che badasse più al "cibo" che al "condimento" (Del Bene, Roma 1644, pp. 342-43). In fondo, questo stesso spostamento riassume, fuori di metafora, l'evoluzione più recente degli studi sul Barocco.
bibliografia
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M. Fumaroli, L'âge de l'éloquence, Genève 1980, 20022 (trad. it. Milano 2002).
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Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, 5° vol., La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma 1997.
A. Battistini, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma 2000.
G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, Milano 2000, che raccoglie Barocco in prosa e in poesia, 1969, e La polemica sul Barocco, che fa una storia della critica sul Seicento.
I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, Atti del Convegno internazionale di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma 2002.
Estetica barocca, Atti del Convegno di Roma, 6-9 marzo 2002, a cura di S. Schütze, Roma 2004.
Si v. inoltre la rivista Studi secenteschi, 1-46, 1960-2005.